Vittoria di Trump: quello che i liberal non riescono a capire degli Stati Uniti

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Contrariamente a quanto ritenevano gli analisti, le elezioni presidenziali non sono state un testa a testa ma hanno mostrato una netta vittoria dei repubblicani, anche nel voto popolare, tanto che ora controllano Senato, Camera e Corte suprema, in una concentrazione di potere che si è verificata molto raramente negli USA. Oltre alla sua base tradizionale, hanno votato per Trump anche ampie sezioni degli ispanici, dei neri e molte donne bianche. Questi risultati mostrano il fallimento del Partito democratico, dipinto come portavoce delle élite ricche e snob, nel parlare sia alle classi popolari sia alle classi medie. L’ideologia della cancel culture ha fatto danni devastanti alla credibilità delle forze progressiste che hanno ormai perso il contatto con il proprio elettorato.

 In realtà, gli osservatori più attenti non sono rimasti troppo sorpresi dalla vittoria di Trump perché le numerose elezioni di quest’anno hanno visto quasi dappertutto la sconfitta o l’indebolimento dei partiti al governo. È avvenuto nel Regno Unito, nell’Unione Europea, in Francia, in Germania, in Austria, in Giappone, in India, in Sudafrica. La vera sorpresa è stato il successo quasi uniforme che gli strateghi di Trump sono riusciti a cogliere, contea per contea, anche nelle aree tradizionalmente democratiche. Un secondo fattore, che aveva cominciato a delinearsi già nelle elezioni del 2016, è stata la capacità di Trump di guadagnare voti tra gli ispanici e anche tra i neri. Si stima che il 92 per cento delle donne afroamericane abbia votato per Harris, che corrisponde al 7 per cento degli elettori. Quello che ha fatto la differenza, però, è stato il voto delle donne bianche che, con il 37 per cento dell’elettorato, rappresentano il gruppo più numeroso del Paese.

La manipolazione funziona

Nel 1985 l’Oxford English Dictionary registrò per la prima volta il termine “post truth” (post verità), diffusosi poi ampiamente in tutte le lingue. Significava che la verità non aveva più importanza? No. Significava semplicemente che le persone erano disposte a credere ai propri leader in modo fideistico, a prescindere dagli eventi reali, in un processo totalmente irrazionale. In questo modo è stato possibile che un candidato volgare e misogino, bugiardo compulsivo, plasmato dall’avvocato della criminalità organizzata Roy Cohn, definito fascista da coloro che avevano fatto parte della sua prima amministrazione, ripetutamente condannato in tribunale per vari reati, responsabile del più grave attacco alla democrazia americana del dopoguerra, con un drastico programma di tagli alla spesa pubblica (che avrà conseguenze drammatiche per le classi più deboli), con l’aiuto determinante dell’uomo più ricco del mondo sia riuscito presentarsi come paladino dei poveri e degli indifesi. Sembrerebbe una prova scientifica dell’esistenza del Maligno.

Sono decine le donne che lo hanno accusato di violenze e molestie, Trump ne parla usando epiteti irriferibili, è incappato ripetutamente in scandali sessuali eppure, molte donne bianche hanno continuato a votare per lui. Qualcuna lo ha addirittura considerato un miracolato per diretto intervento divino, dopo il fallito attentato del 13 luglio 2024. Cohn gli ha insegnato a «negare, negare sempre, in qualunque circostanza» e Trump ha appreso la lezione magistralmente. Il salto qualitativo c’è stato con l’intervento massiccio di Elon Musk, il vero vincitore delle elezioni, che ha messo a disposizione i suoi immensi capitali ma anche la sua articolatissima rete dei media. Questa commistione così diretta tra il governo e uno dei principali esponenti delle “Big Tech” crea una situazione completamente nuova e, probabilmente, ci vorrà ancora del tempo per capire meglio le implicazioni a lungo termine di questa alleanza.

