L’ultimo libro dello storico e politico Miguel Gotor descrive, in uno stile discorsivo ma rigorosamente aderente ai fatti, gli eventi che portarono un’Italia ancora giovane ad affacciarsi sulla scena politica internazionale, con uno sguardo che riesce a cogliere la complessità degli sviluppi storici, economici e sociali fino ai giorni nostri. Il quadro di insieme mostra l’ostinata persistenza delle nostre debolezze e il costante intervento di forze esterne che hanno pesantemente condizionato la vita politica nazionale.
Paesi “amici” e “nemici”
In effetti, i dati della nostra crescita sono stupefacenti. Tra il 1951 e il 1981 gli italiani divennero più alti, più longevi, più ricchi e più istruiti come forse non era mai avvenuto prima. La speranza di vita passò da 63 a 71 anni per i maschi e da 67 a oltre 78 per le femmine. Nello stesso periodo il reddito si quadruplicò e “da Paese affamato, umiliato e distrutto quale si trovava ad essere all’indomani della Seconda guerra mondiale divenne nel 1975 la settima potenza industriale del mondo, in competizione con la Gran Bretagna per la conquista del sesto posto, un sorpasso che avrebbe conseguito nel 1987”. Il libro sviluppa un’analisi articolata sugli eventi che hanno tarpato le ali alla nostra crescita, in modo particolare quella pagina nera definita “strategia della tensione”, iniziata con una serie di bombe contro civili inermi e seguita dalla lunghissima stagione del terrorismo fascista e brigatista che minò poco a poco la fiducia e l’autostima degli italiani, innescando quel meccanismo che ha portato l’Italia a vedersi e ad agire da potenza medio-piccola, come era ai tempi di Cavour.
Il grande spartiacque politico che segna la storia del secondo dopoguerra è il rapimento
e l’assassinio di Aldo Moro, la più fine testa pensante della Repubblica, che aveva ideato e tentato di realizzare una collaborazione politica con il PCI che potesse poi creare le condizioni per un’alternanza al potere, dopo la piena accettazione del gioco democratico da parte dei comunisti italiani. Le profonde preoccupazioni degli USA, le minacce esplicite dell’ex segretario di Stato Kissinger a Moro e la complessa storia del rapimento sono vicende note a cui non vengono apportati ulteriori contributi. L’autore ricostruisce una storia credibile di tutta la vicenda, evitando una lettura semplicistica delle Brigate rosse come mera entità eterodiretta e al servizio di potenze straniere e delle loro inconfessabili finalità. Viene indagato il rapporto sfaccettato tra le frange estremistiche e il terrorismo brigatista, come pure la diffusa rete di simpatie e complicità di una parte della società italiana, sedotta dal fascino romantico del combattente duro e puro. Viene però anche confutata l’assunzione, data per scontata, che il delitto Moro sancì l’inizio del declino del terrorismo poiché i numerosi dati riportati confermano invece che ci fu una massiccia e crudele scia di attentati che insanguinò l’Italia ancora per molti anni.
È ampiamente documentato, sia a livello storico che giudiziario, il ruolo svolto da apparati statali “deviati” nella copertura degli attentati dinamitardi compiuti da estremisti di destra. A questo proposito, è molto illuminante una frase pronunciata nel settembre del 1974 dal generale Vito Miceli, capo del SID, il servizio segreto italiano attivo dal 1966 fino all’ottobre 1977. Sotto processo nell’ambito dell’inchiesta denominata Rosa dei venti, una struttura di spionaggio parallela collegata alla NATO che operava contro lo Stato, il generale poté spiegare direttamente al giudice istruttore Giovanni Tamburino cosa stava per accadere in Italia: “ora non sentirete più parlare del terrorismo nero, ora sentirete parlare solo di quegli altri”, ossia delle Brigate rosse e della galassia del “Partito armato”. Ma i servizi segreti italiani non erano gli unici che avevano addentellati funzionali con i terroristi. Secondo i leader storici delle Brigate rosse, Renato Curcio e Alberto Franceschini, nel dicembre del 1973 il Mossad israeliano contattò ripetutamente le BR per cercare di stabilire una qualche collaborazione, rifiutata però dai due dirigenti. Per mostrare che facevano sul serio, gli agenti del Mossad fornirono al gruppo terroristico i nomi di tre operai che stavano per infiltrarle e le aiutarono a localizzare in Germania Marco Pisetta, un brigatista della prima ora che aveva iniziato a collaborare con la giustizia e che si era rifugiato a Friburgo per sfuggire alla vendetta dei suoi ex compagni.
