Hamilton vs. Wall Street: il dilemma della politica economica attuale

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Parlando della conservazione dello “stato di salute” delle repubbliche, Machiavelli scrive: “Ed è cosa più chiara che la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano. Il modo del rinnovargli, è, come è detto, ridurgli verso e’ principii suoi(Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio, libro III, cap. 1): in altri termini, le repubbliche devono sempre progredire, ma mantenendo saldi i loro principi fondativi. Ha evidentemente in mente un’identica idea Nancy Bradeen Spannaus* nel pubblicare oggi “Hamilton versus Wasll Street. The Core Principles of the American System of Economics” (iUniverse, pagine 222, dollari 13,99). Perché gli Stati Uniti sono sorti alla fine del XVIII secolo raccogliendo il meglio delle tradizioni giuridiche ed economiche europee, rielaborate alla luce degli eventi che condussero alla Rivoluzione del 1776 e della cultura classica ravvisabile nei continui riferimenti a essa rivolti dai Padri fondatori nei Federalist Papers, ma forse mai prima d’ora, pur essendo sempre stati attraversati da crisi e controversie, erano giunti a una condizione, come quella attuale, di estraneità ai loro principi.

La storiografia non è mai neutrale, né sono neutrali i riferimenti ai precedenti storici messi in campo per spiegare, criticare o difendere, eventi o atteggiamenti correnti. E oggi, nota la Bradeen Spannaus nell’incipit, vi sono coloro che guardano a Hamilton come al padre di Wall Street, ovvero del sistematico uso della ricchezza monetaria per generare altra ricchezza contabile tralasciando in toto di usarla per fertilizzare le attività volte a migliorare le condizioni di vita di un Paese: quel che si intende come speculazione finanziaria. Ma Hamilton fu il contrario di tutto ciò.

È stato il padre della Prima banca nazionale americana (costituita nel 1791) e tale banca consentì all’economia del giovane Paese sorto dalla guerra di indipendenza e guidato dal suo primo Presidente, George Washington, di liberarsi dai debiti di guerra dai quali era oppresso e di riorganizzare la propria economia. Era una banca predominantemente di proprietà privata, ma soggetta agli indirizzi politici del governo, e Hamilton, quale ministro del Tesoro la utilizzò per dare ordine a un sistema economico che ancora non aveva una moneta nazionale e per finanziare a tassi di sconto bassi opere infrastrutturali e imprese produttive. Per liberarsi del debito di guerra, Hamilton aumentò il debito: ma in questo modo ottenne quanto era necessario per compiere investimenti produttivi. E nel medio periodo risanò l’economia nazionale. La prima banca di Hamilton, spiega la Bradeen Spannaus, funzionava secondo il principio del credito: far circolare moneta nell’economia reale, nell’attesa che in futuro l’aumento delle attività avrebbe consentito il recupero del credito esteso, non generare credito solo sulla base del capitale esistente, come si usava nel sistema britannico.

L’aspetto qualificante della politica hamiltoniana era di dirigere i flussi di investimento verso attività che davano luogo a cambiamenti significativi della struttura dell’economia fisica del paese: la costruzione di ferrovie, acciaierie, reti idriche. Il sistema infrastrutturale e produttivo necessario per gli Stati Uniti che all’epoca erano un vasto territorio vuoto.

Era una politica, spiega la Spannaus, opposta a quella oggi dominante a Wall Street, fondata sul “guadagno finanziario a breve termine e non sulla crescita economica reale”. In linea di principio lo scopo di Hamilton era di fermare le attività usuraie, favorire l’industria e non solo l’agricoltura, e preferire industria e agricoltura alle attività commerciali, che considerava una conseguenza delle, e un servizio alle, attività produttive – e non viceversa.

Egli guardava alle attività speculative come fondate sullo “spirito del gioco d’azzardo” e pertanto da scoraggiare. Infatti scrisse: “Bisogna separare gli onesti dalle canaglie, gli azionisti rispettabili da coloro che trafficano coi fondi e dai giocatori d’azzardo privi di principi“. Sono parole che mostrano come sin dai loro primi passi gli Stati Unti (come ogni Paese al mondo del resto) fossero oppressi dalla smania di arricchimenti rapidi e rapaci. Ma allora personaggi come Hamilton seppero tenerli a bada.

Reduce dalla Guerra d’indipendenza, nella quale aveva combattuto al fianco di Washington, Hamilton nella sua opere più nota, il Rapporto sulle Manifatture (1791), distingue tra il sistema economico americano e quello britannico. L’economia era la base per affermare l’indipendenza nazionale dal vecchio impero: di qui l’uso delle tariffe doganali per favorire l’industria nazionale, che all’epoca sarebbe altrimenti stata schiacciata da quella britannica. Ma insieme con un vasto ventaglio di altre iniziative volte ad aumentare le conoscenze e le abilità della popolazione e a distribuire la ricchezza tra le persone, favorendo il lavoro.

