Diventa sempre più evidente che, dopo la riconferma di Xi Jinping al potere e con la Russia sempre più indebolita, la Cina non abbia più remore nel lanciare una sfida aperta agli Stati Uniti per diventare potenza di riferimento globale. Finora, Pechino è stata abilissima a manovrare dietro le quinte i Paesi in via di sviluppo, presentandosi come uno di loro ma, una volta che intenda agire come la superpotenza che è, dovrà assumere gli onori e gli oneri di tale posizione. Non va poi sottovalutato che il piano per mettersi alla testa del “Sud del mondo” deve fare i conti con il ruolo crescente dell’India.
Nel 2013, Xi Jinping, presidente e segretario del Partito comunista cinese, lanciò un mastodontico e ambiziosissimo piano denominato Belt and Road Intiative (BRI, la Nuova via della seta), una “strategia win-win” che, secondo quanto affermava Pechino, avrebbe consentito a tutti i Paesi del Sud del mondo di replicare gli stupefacenti progressi economici della Cina, mentre le economie avanzate avrebbero colto le incredibili opportunità offerte da uno dei maggiori mercati mondiali. Il successo immediato fu enorme e il dragone cominciò a piantare, con una progressione impressionante e senza gravi contraccolpi, una serie di bandierine in Asia, Africa, Europa, America Latina, creando una rete di infrastrutture marittime e terresti che ha reso possibile un aumento notevolissimo delle esportazioni del dragone.
Alla conquista del mondo
Xi Jinping si convinse sempre di più che la sua strategia di lungo termine avrebbe vinto senza colpo ferire quando, nel giugno del 2016, il Regno Unito votò per l’uscita dall’Unione Europea. Poco più di tre mesi dopo, un’ondata populista catapultò Donald Trump alla Casa Bianca. Vista con occhi cinesi, questa svolta indicava che le più potenti democrazie dell’Occidente si stavano ritirando dallo stesso ordine internazionale che avevano contribuito a creare per rifugiarsi nel cortile di casa. Anche la caotica risposta delle democrazie liberali al coronavirus (che, non dimentichiamolo, ebbe la sua origine proprio a Wuhan) e l’assalto al Campidoglio del gennaio 2021 convinsero la dirigenza del Partito comunista cinese che le potenze occidentali si stavano incamminando sul sentiero del declino irreversibile. L’11 gennaio 2021, durante la cerimonia di apertura di un seminario per la sessione plenaria del XIX Comitato centrale del partito, Xi Jinping dichiarò che il “tempo e lo slancio del momento stanno dalla nostra parte” mentre l’elite che plasma la politica estera riteneva che si stesse aprendo un “periodo di opportunità storiche”.
Il luogo e il tono di quelle dichiarazioni hanno mostrato che la Cina è passata dal coltivare i propri interessi regionali, come giustamente persegue qualunque potenza di quelle dimensioni, ad affermare in modo sempre più determinato un suo ruolo internazionale, non insieme agli Stati Uniti ma in alternativa ad essi, creando un nuovo ordine mondiale che faccia riferimento a Pechino e non più a Washington. La mediazione tra Iran e Arabia Saudita e l’ipotetico ruolo pacificatore nel conflitto ucraino non sono che la logica conseguenza di quella svolta. In un suo articolo sul New Yorker del 13 gennaio 2020, Evan Osnos ha affermato che Pechino “si sta preparando a plasmare il ventunesimo secolo, nello stesso modo in cui gli Stati Uniti hanno plasmato il ventesimo”. Visto che questa è una valutazione sempre più condivisa, molti analisti, che avevano inizialmente valutato in modo positivo la Nuova via della seta, hanno rivisto le proprie posizioni anche alla luce del problema del debito che diversi Paesi in Africa e in Asia non erano più in grado di ripagare.
È diventato sempre più chiaro che la BRI non mirava a integrare Pechino all’interno dell’economia di mercato globale, ma puntava a “cinesizzare” gli scambi internazionali che si erano rivelati asimmetrici e favorevoli soltanto ad una parte, altro che “strategia win-win”. Interagendo con una fitta rete di centri finanziari offshore sparsi nei vari continenti, le banche e le borse cinesi sono riuscite a collegarsi sempre di più con l’estero, agendo però dall’interno di un sistema finanziario che opera stretti controlli sui flussi internazionali di capitale, presenta un regime di fluttuazione controllata dei tassi di cambio grazie a un settore creditizio interamente di proprietà pubblica. Non è quindi la Cina che apre al mondo il proprio settore finanziario, rispettando le regole condivise internazionalmente, ma è il mondo che è costretto ad accettare una crescente presenza cinese sui mercati globali e, per sovrappiù, a condizioni di favore.
I campanelli d’allarme
Pechino, che opera principalmente tramite la China Development Bank e la Export-Import Bank of China, si è sempre presentato come prestatore di ultima
istanza che non impone particolari condizioni, soprattutto per quei Paesi che sono stati emarginati dalle rigide regole del sistema creditizio internazionale. Il 9 luglio 2022, decine di migliaia di dimostranti si sono riversati nelle strade di Colombo, la capitale dello Sri Lanka, e hanno circondato la residenza del presidente della Repubblica che si è dimesso ed è fuggito all’estero. Cosa era successo? Il Paese era semplicemente caduto in quella che è stata definita la “trappola del debito” di Pechino ed era in bancarotta, quindi non più in grado di onorare i propri impegni. L’immagine accattivante di favolosi progetti infrastrutturali che avrebbero sospinto le economie povere verso un futuro di pace e benessere cadeva in frantumi. Diversi Paesi africani si trovano nelle condizioni dello Sri Lanka e questo getta ombre pesanti sulla BRI.
