Nel 2024 con il suo 8 per cento l’India è stata l’economia che è cresciuta di più al mondo, mostrando però enormi contraddizioni. È la terra del Mahatma Gandhi ma anche dell’RSS, un’organizzazione paramilitare di estrema destra con esplicite simpatie fasciste, che vuole creare una nazione riservata ai soli hindu e si ripropone di espellere la minoranza musulmana (sono 250 milioni). Tutti noi conosciamo i santoni che dedicano la loro vita alla conoscenza e alla meditazione, ma ci sono monaci hindu che controllano estremisti che bruciano villaggi musulmani, linciano e picchiano chi non rispetta i codici di condotta sociale delle caste. L’India è il Paese del Kamasutra, ma anche uno dei posti peggiori al mondo dove nascere donna. Un saggio chiaro e argomentato ci aiuta a capire meglio le enormi contraddizioni di una realtà destinata a giocare un ruolo crescente nel nostro futuro.
L’India, dal 2024 il Paese più popoloso al mondo, riveste una posizione centrale nell’attuale geopolitica perché è corteggiata dagli USA, che vogliono integrarla nella loro strategia di contenimento della Cina, e dall’Europa, che vagheggia la possibile apertura di un mercato enorme, nel momento in cui si prospettano grandi difficoltà per quello americano. L’India è alleata dell’Occidente ma ha mantenuto buoni rapporti con la Russia, riveste un ruolo centrale nei Brics insieme alla Cina e, nello stesso tempo, non nasconde più le proprie ambizioni di diventare una grande potenza globale. Tutto questo collide drasticamente con la visione della terra dei guru e della meditazione, dei fiori offerti con un sorriso, dei viaggi dei Beatles alla ricerca del proprio io interiore. Un’immagine edulcorata, molto diversa invece da quella ricostruita da Matteo Miavaldi, un giornalista che ha soggiornato a lungo nel Paese asiatico e che delinea un ritratto aggiornato, drammatico e scioccante al tempo stesso.
Il Paese della non violenza?
Il Mahatma Gandhi è la figura che noi associamo all’India, come se fossero perfettamente sovrapponibili, ma oggi non è più così perché il potere è saldamente nelle mani dei discendenti dell’assassino di Gandhi. L’attuale primo Ministro Narendra Modi, che grazie a una magistrale campagna d’immagine viene percepito dal mondo come un fervente hindu che pratica la meditazione e lo yoga, è cresciuto politicamente all’interno di una visione radicale dell’induismo che ha le sue radici nel movimento fondato negli anni venti del secolo scorso da Vinayak Damodar Savarkar, un estremista hindu che ritiene che la «razza hindu» comprende chi considera il territorio indiano come la propria «sacra madreterra» e discende direttamente dalla «cultura sanscrita». Rimangono fuori da questa visione «gli eredi dei grandi invasori: i musulmani, che hanno regnato sull’Asia meridionale per più di seicento anni, e i cristiani arrivati con la dominazione occidentale alla fine del XVIII secolo». Nel 1925 viene fondata la Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS, Organizzazione volontaria nazionale), con l’obiettivo di diffondere l’ideologia del nazionalismo hindu, difendere e promuovere i «valori hindu» e portare ordine e disciplina tra i ranghi della comunità, in vista della fondazione della «nazione hindu».
Mentre il nazionalismo hindu comincia a diffondersi tra i ranghi di chi si oppone sia alla dominazione britannica sia al Partito del Congresso (che in alleanza con Gandhi conquisterà l’indipendenza nel 1947), Benito Mussolini prende il potere in Italia e, in un colpo solo, riesce a portare ordine e disciplina nella penisola. I nazionalisti hindu ne sono affascinati e le gesta del fascismo vengono minuziosamente riportate sulle pubblicazioni clandestine del RSS e dell’Hindu Mahasabha, il partito nazionalista hindu. L’ammirazione verso il regime mussoliniano è così forte che B.S. Moonje, presidente del Mahasabha, di ritorno da un viaggio a Londra, decide di fermarsi in Italia per qualche giorno per vedere da vicino come funzionava il fascismo. Ospite del dittatore italiano, visita le principali istituzioni fasciste e ne rimane affascinato. Scrive infatti che «l’idea del fascismo fa emergere vividamente il concetto di unità del popolo. […] L’India, e in particolare l’India hindu, necessita di istituzioni simili per la rigenerazione militare degli hindu: di modo che la distinzione artificiosa così tanto enfatizzata dai britannici tra classi marziali e non marziali possa scomparire».
