di Leonardo Servadio L’economia cinese fiorisce: nel giro di una ventina di anni l’ex Celeste Impero è passato da un’economia prevalentemente agricola a un’economia sostanzialmente urbana e industriale. Ed è da tempo divenuto il principale centro produttivo di tutto il mondo. Durerà? Non è un segreto quale sia il sistema usato. In Cina l’economia non è trattata come il vitello d’oro del libero mercato ma è, con tutte le aperture al commercio e alla proprietà privata, prevalentemente statale, controllata e diretta. Qualcosa che suona anatema per le nostre economie occidentali. Certo, anche con la Nuova Politica Economica di Lenin sembrava, agli albori del comunismo sovietico, che quella potesse essere un’alternativa possibile al capitalismo liberoscambista: poi s’è visto che non funzionava, anzi… La questione infatti è che l’economia non è cosa in sé, è un aspetto della politica che regge un paese. Ma, appunto, della politica: che si fonda sulla gestione degli interessi comuni, non sull’imposizione di interessi di parte. Un tema, questo, che sin dal tempo di Machiavelli, che tanto ce l’aveva con i vizi degli interessi “particulari”, si dibatte senza trovare una soluzione definitiva. La NEP sovietica non ha funzionato se non in parte, perché non era retta da un sistema politico rispettoso dell’essere umano e non si fondava su una società di cittadini consapevoli, ma su “masse” manovrabili dall’alto. La politica economica cinese attuale sta funzionando, e da diversi decenni ormai, tanto che pare chiaro che abbia innestato un approccio ai problemi economici durevole e di successo. Al riguardo citiamo quanto riportato da Truthdig in un articolo del 26 febbraio 2018 a firma di Ellen Brown, intitolato “Perché l’economia cinese ridicolizza quella americana?”: “Mentre i politici americani discutono a non finire su dove reperire fondi, in Cina procedono a tutto vapore con i loro megaprogetti. Un esempio sono i 22 mila chilometri di ferrovie veloci costruiti in meno di dieci anni, mentre negli USA non si riuscivano a finanziare progetti ferroviari molto più modesti. I crediti lì arrivano da banche di proprietà statale, che prestano in prevalenza a grandi compagnie di proprietà statale”. Il sistema è quello di generare denaro nuovo, non di reperire fondi da depositi bancari o attraverso la Borsa. La banca centrale cinese opera una specie di “Quantitative easing” investendo direttamente nelle nuove infrastrutture e nei settori più produttivi dell’economia. Quel che Willem Buiter di Citygroup chiama “Qualitative easing”: investire in settori selezionati, incluse le piccole imprese. Il tipico sistema per il quale in Occidente si grida alla minaccia inflattiva ( la memoria corre sempre a quanto accadde nella Repubblica di Weimar). Ma in Cina gli investimenti si dirigono soprattutto nel grande progetto chiamato “One belt, one road” (Una cintura, una strada): il nuovo nome dell’antica Via della Seta attraverso la quale passando sul continente le vie commerciali univano Cina ed Europa. Invece di spargere il denaro “a pioggia” (come avveniva a Weimar) questo è convogliato in investimenti produttivi che generano nuove attività. In pratica, il denaro è usato come volano per far girare l’economia. E, ai grandi progetti come quelli che tramite l’iniziativa One belt, one road hanno già da anni portato a stabilire un raccordo ferroviario diretto tra Cina, Germania, Ungheria, Spagna, Gran Bretagna (il trasporto ferroviario è più veloce di quello navale e molto, molto meno inquinante), si uniscono anche tanti finanziamenti a piccole aziende. In questo modo si favorisce la piccola e media industria privata: chi ha un buon progetto, abilità e volontà si sente sostenuto a intraprendere, in patria e all’estero. Nota Truthdig: “I critici sostengono che così la Cina ha maturato un rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo molto alto. Implicano che le sue banche hanno crediti ‘cattivi’”. I debitori cinesi sarebbero inadempienti? Lo nega il Chen Zhao, in uno studio dell’Università di Harvard dal titolo “China: A Bullish Case”, dove spiega come i cinesi depositino i loro averi nelle banche, invece di investire in Borsa. Questo consente al settore bancario di compensare i crediti elargiti con i depositi acquisiti. Quando ci fu la crisi del 2008-09, negli USA lo Stato federale pompò denaro per ripianare la situazione di sbilancio delle banche che peraltro non davano crediti alle aziende ma si limitavano a stare a galla mettendo a posto i loro libri contabili. Nello stesso periodo in Cina il credito alle aziende crebbe del 40 percento. In Cina così si è generato un debito pubblico di quattro trilioni di renminbi: ma sono soldi che circolano nell’economia, attivano energie, espandono il mercato. Com’è noto infatti, nei primi decenni del suo nuovo corso dopo l’epoca maoista, l’economia cinese ha puntato in prevalenza sui grandi progetti e sull’espansione delle grandi città costiere. Ma in particolare in questi ultimi anni si è resa conto che deve puntare anche sull’economia di consumo, favorendo non solo la nascita di pochi grandi imprenditori, ma anche l’aumento della qualità di vita di quelle che erano le masse di contadini all’interno del Paese. Non si tratta, come appunto avvenne a Weimar, di “stampare denaro” ma di “prestare denaro” a persone che lo usano. In un articolo pubblicato dal Financial Times nel dicembre 2017, Zhao spiega: “Si