Anche se formalmente la Cina afferma di concedere prestiti senza condizioni stringenti, in realtà nei contratti sono presenti clausole confidenziali che garantiscono la priorità ai creditori cinesi. Il sito FDIintelligence, collegato al Financial Times, ha pubblicato a marzo 2023 uno studio su 100 contratti in cui esistevano clausole che prevedevano la creazione di un conto controllato da Pechino su cui venivano depositati, come garanzia collaterale, i proventi delle vendite di beni da parte del creditore. Viene fatto l’esempio di un prestito concesso all’Ecuador nel 2010 per 1 miliardo di dollari garantito dal petrolio. Il contratto prevedeva inoltre anche delle clausole che impedivano al governo di fare scelte politiche che potessero danneggiare “qualunque entità cinese nel Paese debitore”. Una clamorosa perdita di sovranità. Nel caso dell’Argentina, era invece stata imposta una clausola “No Paris Club”, con riferimento ai principali Paesi creditori che si erano riuniti in associazione per incassare almeno una parte del debito. In questo modo, Pechino si garantiva il ripagamento prioritario rispetto agli altri creditori.
Ma anche quando non esistono clausole specifiche, le pressioni per l’estinzione del debito costringono il Paese debitore a compiacere le scelte politiche di Pechino. Nel caso in cui sia il petrolio a fungere da collaterale, quando i prezzi scendono le esportazioni devono aumentare e questo mette le economie sotto enorme pressione. Nel caso già citato, a causa del suo crescente indebitamento, l’Ecuador è stato costretto a negoziare col Fondo Monetario Internazionale un prestito di emergenza per 4,2 miliardi di dollari nel 2019 e, nel 2020, un altro prestito per un ammontare di 6,5 miliardi di dollari. Si capisce quindi come la Cina possa far ricorso a un ampio ventaglio di opzioni, politiche ed economiche per favorire i propri disegni politici.
Chi guiderà il Sud del mondo?
All’interno delle Nazioni Unite esiste dal 1964 un blocco di nazioni definito Gruppo dei 77 (abbreviato in G-77) di cui fanno parte Paesi in via di sviluppo dell’Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Caraibi. Il numero degli aderenti è attualmente arrivato a 130, un gruppo di interesse molto rilevante. Da tempo, Pechino tiene incontri usando la formula “G-77 più Cina” durante i quali chiede appoggio alle sue iniziative. Questo ruolo cinese non può certo essere trascurato quando si vanno ad analizzare certe astensioni sul voto di condanna dell’ONU per l’invasione russa dell’Ucraina. Il rafforzamento del ruolo della Cina ha subìto una battuta d’arresto con le crescenti difficoltà di ripagare i faraonici progetti finanziati dalla Nuova via della seta e le difficoltà economiche collegate all’esplosione della pandemia di Covid-19. In questo nuovo contesto, comincia ad assumere un ruolo crescente l’India, certamente meno sviluppata e potente della Cina, ma con un ruolo centrale nel Movimento dei Paesi non allineati e con una politica internazionale meno interventista. Inoltre, a differenza della Cina e pur con tutte le sue carenze giuridiche e sociali, l’India è una democrazia.
Proprio per il suo profilo nazionale e le sue grandi sacche di povertà e sottosviluppo, Delhi si considera più qualificata della ricca e potente Cina per assumere la guida di un gruppo di nazioni che hanno le sue stesse difficoltà. Questa strategia viene certamente favorita dal fatto che nel dicembre 2022 l’India ha rilevato dall’Indonesia la presidenza del G20 e ha scelto come linea guida lo slogan “Una Terra, una famiglia, un futuro”. Al di là delle enunciazioni retoriche, è un dato di fatto che Delhi ha strette relazioni con i Paesi sviluppati e, al tempo stesso, comprende ed esprime bene le posizioni dei Paesi in via di sviluppo. Si trova quindi in un’ottima posizione per interpretare il ruolo propulsore nel sostenere il concetto che non dovrebbe esserci un primo mondo, né un Terzo Mondo, ma un “unico mondo” da creare tramite una strategia di “progresso globale”.
Il primo ministro indiano Narendra Modi ha volutamente lasciato trapelare che Delhi intende giocare un ruolo attivo per diventare un leader del Sud globale e che persegue una strategia specifica a questo proposito. Durante le riunioni di preparazione per l’incontro del G20, che si terrà a Nuova Delhi il 9 e 10 settembre 2023, l’India proporrà discussioni sull’indebitamento eccessivo, sul problema alimentare, quello energetico e l’emergenza climatica. Dopo gli incontri preliminari, Modi sarà chiamato a coordinare le politiche di Stati Uniti, Europa e Giappone per trovare soluzioni durante l’incontro al vertice di settembre. La presidenza di turno del G20 rappresenta un’opportunità cruciale per Delhi che intende assumere il ruolo di portavoce dei Paesi in via di sviluppo ed erodere lo spazio negoziale di Pechino, per due ragioni principali. Mentre il dragone ha ottimi canali col Sud del mondo ma entrature sempre più complicate verso le nazioni sviluppate, dato l’attuale clima di quasi guerra fredda, Delhi ha relazioni eccellenti con entrambi i gruppi. Inoltre, il brutale espansionismo militare di Pechino nel Mar cinese meridionale, ha creato un clima di forte tensione con altri Paesi dell’Asean (l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico) e appannato l’immagine bonaria e pacifica che la Cina vuole dare di sé. Ci sono tutti gli elementi per ritenere che quest’anno sarà importante per ridefinire i rapporti internazionali per il prossimo futuro.
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