Il nazionalismo hindu non ebbe alcun ruolo nella conquista dell’indipendenza ottenuta grazie al Partito del Congresso e alla lotta non violenta di Gandhi. Il Mahatma (grande anima) fu assassinato nel 1948 da Nathuram Godse, un fanatico hindu membro dell’RSS che lo accusava di aver tradito l’India per aver accettato la nascita di uno stato in cui erano presenti anche i musulmani. L’RSS, la più grande organizzazione paramilitare di estrema destra al mondo, ha dato vita a vari organismi tra cui il Bharatiya Janata Party (BJP), il partito a cui appartiene da sempre l’attuale Primo ministro Narendra Modi. Abilissimo propagandista e sottile manipolatore, Modi è riuscito a costruirsi un’immagine pop di monaco laico, dedito alla meditazione, allo yoga e diffusore di messaggi di pace ed equilibrio interiore.

Nel 2014, durante il suo primo viaggio negli USA, Modi riuscì a farsi invitare al Global Citizen Festival, una rassegna musicale organizzata al Central Park di New York per raccogliere fondi da destinare alla lotta contro la povertà nel mondo. Afferrato il microfono, Modi si lanciò in un pistolotto sull’importanza dei giovani, sulla speranza di un futuro migliore e su quanto fosse orgoglioso di ognuno di quei ragazzi lì sotto il palco che avevano a cuore le sorti di chi era meno fortunato. Quando la cantilena di Modi sta arrivando alla conclusione, proprio all’ultimo, giunge il colpo di genio. Il Primo ministro ringrazia l’organizzazione, ringrazia l’attore Hugh Jackman che presentava l’evento, e chiude il suo intervento con «God bless you… and may the force be with you!». La folla esplode in un boato. Non c’è che dire, Modi è stato bravissimo a costruire la sua immagine di vecchio santone con le mani giunte che distribuisce saggezza e ghirlande di fiori. Ci sono però una serie di eventi, anche abbastanza noti, che dimostrano se non proprio una sua partecipazione, quantomeno una sua vicinanza a gravissimi fatti di sangue da cui non ha mai preso le distanze.
I pogrom anti islamici
Nel 1991 il BJP, il partito di Modi, vince le elezioni nello stato dell’Uttar Pradesh dove si trova la città di Ayodhya che ospita un’antica moschea che i fanatici hindu accusano, senza prove storiche, di sorgere sui resti di un tempio hindu. Da tempo gli estremisti del BJP e dell’RSS stanno conducendo una campagna per distruggere la moschea ed edificare al suo posto un tempio hindu e la recente vittoria elettorale crea il clima adatto per portare a termine l’operazione. Il 6 dicembre 1992 una folla composta da militanti dell’RSS, del BJP, ma anche da parecchi sadhu, gli asceti delle varie correnti dell’induismo, circondano minacciosamente la moschea. «Non è chiaro -scrive Miavaldi- se ci sia stato un segnale deciso prima della manifestazione o se, come dicono quelli della Sangh Parivar [un’organizzazione radicale hindu], a un certo punto l’entusiasmo della folla abbia preso il sopravvento. Quello che è certo, e che si vede chiaramente dalle riprese video dell’epoca, è che d’un tratto la folla inizia a forzare le barricate della polizia. Gli agenti si scansano, non oppongono la minima resistenza, e migliaia di estremisti entrano nel complesso della moschea». Quando cala la sera la storica moschea di Ayodhya è ridotta a un cumulo di macerie.
Quando in tutto il Paese si diffonde la notizia della demolizione, nelle strade delle principali città i musulmani e gli hindu iniziano a scontrarsi. I morti si contano a migliaia. Solo a Bombay, nei cosiddetti Bombay Riots del 1992, quando i gruppi organizzati della Sangh Parivar prendono d’assalto i quartieri dei musulmani, muoiono quasi mille persone. Il clima diventa incandescente e la tensione tra hindu e musulmani cresce sempre di più e riesplode di tanto in tanto. Nel 2002 Narendra Modi, un quadro del BJP divorato da una bruciante ambizione, diventa governatore dello stato del Gujarat. Poco dopo, nella stazione di Godhra un vagone pieno di pellegrini hindu, di ritorno proprio da Ayodhya, va a fuoco. Muoiono cinquantasette persone. Nessuna sigla terroristica rivendica l’attentato: probabilmente è stato un incidente, ma in Gujarat e nel resto dell’India prende piede l’idea che siano stati i musulmani.
«A poche ore dalla notizia dell’incendio di Godhra, in tutto il Gujarat la Sangh Parivar mobilita migliaia di volontari. Si organizzano in squadre, setacciano palmo a palmo i quartieri a maggioranza musulmana, e uccidono chiunque capiti a tiro. Incendiano case, negozi e moschee. I più fortunati muoiono in scontri a fuoco, ma tantissimi e tantissime saranno letteralmente trucidati e sventrati dagli squadroni della morte dell’estremismo hindu. Per giorni la polizia non solo non interviene, ma secondo alcune ricostruzioni avrebbe fornito agli estremisti gli indirizzi di casa dei principali leader politici e religiosi della comunità musulmana». Modi, i suoi ministri e i vertici della polizia del Gujarat hanno sempre respinto le accuse e a oggi non c’è una sentenza definitiva che colleghi personalmente l’attuale Primo ministro all’organizzazione dei pogrom anti musulmani.