tratta di debito sovrano, non di rischio ma di stimolo all’economia. I libri di bilancio delle banche statali cinesi, del governo e della banca centrale sono tutti interconnessi. In questo modo una crisi debitoria in Cina è praticamente impossibile”. Le banche cinesi non hanno bisogno di essere salvate dallo Stato: esse sono parte dello Stato, conclude Truthdig ( cfr: https://www.truthdig.com/articles/china-running-circles-around-america/ ). Questa analisi mette in rilievo quanto l’economia sia governata e governabile dalla politica – laddove la politica conforma l’economia in modo tale da rispondere alle necessità della popolazione. Quel che rende quanto sta avvenendo in questi anni in Cina radicalmente differente da quanto avvenne con la Nuova Politica Economica russa degli anni Venti, è inoltre che il mondo nel suo complesso è cambiato. E che i livelli tecnici attuali (le strumentazioni tecniche essendo forse ancor più dell’emotività delle masse e dei capipopolo un fattore trainante degli eventi storici) consentono, anzi richiedono, scambi, dialoghi e conoscenze. Non solo: la leadership cinese ha assistito al crollo del regime sovietico e anche per questo cerca di evitare di seguire la stessa strada. Tutto sta nel vedere che cosa di concreto faranno al riguardo. A tale proposito sembra un problema il fatto che Xi Jinping abbia voluto cambiare la costituzione cinese per rendersi rieleggibile alla Presidenza del Paese ad libitum, togliendo il limite di due mandati. Perché sinora, dall’epoca di Mao, l’economia e la società cinese non ha fatto che migliorare. Ma se tornerà a essere un impero personale, come avvenne con Mao, potrà veramente continuare la sua imponente spinta propulsiva? Vi sono diverse considerazioni da fare al riguardo. Una è che la carica di Presidente del Paese è solo una delle tre attribuite a Xi: egli è anche capo delle Forze armate e presidente del Partito Comunista Cinese, e queste ultime due cariche non hanno limiti di tempo. Anche qualora egli restasse solo con queste ultime due, e si cambiasse il Presidente dello Stato, egli deterrebbe le principali leve del potere. Ma certo l’accumulo delle tre cariche ha un valore simbolico importante. La seconda è che l’economia statalizzata (in realtà qualsiasi assetto economico) può funzionare bene solo se non v’è corruzione. E non è un caso che nel 2012, quando fu eletto, Xi Jinping annunciò che il suo scopo principale era di combattere la corruzione. Se c’è corruzione, i flussi di denaro anziché fertilizzare le piccole e medie imprese o i grandi progetti finiscono nelle tasche di pochi, e l’economia si ferma: è così semplice. Per aver vacche grasse e non vacche magre il segreto non sta in complicate ingegnerie finanziarie, ma nel disporre di un tessuto sociale dove vige l’onestà e il senso di responsabilità. Ergo: essenziale è la moralità diffusa. Al riguardo va ricordato che la rivoluzione con la quale nel 1911 il farraginoso Impero cinese fu rovesciato, fu ispirata e in gran parte condotta da Sun Yat-sen. Egli è considerato il padre della patria della Cina moderna, ed era un cristiano. Fu osteggiato dal movimento comunista col quale tuttavia riuscì a trovare un accordo di convivenza per il proprio partito, il Kuomintang. Ma con la sua morte nel 1925 le tensioni scoppiarono e l’intesa nazionale non fu più possibile. Com’è noto il Kuomintang, schiacciato nelle propria corruzione, a conclusione della guerra interna cinese si rifugiò a Taiwan (allora Formosa) e da allora resta aperto il problema delle “due Cine”: quella continentale comunista e quella insulare retta da un regime democratico. Un test fondamentale per Xi Jinping nei prossimi anni sarà se riuscirà a risolvere il problema di Taiwan senza dar luogo a ulteriori conflitti. Se riuscisse a far rivivere l’eredità culturale e morale di Sun Yat-sen, potrebbe veramente portare a compimento la nascita di un nuovo modello di Stato in cui l’economia sia gestita non a difesa di pochi interessi privati ma a vantaggio della maggioranza. Per fare questo però Xi Jinping, dopo aver aperto il dialogo col mondo capitalista, dovrebbe aprire anche un autentico dialogo con la Chiesa Cattolica e in generale col mondo cristiano. Perché una politica economica che miri a compiere l’interesse della popolazione non può non fondarsi sul concetto di essere umano trasmesso dal cristianesimo e, peraltro, non estraneo anche alle tradizioni confuciana e taoista. Perché vi sia onestà, le persone devono infatti sapere chi sono e qual è la loro responsabilità verso la società. Cosa che nessuna imposizione dall’alto può ottenere: mentre fondante è la coscienza dei singoli. Se non riuscisse a compiere questo passo, la leadership cinese prima o poi potrebbe ritrovarsi a ricadere nelle stesse farraginosità burocratiche, nella stessa diffusa corruzione morale pervasa da smanie di potere che affossò l’Unione Sovietica — forse non tanto diversa dalla corruzione morale e dalle smanie di potere che stanno attanagliando gli Stati Uniti di questi tempi. Checché ne pensino le schiere di economisti ammaestrati al circo del libero mercato, il problema dell’economia non sta nella quantità del debito pubblico, ma nel modo in cui i denari sono convogliati nei canali di utilizzo: se diffondono cultura e benessere o se aggrumano e perpetuano sterile potere edonistico.
In copertina: Sun Yat-sen.
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