La domanda a cui rispondere è come mai oltre 75 milioni di elettori hanno respinto la visione del mondo offerta dai progressisti e hanno scelto un candidato così anziano e controverso. È ben noto che gli statunitensi votano sulla base delle considerazioni economiche, non sui grandi ideali di politica estera. Grazie a un uso sapiente dei social media, gli strateghi di Trump sono riusciti a costruire una narrazione sulle percezioni negative, drammatizzando i guasti dell’inflazione e sventolando un futuro di povertà e paura. Hanno accusato Biden di essere responsabile di una grave crisi economica che ha impoverito il Paese. I dati reali ci dicono invece che il Prodotto interno lordo degli Stati Uniti è quello che è salito maggiormente in Occidente, tanto che la crescita per il 2024 viene calcolata in un +2,8 (rispetto a una Germania in grave stagnazione, una Francia in crisi e un’Italia che si avvia a uno striminzito +0,8). La disoccupazione è ai minimi storici intorno al 4 per cento, mentre l’inflazione, l’elemento reale che ha giocato a favore di Trump, comincia la sua corsa discendente, tanto che la Federal Reserve ha finalmente iniziato a tagliare i tassi di interesse.

Nonostante quelle che in Europa vengono percepite come affermazioni deliranti, Trump ha saputo parlare alla pancia della gente, sbandierando un prezzo della benzina mai così alto, le confezioni da dieci uova che costavano tre volte di più e le difficoltà nell’accesso ai mutui per acquistare la casa. La campagna repubblicana ha fatto leva su un problema reale dell’economia americana, quello delle disuguaglianze che si stanno accentuando sempre di più a causa della transizione a un sistema produttivo orientato soprattutto verso un terziario avanzato. Questo ha lasciato molte aree a vocazione manifatturiera esposte alla competizione durissima di Paesi come la Cina e tutta la fascia che un tempo era una prospera area produttiva si è trasformata nella rust belt, la cintura della ruggine. Ancora una volta, i progressisti statunitensi hanno mostrato la loro incapacità di intercettare le istanze e i bisogni di quei ceti popolari che si vantano di rappresentare, ma che li hanno abbandonati da tempo.

Un altro segnale di questo scollamento è il fallimento clamoroso del circo mediatico che ha schierato Taylor Swift, Eminem, Beyoncé, Lady Gaga, Leonardo Di Caprio, Bruce Springsteen, Jennifer Lopez, George Clooney, Rihanna. Sparandola molto grossa, qualche commentatore aveva scritto che i concerti di Taylor Swift sono in grado di infuenzare il Pil di un Paese. Magari è proprio così, ma la sua campagna in favore di Kamala Harris non ha certo fatto la differenza. Temi come l’inflazione e l’immigrazione sono stati percepiti dalla popolazione come molto più reali e minacciosi rispetto al pericolo di ritorno del fascismo. Oltre alla manipolazione delle informazioni, il fattore determinante è stato che una parte dell’élite si è schierata a favore di Trump, mostrando che la mitica Silicon Valley non era un covo di liberal sfegatati, come molti ingenui ritenevano. Jeff Bezos, proprietario tra le altre cose del Washington Post, non ha preso posizione, mostrando di essere più legato ai propri miliardi che alla battaglia per la democrazia. Elon Musk ha donato oltre 130 milioni di dollari alla campagna elettorale di Trump, un ottimo affare visto che, dopo la vittoria, il valore delle azioni del proprietario di X è salito di 23 miliardi di dollari. Ma Musk non è che la punta dell’iceberg, in quello che sembra un cambiamento strutturale delle élite alla guida degli USA.

Perché l’ideologia woke fa paura

Soltanto un cieco potrebbe negare la realtà dei risultati elettorali che, negli Stati Uniti e in tanti importanti stati europei, vede la crescita delle forze populiste di destra. È indubitabile ormai che le forze progressiste abbiano perso la capacità di dialogare con le classi sociali che ritengono di rappresentare ma che, da tempo, si riconoscono nella demagogia e nel populismo di una destra rampante. I grandi partiti di massa si sono radicalizzati e sono diventati difensori di teorie strampalate che fanno riferimento a minoranze infinitesimali, i cui interessi particolari sono diventati il punto di riferimento delle élite politiche. Negli ultimi vent’anni la sacrosanta battaglia per i “diritti sociali” è stata spodestata da quella per i “diritti individuali” che ha dato un contributo sostanziale al processo di frammentazione della società, composta ormai da individui isolati che si impegnano soltanto a difendere il proprio orticello privato, perdendo di vista il disegno generale. Margaret Thatcher sosteneva che la società non esisteva, esistevano soltanto gli individui. Adesso sta diventando più chiaro perché nell’aprile del 2022 Elon Musk decise di investire 44 miliardi di dollari nell’acquisto di twitter, da lui rinominato X. I social media si sono rivelati uno strumento fondamentale per la diffusione della controinformazione trumpiana e anche un ottimo affare economico poiché i 23 miliardi di dollari già ricordati hanno coperto più della metà di quell’investimento. Musk è stato scelto per guidare il Dipartimento per l’efficienza del governo, una carica in esplicito conflitto di interessi, ma che lo mette in una posizione di potere che non ha uguali nella storia politica statunitense.