Grande fratello in salsa indiana
Il 7 novembre 2016 Modi, divenuto Primo ministro nel 2014, annuncia la demonetizzazione istantanea, ufficialmente per combattere la «corruzione e l’evasione fiscale». Senza alcun preavviso, tutte le banconote da 500 e 1000 rupie sarebbero andate fuori corso, sostituite da nuove banconote da 500 e 2000 rupie, introdotte «presto» in tutto il Paese. Le banconote da 500 e 1000 rupie, la sera del 7 novembre, rappresentavano l’87% di tutta la cartamoneta in circolazione nel Paese. Nel giro di quattro ore, quasi nove banconote su dieci in tutta l’India sarebbero diventate carta straccia. Il problema era che per centinaia di milioni di indiani i conti bancari e i pagamenti cashless erano concetti lunari per cui una fetta enorme della popolazione si è ritrovata improvvisamente senza mezzi di pagamento. Un rapporto diffuso nel 2019 dalla Azim Premji University indica che la demonetizzazione avrebbe bruciato circa cinque milioni di posti di lavoro. Senza contare le centinaia di milioni di lavoratori giornalieri che, per mesi, non hanno potuto incassare la paga.
Al momento del lancio, era una rivoluzione che nell’immediato interessava una sparuta minoranza: chi aveva in parte già integrato nelle proprie abitudini quotidiane i pagamenti cashless, chi aveva gli strumenti per farlo – smartphone, conto in banca – e soprattutto chi intravedeva in questa novità digitale una qualche utilità concreta. Essendo l’India un Paese sorretto dall’economia informale, alimentata esclusivamente dal denaro contante, la maggioranza delle persone aveva sempre vissuto più o meno bene senza bisogno di un conto in banca. Basti pensare che nel 2015 solo poco più di un indiano su due aveva aperto un conto corrente e di questi il 43 per cento risultava «dormiente», inutilizzato. Lo stesso anno, in Cina, i conti correnti sfioravano l’80% per cento Con la sua brutalità, la demonetizzazione aveva ottenuto il risultato di aver costretto più di un miliardo di persone a entrare forzosamente nella nuova realtà informatizzata, che offre molte opportunità ma che è sottoposta a molti più controlli personali.
Questa spinta obbligata verso l’economia digitale fa il paio con l’avanzare del progetto Aadhaar che punta a dare un’identità digitale a tutta la popolazione indiana. Per ottenere il codice Aadhaar, gratuitamente e a titolo volontario, occorre provare di essere cittadine o cittadini indiani, fornire le proprie generalità e registrare le impronte digitali e la scansione della retina in uno delle centinaia di migliaia di punti di registrazione sparsi per il Paese. Dal 2018 anche la scansione del viso è stata inclusa tra i dati biometrici richiesti al momento della registrazione. Tutte le informazioni finiscono in un database digitale gestito direttamente da UIDAI, l’Autorità governativa a cui è affidato il compito di assegnare all’interna popolazione indiana un novo documento di identità. Nato come strumento pensato per le fasce più vulnerabili della popolazione indiana, Aadhaar è di fatto diventato un documento di identità, senza il quale vivere in India è letteralmente impossibile. Tutti i metadati vengono raccolti dal già ricordato UIDAI, catalogati e conservati in un unico grande «silos». Questo significa che, in teoria, il governo può consultare un riassunto dettagliato degli ultimi sei mesi della vita di chiunque abbia un codice Aadhaar. Cioè di quasi tutte le cittadine e i cittadini indiani. Questo aspetto non può non sollevare giustificate preoccupazioni sul rispetto della privacy.
La grande rimozione
Uno dei problemi che l’estremismo hindu si trova ad affrontare è che una porzione molto vasta dell’India settentrionale è stata conquistata e, successivamente, dominata per secoli, da dinastie islamiche che hanno edificato città, palazzi reali e moschee nello stile islamico, a partire dalla capitale New Delhi che, per più di due secoli, è stata capitale dell’impero musulmano della dinastia moghul. «Dovunque si guardi -scrive l’autore–, il centro di Delhi ci ricorda che l’islam è in tutto e per tutto parte integrante della materia di cui è fatta l’India. E che per centinaia di milioni di persone essere musulmani e allo stesso tempo indiani non rappresenta un ossimoro identitario: è la vita normale da più o meno un millennio, cioè da ben prima che esistesse un’idea di India incarnata in uno Stato-nazione. Nella New India di Narendra Modi questo è un concetto platealmente sotto attacco. L’ascesa della destra hindu rappresentata dal partito di Modi, il BJP, e dalla galassia di organizzazioni estremiste hindu che fa capo alla RSS, ha coinciso con un aumento esponenziale di campagne d’odio che prendono di mira una «minoranza» religiosa di 250 milioni di persone. Dopo l’Indonesia, l’India è il secondo Paese musulmano al mondo».
