Come viene ripetuto in maniera ormai ossessiva, il 20 gennaio il presidente eletto Donald Trump entrerà alla Casa Bianca ma, viste le enormi aspettative di cui è stato caricato questo evento, è molto probabile che l’irrealistico effetto taumaturgico che dovrebbe avere sugli affari mondiali sarà deludente per molti. Ci sono una serie di elementi fattuali che non possiamo assolutamente dimenticare. Non solo Trump è il primo presidente con una condanna penale che entra in carica ma, come mentalità e strategia, è un immobiliarista speculativo non un politico. Le sue scelte saranno dettate in primo luogo da interessi di bottega immediati, non da una visione a lungo termine. La sua roboante conferenza stampa in cui annunciava il ricorso anche alla forza militare per prendere il controllo del canale di Panama e della Groenlandia sembra ignorare che negli ultimi cinquant’anni il poderoso esercito USA ha collezionato soprattutto sconfitte. Era il 1975 quando le truppe americane abbandonavano il Vietnam con la coda tra le gambe e non è andata molto meglio in Afghanistan. Contrariamente alle aspettative dei populisti, le fanfaronate di un palazzinaro pieno di sé rischiano di esacerbare ulteriormente una situazione già incandescente.
Il presidente neoeletto ha promesso una “nuova età dell’oro” agli americani, non al resto del mondo. C’è il rischio concreto che le aspettative vadano deluse anche nel caso in cui Trump facesse scelte più pragmatiche, rispetto alle dichiarazioni esplosive della campagna elettorale. Ci sono però due elementi di cui dobbiamo assolutamente tener conto: nel 2016 l’associazione degli psichiatri americani pubblicò un documento in cui definiva la personalità di Trump “non adatta” alla funzione di presidente. I suoi primi quattro anni hanno evidenziato una visione ideologica e un’impulsività che dimostrano come l’alta carica ricoperta non l’abbiano aiutato a sviluppare quelle doti di equilibrio, saggezza e lungimiranza che dovrebbero caratterizzare un politico responsabile. L’assalto al Campidoglio e il suo rifiuto di accettare l’elezione di Joe Biden sono stati la conferma plateale dell’inadeguatezza emotiva di Trump.
Il secondo aspetto è che sono definitivamente saltati gli equilibri emersi dalla Seconda guerra mondiale e c’è un bisogno disperato di statisti con visioni a lungo termine che possano ridefinire un nuovo ordine globale. L’alternativa a questa prospettiva è una guerra di tutti contro tutti. Il problema è che con Trump gli Stati Uniti, il cuore pulsante dell’ordine liberale e democratico, rischiano di far saltare tutte le istituzioni che fungono da camera di compensazione delle tensioni internazionali. L’amministrazione che si insedierà tra qualche giorno contesta ogni singolo elemento che sorregge l’ordine liberale internazionale: le Nazioni Unite, il commercio, le alleanze, le migrazioni, il multilateralismo, la solidarietà democratica, i diritti umani. Trump ragiona come uno speculatore, pensa di ridurre la complessa dialettica mondiale a una serie di accordi vantaggiosi, come farebbe un uomo d’affari. Non possiede gli strumenti culturali per comprendere la Storia con la “s” maiuscola e, purtroppo, il mondo si trova di fronte a una svolta epocale.
Le illusioni e la realtà
I leader populisti in Europa, America Latina e Israele fantasticano di poter trarre vantaggio dalla nuova situazione e sognano di indebolire fortemente l’Europa, depotenziare se non proprio distruggere del tutto il complesso apparato regolativo della UE, creare una nuova architettura di sicurezza con la Russia, arrivare addirittura a un cambio di regime in Iran. I partiti populisti sperano che le affinità ideologiche favoriranno un rapporto privilegiato con la nuova amministrazione ma potrebbero rimanere delusi perché lo slogan America First sarà interpretato alla lettera. Un secondo gruppo, guidato dalla Cina, valuta che se gli Stati Uniti inizieranno a rappresentare un fattore di instabilità, questo aprirà enormi opportunità per ridisegnare l’ordine globale a vantaggio di Pechino. Sembra che Trump sia abbastanza cosciente di questo rischio visto che ha minacciato di imporre dazi del 100 per cento ai Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Iran, Egitto, Etiopia ed Emirati Arabi Uniti) se tenteranno di sostituire il dollaro statunitense con un’altra valuta.