Le implicazioni della “dottrina Mitterrand”
Nel novembre del 1983 la polizia francese, su sollecitazione delle autorità italiane, arrestò Jean-Louis Baudet, attivo militante della Gauche prolétarienne e simpatizzante dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, e la sua compagna Catherine Le Gagneur perché i due erano stati trovati in possesso di una grande quantità di armi. Per evitare l’arresto, l’uomo chiese di telefonare a un’utenza riservata che corrispondeva a quella di François Durand de Grossouvre, un ex funzionario dei servizi segreti militari francesi e amico personale del presidente francese Mitterrand dai tempi della Seconda guerra mondiale e, in quel momento, suo consigliere personale all’Eliseo per la sicurezza nazionale e gli affari riservati. Successivamente, Baudet si difese affermando di aver ricevuto informalmente dal governo francese l’incarico di recuperare le armi dei terroristi rifugiati in Francia e di convincerli ad abbandonare la lotta armata per favorire l’azione del nuovo governo socialista. Secondo il brigatista dissociato Roberto Buzzati, Baudet era l’uomo che nel 1981 aveva consegnato alle BR un bazooka che sarebbe dovuto servire a far saltare in aria la sede amministrativa della DC nel quartiere romano dell’Eur, durante il Consiglio nazionale del partito e in diretta televisiva. L’attentato fallì soltanto per l’arresto di Giovanni Senzani, il professore che aveva sostituito Mario Moretti alla testa delle Brigate rosse. Il nome e l’indirizzo parigino di Catherine Le Gagneur vennero trovati su un foglietto in codice di cui Senzani aveva tentato di sbarazzarsi. Il 7 aprile 1994 François Durand de Grossouvre verrà trovato morto nel suo ufficio dell’Eliseo, apparentemente suicidatosi con un colpo di pistola.
Ma quella appena illustrata non è l’unica liaison dangereuse dei francesi con il terrorismo italiano. Una nobildonna, appartenente allo stesso ceppo dell’aristocratico capo del consigliere di Mitterrand, cioè Isabelle Durand de Grossouvre, è sposata con l’italiano Bruno Ropelato. Negli anni Settanta, Ropelato ebbe stretti legami con Corrado Simioni, Giovanni Mulinaris e Duccio Berio, militanti appartenenti al cosiddetto “Superclan”, sorto in seguito a una rottura con il gruppo animatore del primo nucleo delle Brigate rosse ed espatriati in Francia a metà degli anni Settanta dove fondarono la famosa scuola di lingue Hyperion con cui Baudet aveva stretti contatti e accusata di essere una specie di centrale del terrorismo internazionale.
l libro riporta un documento dei servizi segreti italiani sui collegamenti dei francesi col terrorismo italiano secondo il quale “il cittadino francese Jean-Louis Baudet…avrebbe dichiarato e poi verbalizzato alla gendarmeria parigina di aver svolto i suoi compiti in ossequio alle direttive di personalità politiche. Almeno due di queste figure figurerebbero nell’attuale governo francese. Il Baudet avrebbe aggiunto che l’incentivazione del fenomeno eversivo era finalizzata alla destabilizzazione dell’Italia, per la conseguente preponderanza del peso politico francese nel Mediterraneo”. Se aggiungiamo che tra i piani del brigatista Senzani c’era anche quello di rapire l’amministratore delegato della Fiat Cesare Romiti, forte concorrente della francese Renault, la cosiddetta “dottrina Mitterrand”, che aveva aperto le porte della Francia a tutti i ricercati italiani per terrorismo, viene illuminata da una luce sinistra e fa scricchiolare i pomposi richiami ai sacri valori libertari della Rivoluzione francese.
