Oil geopolitics: guerre del petrolio e del gas, degli oleodotti e dei gasdotti

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1972

Di Leonardo Servadio

La genialità della visione geopolitica espressa da Halford Mackinder sin dalla fine dell’800, consiste nella capacità di dare una spiegazione coerente a fenomeni politici e strategici che avvengono senza che siano necessariamente stati pianificati, così come, del pari, consente di spiegare comportamenti la cui natura non sempre è del tutto nota a chi li pone in essere. Infatti il fulcro dell’argomentazione del pensatore inglese è consistito nella constatazione che il dominio dei mari, di cui l’impero britannico andava fiero, non sarebbe più stato sufficiente in futuro: con lo sviluppo di strade e ferrovie, la vecchia Europa avrebbe cessato di essere il centro del mondo. Questo sarebbe diventato il cuore dell’Eurasia, l’isola del mondo, la landmass per eccellenza: qui sarebbero passate vie di trasporto tra est e ovest più rapide delle rotte marine, qui si sarebbero trovati ricchi giacimenti di minerali. Gli eventi strategici avrebbero ben potuto aver luogo lungo i suoi bordi o nei vasti mari, ma comunque prima o poi chi dominasse l’Eurasia avrebbe dominato il mondo.

Il recente volume curato da Aldo Ferrara, Albina Colella, Pino Nicotri e Jacopo Tondelli per l’Ergam –European Research Group on Automotive Medicine, “Oil geopolitics, quelle condotte insostenibili” (prefazione di Elly Schlein, edizione Agorà & Co, Lugano) fornisce una messe di dati e analisi relativi alle recenti evoluzioni economiche e strategiche che sostanziano la giustezza della visione di Mackinder, e l’aggiornano. Anzitutto mostrando come, prima che il dominio sulla terra in quanto tale, ciò che mobilita i desideri e le forze di gruppi, persone, stati è il controllo della materia prima per eccellenza, gli idrocarburi, cioè quel che da quando s’è diffuso il motore a scoppio fa girare il mondo nonché le teste di coloro che in questo mondo detengono il potere.

Che tutte le guerre combattute in Medio Oriente dal 1948 in poi siano collegate a dispute relative all’oro nero è un fatto da chiunque dato per scontato. Quel che è avvenuto negli anni più recenti, è che alle ampie zone della penisola araba e del golfo persico (dove si trovano i principali produttori) si sono aggiunte aree estrattive di petrolio e gas nella regione di Azerbaijan e Kazakhstan, che si trovano lungo i percorsi seguiti dall’antica via della seta, oggi ripresi dall’iniziativa One Belt One Raod che innerva la politica estera cinese attuale. E che in particolare da quando nel 2003, con la geniale astuzia che ne ha contraddistinto l’opera di presidente statunitense, George W. Bush figlio decise di far fuori definitivamente il regime di Saddam Hussein (che le amministrazioni di cui suo padre era stato vicepresidente e presidente negli anni Ottanta avevano ampiamente foraggiato in precedenza), si sono rinfocolati gli scontri di carattere religioso tra sunniti e sciiti, accompagnati da quelli di carattere economico-strategico relativi al controllo dei punti di estrazione di idrocarburi e delle condotte preparate per trasportarli in Europa.

Una questione rilevante al proposito essendo (è un rilevante esempio della logica della geostrategia degli idrocarburi) che tra la penisola del Qatar e l’Iran, dagli anni Settanta è nota la presenza di un imponente giacimento di gas che potrebbe rifornire l’Europa via apposita tubazione. Dopo che per anni lo sfruttamento di tale giacimento Qatar-Iraniano è stato tenuto in sospeso, la possibilità di attivarlo è divenuta, a metà del secondo decennio del nuovo millennio, una concausa nello scontro che si è acceso in Siria, paese che dovrebbe essere attraversato da tale conduttura. Sulla Siria si combattono gli interessi russo-siriani da un lato, e quelli americani e sauditi dall’altro.

Il tutto complicato dal fatto che questi interessi non si fondano su linee politiche definite, ma possono variare con subitanea rapidità, come dimostrano i cambiamenti intercorsi tra l’amministrazione statunitense di Obama, che dal 2015 aveva propugnato l’accordo con l’Iran insieme con l’UE e la Russia ma a discapito dell’Arabia Saudita, e l’amministrazione Trump che dall’inizio del 2017 ha abbandonato platealmente tale indirizzo per riaprire il rapporto privilegiato con l’Arabia Saudita, con la quale ha firmato il maggiore accordo di vendita di armi mai raggiunto tra due paesi mentre ha denunciato l’accordo con l’Iran verso il quale ha preso a tessere una politica di scontro. Non a caso subito lo scontro si è allargato anche a Sauditi e Qatar, poiché questo paese, pur essendo arabo e sunnita, a quel punto era già impegnato nell’accordo con l’Iran (centro mondiale degli sciiti). Ma l’Iran a sua volta è implicato negli accordi con la Cina, paese che lo vede come un potenziale alleato nella logica di estensione della propria rete di trasporti terrestri One Belt One Road.