I musulmani vengono sistematicamente discriminati quando cercano casa, quando cercano lavoro e quando vengono retribuiti per il lavoro che fanno. Ma soprattutto, sono sempre più vittime di crimini violenti perpetrati da una galassia di milizie hindu aizzate da una retorica dell’odio in crescita costante: nel 2024 l’Ong statunitense India Hate Lab ha rilevato che solo nel 2023 in 668 discorsi pubblici di varia natura – comizi, festività religiose, interventi in eventi organizzati dalle sigle dell’estremismo hindu ecc. – dal palco sono state pronunciate parole di odio contro la comunità musulmana; in più di un discorso su tre era incluso un invito esplicito alla violenza. Soprattutto nell’India settentrionale, sono nate numerose milizie armate composte da gau rakshak («protettori della mucca», in hindi) che pattugliano giorno e notte strade e villaggi per far rispettare la sacralità della mucca. «Di fatto si tratta di squadre di estremisti hindu che, con la scusa della vacca, assaltano, malmenano e talvolta uccidono chiunque sospettino stia trafficando, macellando o mangiando una mucca. Per entrare in azione non servono indagini, non sono necessarie né prove di colpevolezza né il coinvolgimento delle autorità competenti: basta il sospetto».

Se non fosse tragica, la campagna lanciata dal governo contro la cosiddetta love jihad è veramente grottesca. Si tratta del contrasto a un presunto piano di sostituzione demografica che la minoranza musulmana starebbe portando avanti addestrando milioni di giovani nell’arte della seduzione. Il piano sarebbe quello di irretire giovani induiste, farle convertire all’islam e procreare con loro tanti figli che andrebbero poi ad aumentare il numero dei fedeli islamici. Sembrerebbe il delirio di un ubriaco in un’osteria se non fosse che, dal 2017, nello stato dell’Uttar Pradesh sono state istituzionalizzate delle ronde che comprendono polizia locale e unità speciali che hanno il compito di contrastare il fenomeno delle molestie a sfondo sessuale da parte di tutti, ma con un’attenzione particolare ai giovani musulmani. Ma il governo non mira a colpire soltanto la minoranza musulmana e cristiana. Molte Ong che sollevano problematiche sgradite al BJP al potere sono state ridotte al silenzio o fortemente ridimensionate. Greenpeace India, colpita da numerose ispezioni della guardia di finanza e dal blocco periodico dei conti correnti, è stata costretta a chiudere due dei suoi quattro uffici regionali. Provvedimenti simili hanno colpito anche Amnesty International, Oxfam, Ford Foundation, Save the Children e il Centre for Policy Research, tra i centri di ricerca più autorevoli e rinomati del Paese, accusato di sostenere economicamente «proteste e battaglie legali contro progetti di sviluppo» per «colpire gli interessi economici dell’India».
Per Freedom House (l’organismo non governativo che conduce attività di ricerca e sensibilizzazione sulla democrazia) l’India oggi è una democrazia «parzialmente libera». Per l’Economist Intelligence Unit è una «democrazia imperfetta». Per il V-Dem Institute non è proprio più una democrazia, ma un’«autocrazia elettorale». Nonostante questo, Modi è diventato il beniamino di tutte le cancellerie internazionali (con l’unica eccezione della Cina con cui esistono storiche rivendicazioni territoriali e una aspra concorrenza economica) che sperano di cooperare con l’astro nascente dell’economia mondiale per trarne indubitabili vantaggi di tipo economico e geopolitico. Nel suo piccolo, anche l’Italia ha approfondito i suoi legami con Delhi, con l’obiettivo di entrare a pieno titolo nell’IMEC, il corridoio che dovrebbe collegare l’India con il Mediterraneo, un esplicito contraltare alla Belt and Road Initiative di Pechino. Visto che secondo il ministro della Difesa Guido Crosetto «Giorgia è una che studia» ci permettiamo di consigliarle sommessamente la lettura di questo saggio, convinti che ne potrà trarre un utile giovamento.
Matteo Miavaldi
Un’altra idea dell’India
Viaggio nelle pieghe
del subcontinente
add editore, pp. 288, euro 20
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