L’Italia di oggi
Uno degli argomenti che i politici italiani evitano con la massima cura è il grave problema dell’indebitamento, arrivato ormai al 135 per cento sul Pil. Gotor ci ricorda che, fino alla metà degli anni Settanta, questo dato oscillava intorno al 30 per cento. Tra il 1983 e il 1987, gli anni dei governi Craxi, passò dal 65 all’88,6 per cento, per salire ancora durante il triennio di governo di Andreotti dal 93,1 al 98 per cento. Nel 1992, anno di svolta a livello internazionale, il debito superò il Prodotto interno lordo arrivando al 105 per cento e, finora, ha continuato ad aumentare. Il 1994, l’anno che vede la discesa in campo di Silvio Berlusconi, segna la fine di quella che è stata definita la “Repubblica dei partiti” e l’inizio di un fenomeno nuovo che viene studiato non solo dai politologi ma suscita anche l’interesse della sociologia, dell’antropologia, della filosofia: la crescente influenza dell’antipolitica. Soltanto attaccando il Palazzo, i politici “tutti ladri”, l’amministrazione pubblica inefficiente e lavativa, tutti quelli che hanno amministrato prima, si raccolgono voti.
L’antipolitica “ha sempre degli esiti leaderistici-plebiscitari e oppone all’egoismo di pochi privilegiati, additati come nemici interni o esterni (i banchieri, gli immigrati, i burocrati, i professori, i giudici, i partiti, i politici, le multinazionali, l’Europa), l’interesse della ‘gggente’, ossia del popolo intero (la confusione di una parte con il tutto è l’essenza ideologica dell’antipolitica) di cui finalmente riuscirebbe ad interpretare un luogo mitico, la cosiddetta pancia”. Questa tendenza, cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni, è stata innescata dalla crisi economica, ma anche dalle modalità assunte dal processo di costruzione dell’Europa e ha portato a quello che Gotor definisce un “disallineamento nella costruzione dello Stato tra il momento economico-sociale e quello politico istituzionale”. Certamente, il fenomeno non è soltanto italiano, anche se qui ha assunto un aspetto particolarmente virulento e ha dato vita a una “democrazia del personaggio”, con le strutture politiche che si plasmano intorno a un singolo esponente, come è avvenuto con Segni, Berlusconi, Bossi, Di Pietro, Mastella, Fini, Dini, Casini, Vendola, Monti, Renzi, Grillo, Salvini, Meloni. Purtroppo, il populismo al potere non ha brillato per efficienza e competenza e le promesse roboanti sono rimaste tali. Non c’è stata la “rivoluzione liberale” promessa da Berlusconi, nella foga della lotta leghista contro la “Roma ladrona” sono spariti 49 milioni di fondi pubblici e non è andata meglio alla “fine della povertà” annunciata dal Movimento 5 stelle.
Mentre il populismo era impegnato a dare la colpa agli altri, il drammatico impatto della globalizzazione e della rivoluzione digitale ha accentuato il processo di disintermediazione, portando alla frantumazione del lavoro e alla grande diffusione dei “mini-jobs”. Negli ultimi venticinque anni, periodo che coincide con la crescita tumultuosa dell’economia 2.0, il Pil italiano è aumentato del 17 per cento, mentre quello di Francia e Germania è cresciuto del 45 per cento. Il libro è corredato dall’indice dei nomi e da una ricca bibliografia che consente al lettore di approfondire gli argomenti trattati. A mio parere, sarebbe stato interessante approfondire ulteriormente gli eventi che portarono alla fine del “miracolo “ economico, seguito alla morte di Mattei, ma anche alla scomparsa di Adriano Olivetti, come pure il ruolo di un personaggio come Giuseppe Saragat, finanziato e sostenuto dagli Stati Uniti e che ebbe un ruolo cruciale nello scandalo Ippolito, che diede un serio colpo alla politica energetica dell’Italia.
Miguel Gotor
L’Italia nel Novecento
Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon
Einaudi, pp. 592, 22 euro
Galliano Maria Speri