Un terzo gruppo, quello formato dagli europei e dalle democrazie del G7, conta di blandire il tycoon in qualche maniera, facendo compromessi e negoziando punto per punto sulle richieste americane, sapendo però di non avere il coltello dalla parte del manico. Il 7 gennaio 2025, appena dopo la certificazione della sua elezione, The Donald ha convocato una conferenza stampa nella sua residenza di Mar-a-Lago dove ha tratteggiato una ipotetica conquista “con la forza militare” della Groenlandia e del canale di Panama a cui ha aggiunto minacce dirette riguardo a un’annessione “per via economica” del Canada, destinato a diventare il “51° stato americano”. Se è vero che queste affermazioni sembrano contraddire l’impegno elettorale a non farsi coinvolgere in conflitti e crisi internazionali, spiegano però in modo chiarissimo come il presidente eletto intende mettere in pratica il concetto America First: Washington punta a salvaguardare la sicurezza e l’interesse americano con qualunque mezzo, anche a costo di travolgere alleanze, violare la sovranità di stati indipendenti e far carta straccia del diritto internazionale.
In Italia ci si illude che la presidente Meloni sia riuscita a forgiare una “special relationship” con Trump (e Musk) che metta il nostro Paese in una posizione privilegiata nel trattare con la prossima amministrazione americana. Si dimentica così che la piattaforma sulla quale Trump è stato rieletto prevede una politica che dà priorità assoluta alle dinamiche economiche degli Stati Uniti che dovrebbero favorire principalmente i loro interessi nazionali. Come affermava Lord Palmerston, il ministro degli Esteri e poi premier dell’Impero britannico che ebbe un ruolo importante nel rendere possibile la nascita del Regno d’Italia in funzione anti austriaca, in politica internazionale non esistono “amicizie” ma solo “interessi”. Trump intende usare il suo approccio transazionale con ogni singolo Paese, in un rapporto rigorosamente bilaterale che non farebbe altro che dare il colpo di grazia a un’Europa che non sta dando segni di esistenza in vita. In ogni caso, la linea della futura Casa Bianca è una contraddizione in termini perché da un lato vuole evitare ogni coinvolgimento militare ma, allo stesso tempo, minaccia una guerra contro un alleato della NATO come la Danimarca che ha la sovranità sulla Groenlandia.
Una fallimentare politica militare
Trump sventola la minaccia dei dazi per mettere in riga amici e nemici, costringere tutti a comprare merci americane per ridurre il deficit commerciale, ma ha ripetutamente accennato anche all’ipotesi di un uso massiccio della forza. Se, secondo il tycoon, il Canada andrebbe annesso usando la potenza dell’economia a stelle e strisce, il Messico rischia invece un attacco militare volto a spazzar via i potentissimi cartelli della droga che continuano a inondare gli USA di fentanyl e cocaina. Qualunque analista con un minimo di preparazione militare sa benissimo che questa ipotesi è una follia che avrebbe costi enormi in termini di vittime civili ma soprattutto esporrebbe l’America alle ritorsioni dei cartelli messicani che hanno una presenza capillare negli Stati Uniti. Washington è pronta ad affrontare centinaia o migliaia di autobomba che esplodono nei centri delle città americane? L’esercito degli Stati Uniti è certamente il più potente e tecnologicamente avanzato al mondo ma la politica non ha mai saputo ottenere risultati positivi dai propri successi militari, in modo da conquistare i cuori e le menti degli ex nemici e vincere così la pace.
La guerra del Vietnam è durata vent’anni (1955-1975) e ha segnato una sconfitta drammatica per gli USA. L’invasione dell’Afghanistan, accusato di ospitare gli organizzatori del feroce attentato alle Torri gemelle del settembre 2001, è iniziata il 7 ottobre 2001 ed è terminata il 31 agosto 2021, quando gli ultimi militari americani hanno abbandonato l’aeroporto di Kabul, sulla base di un accordo siglato a Doha e negoziato dall’amministrazione Trump. Uno studio del Watson Institute for International & Public Affairs della Brown University (Rhode Island, USA) documenta come il costo totale dell’operazione sia stato di 2.313 miliardi di dollari (e la somma non include il mantenimento a vita dei veterani di quella guerra, né i futuri pagamenti degli interessi sui prestiti che hanno finanziato l’invasione). Il risultato? I talebani controllano capillarmente l’Afghanistan e hanno bandito le donne dalla vita pubblica, instaurando un nuovo medioevo. Ne valeva la pena? Le due guerre contro l’Iraq, sempre secondo la Brown University, sono costate quasi 2.000 miliardi mentre la Harvard Kennedy School stima la cifra a oltre 3.000 miliardi di dollari. Il risultato? Centinaia di migliaia di morti tra gli iracheni, un Paese distrutto e destabilizzato e un notevole aumento dell’influenza di Russia e Iran nell’area.