In un articolo pubblicato su “Politico” nel febbraio 2016, Robert F. Kennedy jr. (figlio del senatore Bob, assassinato nel 1968, nipote del presidente John F., assassinato nel 1963) denuncia la guerra in Siria come l’ennesimo conflitto motivato dal controllo di fonti e di vie di trasporto degli idrocarburi. E riferendosi alla guerra contro la formazione terroristica ISIS, Robert Kennedy scrive: “Rendiamoci conto, quel che chiamiamo guerra contro il terrorismo è solo un’altra guerra del petrolio. Da quando quel trafficante di petrolio che è Dick Cheney [che fu vicepresidente di Bush, incaricato della gestione della crisi del terrorismo dopo gli attacchi alle torri gemelle nel 2001 – ndr] nel 2001 ha aperto la ‘lunga guerra’, abbiamo gettato al vento 6 mila miliardi di dollari per tre guerre combattute all’estero e per costruire all’interno uno stato di guerra fondato sull’idea della sicurezza nazionale. Gli unici vincitori di questi scontri sono stati i mercenari e le compagnie del petrolio, le agenzie di intelligence il cui peso è cresciuto esponenzialmente a detrimento della nostra libertà, e infine gli jihadisti che hanno sempre sfruttato la rivolta contro i nostri interventi militari per reclutare nuovi militanti”.

Uno dei pregi del volume dell’Ergam è di citare ampiamente le poche voci ragionevoli che emergono qua e là nello sconfortante scenario in cui si agitano mercanti di idrocarburi e presunti interessi di parte esercitati da stati produttori, da compagnie che trafficano in idrocarburi o da stati consumatori, tutti alla ricerca di profitti propri intesi come invariabilmente opposti a quelli di altri

Così insieme con quella di Robert Kennedy jr., sono pubblicate ampie citazioni di Enrico Mattei che negli anni cinquanta e sessanta conduceva una politica coerente con le idee riprese dal Kennedy dei nostri giorni (che furono anche di suo padre e suo zio), proclamando come egli tramite l’Agip e l’Ente Nazionale Idrocarburi si procurasse petrolio non per fare affari ma per dare all’Italia di che muoversi e di che scaldarsi e di che attivare le proprie imprese: e come lo commerciasse non cercando di mettere in ginocchio i paesi produttori, ma al contrario cercando di esaltare gli interessi comuni nel fornire tecnologie in cambio di materie prime. Quel che fece Mattei con la Libia, l’Algeria, l’Iran e altri paesi resta nella storia come un paradigma virtuoso di politica internazionale.

Al quel tempo non si erano ancora manifestati i problemi di inquinamento causato dall’uso degli idrocarburi, e Mattei ricercava e sfruttava gli idrocarburi esattamente allo stesso modo in cui promuoveva l’uso dell’energia nucleare. Il suo scopo non era il controllo delle fonti di energia per esercitare un controllo geopolitico, bensì l’uso dell’energia per promuovere il progresso industriale e civile tanto dei paesi produttori come del paese consumatore delle cui sorti si interessava: l’Italia.

Scorrendo il lungo elenco di scontri, conflitti, battaglie che si combattono per i pozzi e condutture di cui si parla nel libro, sorge la domanda se oggi vi siano ancora forze di governo capaci di studiare e attuare una politica energetica che abbia come obiettivo il benessere della nazione che rappresentano.

L’esempio positivo riferito è quello della Norvegia, in cui i denari ricavati anche dalla partecipazione in fondi di investimento e in compagnie petrolifere sono usati per promuovere l’uso delle energie pulite (eolica, fotovoltaica, idroelettrica, ecc.), e il passaggio dall’autotrazione che brucia combustibili fossili a quella elettrica.

Ma questo avviene in una condizione in cui a livello globale gli scenari futuri indicano che il consumo di petrolio e gas continuerà a crescere: queste restando nei prossimi decenni le principali fonti di energia seppure in alcuni paesi, come quelli europei, si noti la tendenza all’aumento delle fonti alternative. Quello della Norvegia è un singolo esempio nel mare magnum di coloro che si agitano per interessi meschini, egoistici e perversi che si traducono in scontri e guerre.

E la domanda che sorge, alla quale ovviamente il volume non può rispondere, è: che cosa farà la Cina in tale contesto? In che misura la sua proclamata politica “win win” che sottende un approccio alla Mattei possa veramente trovare attuazione. Per ora si vede in prevalenza che crescono le dispute sulle isole del Mar della Cina Meridionale, contese tra Cina e Stati Uniti. Se poi ci si chiede, che c’entrino gli Stati Uniti col Mar della Cina Meridionale (tanto più dopo che Trump ha voluto ritirarsi dalla Trans-Pacific Partnership), per le risposta si consulti quanto scritto da Robert Kennedy jr. Gli interessi di parte sospinti secondo la logica della forza bruta seppure ammantati da magniloquenti pretese di portare democrazia e di difendere i valori occidentali, non fanno che creare nemici e giustificare l’emergere di terrorismi in varie forme.

Zbigniw Brzezinsky teorizzò la destabilizzazione come strumento di pressione politica, ma perlopiù la destabilizzazione è compiuta nel mondo allo scopo di appropriarsi fonti di energia e le sue vie di trasporto, ci dicono gli autori di “Oil geopolitics”.

Ora che il terreno sul quale avvengono tali dispute si fa sempre più prossimo al cuore della landmass descritto da Mackinder, baricentro in cui si incontrano e incrociano gli interessi di Cina Europa e Russia, è da vedere in che misura questi pesi riusciranno a conciliare i loro interessi, in che misura riusciranno a evitare che vengano contrastati da ingerenze di coloro che agiscono sui bordi del cuore del mondo…

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