Assai significativo è che mentre redigeva il suo Rapporto sulle Manifatture, Hamilton abbia anche fondato la Società per stabilire industrie utili (SUM, Society for Establishing Useful Manufactures) tramite la quale costituì un primo grande impianto industriale e infrastrutturale a Paterson in New Jersey, accanto alle cascate del fiume Passaic: come esempio di conglomerato produttivo che servì anche quale “incubatore di imprese”. Constava di un impianto idroelettrico con la cui energia si azionavano telerie, un’acciaieria e una seteria. È il primo grande esempio di centro produttivo integrato a proprietà pubblica e privata. Da qui sono uscite le prime importanti locomotive americane, e l’impianto idroelettrico è rimasto in funzione sino ai nostri giorni.

Come spiega la Bradeen Spannaus, questo approccio propositivo e fondato sul dirigismo economico e non sul “laissez faire” di stampo britannico-specualtivo, è stato quanto ha reso quella americana la prima economia del mondo. E questo grazie al fatto che, pur se negli stessi Stati Uniti vi sono sempre state tendenze contrarie (il primo a opporsi alla politica di Hamilton fu Jefferson, sintonizzato sull’economia latifondista del sud) vi sono stati momenti cruciali in cui essa è riemersa in posizione dominante. Questo è avvenuto altre tre volte: la prima con la presidenza di John Quincy Adams (1825) quando si costituì la Seconda banca nazionale americana, anch’essa impegnata nello sviluppo di sistemi ferroviari, canalizzazioni, strade, acciaierie, fabbriche. La seconda con la vittoria di Abraham Lincoln nella Guerra di Secessione del 1862-65: con lui lavorava l’economista Henry C. Carey, che sosteneva una politica identica a quella di Hamilton. E tra il 1863 e il 1864 il Congresso ricostituì il sistema bancario nazionale e questo continuò dopo la fine della guerra e finanziò il completamento del sistema ferroviariario del Paese (per il 1890 erano state costruite 167 mila miglia di ferrovie, più di quelle esistenti in tutta Europa) e la diffusione della rete dei telegrafi che permisero per la prima volta una vera integrazione di tutto il territorio, da Est a Ovest.

Il New Deal di F.D. Roosevelt è indicato come l’ultimo grande periodo in cui la politica hamiltoniana ha prevalso: con la riorganizzazione di un sistema bancario che dopo la crisi finanziaria del ’29 separò (grazie alla legge Glass-Steagall) le banche d’affari da quelle commerciali e fondò meccanismi di controllo sulle attività bancarie, e con le grandi opere infrastrutturali volte a migliorare il territorio.

Certo anche l’amministrazione Kennedy si mosse in questa direzione, ma l’assassinio del presidente e la guerra in Vietnam impedirono che l’impegno di JFK potesse completarsi.

Dagli anni Sessanta del XX secolo gli Usa hanno teso ad allontanarsi sempre di più dal modello hamiltoniano: ne sono prova lo stato decadente delle sue infrastrutture (emblematico è il caso delle pessime condizioni del sistema idrico di Flint, ormai divenuto proverbiale) e l’aumento esponenziale delle differenze di reddito tra poveri al limite dell’indigenza e i super-ricchi.

Non è un problema solo americano. Perché tutto il mondo occidentale ancora segue la scia americana e sinora non v’è stato alcun altro Paese o insieme di Paesi capaci di dare un’impronta globale a una politica economica produttiva.

In tale contesto è significativo come appaia che proprio coloro che maggiormente trarrebbero benefici dal ritorno di una politica hamiltoniana votino a favore di personaggi come Donald Trump, per manifestare così la propria contrarietà alle politiche dominanti. Il volume della Bradeen Spannaus ovviamente non entra in tale problema, ma inevitabile è il collegamento.

E se nel panorama politico attuale, in tutto il mondo occidentale non sembra vi siano figure capaci o desiderose di riprendere l’eredità di Hamilton, quel tipo di politica si realizza in Cina. Non a caso proprio contro la Cina, in via diretta o indiretta si stanno rivolgendo gli strali di Trump.

Se la Rivoluzione del 1776 e poi la Guerra di Secessione del 1862-65 sono state combattute anzitutto tra due sistemi politico economici contrapposti – quello volto allo sviluppo dell’economia reale da un lato e quello incardinato sul laissez faire dall’altro – sembra che oggi un simile scenario si riproponga sulla scena strategica mondiale.

In tale contesto si ripropone anche il tema indicato da Machiavelli nel secondo decennio del ‘500. Sapranno gli Stati Uniti, o altre parti di quel che si chiama mondo occidentale, recuperare in politiche attive, quei principi fondativi inseriti nelle loro Costituzioni, o continueranno a essere succubi del pensiero da giocatore d’azzardo che ha prevalso in questi ultimi decenni, lasciando alla Cina il ruolo di locomotiva dell’economia mondiale?

*Nancy Bradeen Spannaus dirige il blog: https://americansystemnow.com/

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