Ucraina e Medio Oriente
Di fronte al rischio che Trump possa stringere un accordo con Putin sulla testa di Kyiv, alla fine di novembre 2024 il presidente Zelensky ha tentato un’azione preventiva proponendo un cessate il fuoco che punti soltanto sulla diplomazia per riguadagnare i territori persi dal 2014 in poi. Come controparte, ha richiesto la garanzia di poter entrare nella NATO e non un vago ingresso in un futuro non specificato. Ma questo piano è già stato respinto dal segretario della NATO Mark Rutte che ha precisato come in questo momento sia la Russia che gli Stati Uniti non accetterebbero un ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica. La questione scottante riguarda il punto che prevede l’intervento di tutti i membri in difesa di un Paese attaccato. Mike Waltz, che dovrebbe ricoprire la figura di consigliere alla sicurezza nazionale nella prossima amministrazione, ha dichiarato che il presidente eletto si prepara a fare “grandi accordi trasformativi”, qualunque cosa significhi. Trump ha promesso la pace in 24 ore ma, oltre i proclami, nessuno sa come raggiungere questo obiettivo. A meno che la nuova amministrazione non decida di abbandonare a sé stessa l’Ucraina e lasciar mano libera a Putin. Ma siamo sicuri che un’Europa ricattata militarmente da Mosca rappresenti un vantaggio per Washington? Chi si fiderà più della parola dell’America?
Per quanto riguarda il Medio Oriente il tycoon ha puntato tutto su Tel Aviv e ha elaborato una strategia che ha portato ai cosiddetti “Accordi di Abramo” del 2020 grazie ai quali Israele è stato riconosciuto da Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Il progetto, definito a suo tempo come “Accordo del secolo”, mirava a creare le precondizioni per un riconoscimento anche da parte dell’Arabia Saudita, che avrebbe dovuto ridisegnare i suoi rapporti con Israele e ottenere nuove garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti. Questo avrebbe aperto una delle aree più esplosive del mondo a un’era di pace, stabilità e sviluppo. Piccolo dettaglio: non c’era nessuna menzione dei quasi 6 milioni di palestinesi, in lotta da più di settant’anni per una qualche forma di autogestione. La mattanza terroristica del 7 ottobre 2023, costata la vita a quasi 1.200 israeliani, ha affogato nel sangue questa tragica illusione. Il piano di coinvolgere l’Arabia Saudita, il paese chiave dell’area, è finora saltato e il principe ereditario Mohammed bin-Salman ha ripetutamente definito “genocidio” i feroci bombardamenti israeliani su Gaza.
Secondo uno studio, pubblicato il 9 gennaio 2025 dall’autorevole rivista scientifica britannica The Lancet (https://doi.org/10.1016/S0140-6736(24)02678-3), il numero di palestinesi della striscia di Gaza morti sotto le bombe israeliane nel periodo 7 ottobre 2023/30 giugno 2024 è stato di 64.260. La meticolosità del lavoro e la serietà della fonte mettono a tacere la vergognosa campagna di disinformazione israeliana che accusava Hamas di aver gonfiato i dati. Purtroppo, le immagini di morte e distruzione di Gaza sono terribilmente reali ed è atroce che violazioni così gravi dei diritti umani non suscitino più alcuna reazione. È ormai un dato di fatto che Israele ha annichilito Hamas, ha inferto un colpo durissimo agli Hezbollah libanesi, ha umiliato militarmente l’Iran, ha distrutto il 70/80 per cento dell’esercito e della marina siriana e si appresta a trasformare il 2025 nell’anno del trionfo. Una settimana dopo le elezioni USA Bezael Smotrich, il fondamentalista religioso che ricopre la carica di ministro delle Finanze nel governo Netanyahu, ha dichiarato che con il ritorno di Trump «il 2025 sarà, con l’aiuto di Dio, l’anno della nostra sovranità su Giudea e Samaria», il nome con cui Tel Aviv definisce la Cisgiordania. Gli estremisti religiosi israeliani sono convinti che, con la compiacenza dell’amministrazione Trump, Israele potrà annettere sia la Cisgiordania che Gaza, una prospettiva che terrorizza gli stati del Golfo.
Non ci sono dubbi che un Netanyahu enormemente rafforzato farà molte pressioni sulla nuova Casa Bianca per distruggere le istallazioni nucleari iraniane e chiudere una volta per tutte i conti con Teheran. Durante la sua prima amministrazione, Trump aveva respinto più volte le richieste israeliane in tal senso ma oggi la situazione sul campo è molto più favorevole di otto anni fa: l’asse della resistenza controllato da Teheran è stato sconfitto, Hamas ha subìto un colpo durissimo, il dittatore siriano Assad è fuggito. Sembrerebbe il momento ideale per attaccare l’Iran e puntare a far crollare il regime degli ayatollah. Ma non è detto che Trump conceda a Netanyahu l’assegno in bianco che vorrebbe. Oltre ai grandi rischi strategici di un ulteriore conflitto in un’area già esplosiva, The Donald si è presentato al popolo americano come il leader che agita un grosso bastone ma che non inizia guerre e avrebbe grossi problemi di credibilità se cambiasse radicalmente atteggiamento. L’aver trasformato Israele in una fortezza non farà che acuire le tensioni con i Paesi arabi vicini e il problema palestinese rimarrà una bomba a orologeria. A parte le chiacchiere, Trump non ha nessun programma fattibile per il Medio Oriente.
Un uomo solo al comando?
Dopo aver preso il controllo di quello che fu il partito di Abraham Lincoln, Trump ha vinto in modo convincente le elezioni e si appresta a presentarsi come l’uomo forte che imprimerà una svolta storica al mondo. Su questo aspetto è però lecito esprimere qualche dubbio. In primo luogo, anche se in via di diminuzione, il disavanzo commerciale degli USA nel 2023 è stato di 773,4 miliardi di dollari e il debito pubblico ha raggiunto la ragguardevole cifra di 33.400 miliardi di dollari che corrisponde al 122 per cento del Pil. Per un presidente che intende tagliare le tasse ai ricchi e continuare a fare massicci investimenti nel settore della difesa questa non è una buona notizia. Nei prossimi anni, proprio sotto Trump, l’indebitamento rischia di peggiorare ancora di più e questo ridurrà di molto lo spazio di manovra dell’amministrazione. Ma la debolezza principale che si sta delineando non è tanto economica quanto politica perché, prima ancora del 20 gennaio, Elon Musk, che nominalmente ricopre un incarico non di primo piano nell’amministrazione, ha iniziato una sua campagna mondiale grazie a X di cui è proprietario.
In un’intervista concessa al britannico Guardian il 1 gennaio 2025 Timothy Snyder, uno storico con cattedra a Yale, ha affermato molto esplicitamente che Trump è stato molto sopravvalutato mentre, al contrario, Elon Musk è stato molto sottovalutato. «La gente –ha detto il docente- non può fare a meno di pensare che Trump abbia i soldi, ma questo non è vero. In realtà, lui non ha mai avuto i soldi e non ha mai nemmeno preteso di averli. Il concetto che è riuscito a vendere è che si deve credere che lui i soldi li abbia. In realtà non è mai stato in grado di pagare i propri debiti. Non è mai riuscito a finanziare le sue campagne». L’ombra gigantesca che sovrasta Trump e che, invece, i soldi ce li ha sul serio è Elon Musk, grande finanziatore della campagna elettorale e presenza ingombrante nell’amministrazione. Secondo Snyder The Donald ha intenzione di vendicarsi di quelli che considera suoi nemici e intende aprire casi legali a raffica. Ma chi pagherà la salatissima parcella degli avvocati? Elon Musk, of course. «Se Trump non interrompe ora questo rapporto –continua lo storico– si troverà sempre in una relazione di dipendenza perché poi ti abitui alla gente che ti dà i soldi…penso che se tu fossi un amico di Trump dovresti preoccuparti».
Il problema è che Musk non si limita a finanziare Trump ma si sta profilando in modo sempre più netto come il capo supremo di una nuova destra globale che ha una visione esplicitamente imperialista. Ha attaccato il primo Ministro canadese Trudeau che, preso atto dell’impossibilità della sua rielezione, ha dato le dimissioni. Ha chiamato “stupido” il premier tedesco Olaf Scholz e, utilizzando la sua piattaforma X, ha dialogato a lungo con Alice Weidel, leader del partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD), e astro nascente della politica tedesca. Tra le altre scempiaggini, Weidel ha definito Hitler un “comunista” aggiungendo che non devi essere intelligente per capire che per la Germania il solare e l’eolico non possono funzionare. Musk è favorevole al solare ma, nonostante questo disaccordo, ha dichiarato: «Raccomando di votare AfD, se volete che qualcosa cambi». Ha poi liquidato il suo ex alleato britannico Nigel Farage, l’artefice della Brexit, e dato il suo sostegno all’estremista di destra Tommy Robinson, attualmente in carcere per oltraggio alla corte. Trump sogna di capeggiare un movimento populista mondiale ma, come si vede, ha incontrato uno tosto come lui che ha esattamente lo stesso progetto. A parte i soldi, la maggiore differenza tra i due è l’età, 78 anni per Trump e 53 per Musk. E questo non gioca certo a favore di The Donald. Nessuno è realisticamente in grado di prevedere come evolverà il rapporto.
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