La campagna di censura lanciata dai militanti della “woke culture” rassomiglia molto alla Rivoluzione culturale scatenata da Mao nel 1966. Entrambe hanno avuto effetti disastrosi sulla società. (Nella foto Mao Zedong, circondato dalle Guardie rosse in piazza Tienanmen nel 1966).

La deriva radicale e ideologica che, in nome del politically correct, ha invaso le università americane è da tempo fuori controllo. I corsi di studio vengono rivoluzionati, si aprono cattedre su tematiche molto discutibili, qualunque minoranza si sente in diritto di fare le rivendicazioni più bizzarre. I grandi classici vengono epurati o censurati, i docenti che fanno resistenza sono costretti ad andarsene e la prima vittima di questo fanatismo ideologico, degno della “rivoluzione culturale” di Mao Zedong, è lo spirito critico e il forte indebolimento del dibattito culturale, che dovrebbe essere invece alla base dell’insegnamento universitario. In questo contesto, non è troppo difficile comprendere come anche le classi moderate si siano sentite abbandonate nella difesa dei loro valori tradizionali. La seconda vittoria di Trump dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che la maggioranza degli americani è molto critica verso gli eccessi delle teorie woke (la pretesa che pochi e minoritari individui svegli e militanti si investissero della lotta contro le ingiustizie della società) e quella questione gender che appare totalmente contraria al common sense, così caro alla cultura popolare americana.

I lavoratori hanno scelto i repubblicani

Un esempio molto chiaro ci viene dai risultati elettorali di New York, da sempre una roccaforte democratica. Ai tempi del sindaco Bill De Blasio (2014-2021) lo slogan “defund the police” (tagliamo i fondi alla polizia) lanciato dal movimento black lives matter venne realmente messo in pratica e le forze dell’ordine, accusate in modo indiscriminato di razzismo, subirono tagli di organico e di finanziamenti. Il risultato fu una grave impennata dei reati, omicidi inclusi, principalmente ai danni delle minoranze etniche e delle classi lavoratrici che vivevano nei quartieri popolari. L’amministrazione comunale ha proclamato New York “città santuario”, dicendosi disponibile all’accoglienza illimitata degli immigrati clandestini, contro cui la polizia non poteva applicare le leggi federali sull’immigrazione. L’arrivo di oltre duecentomila stranieri illegali ha fatto saltare le liste per gli appartamenti popolari e gli stranieri arrivati rispettando le procedure si sono infuriati quando sono stati scavalcati nelle graduatorie dagli immigrati illegali.

Come sindaco di New York il democratico Bill De Blasio ha applicato misure demagogiche che gli hanno alienato il supporto delle classi lavoratrici. (Foto del 2019 di Gage Skidmore).

In un articolo sul Corriere della sera dell’8 novembre 2024, Federico Rampini, cittadino americano e da anni residente negli USA, ha descritto vividamente i guasti causati dal fanatismo ideologico. «Tra gli altri esperimenti –scrive il giornalista- c’è la politica scolastica. Soprattutto sotto il sindaco De Blasio, succube dell’ala sinistra, le scuole pubbliche hanno subito il ciclone della “woke culture”. Di fronte ai dati sul minore apprendimento dei ragazzi black, è stata dichiarata guerra alla selezione meritocratica, con il risultato di scontentare le famiglie asiatiche. L’educazione alla “libertà di cambiare sesso” nelle classi ha terrorizzato molti genitori, che spesso l’hanno scoperta per caso, durante la pandemia con l’insegnamento in remoto…L’élite progressista di Manhattan, con le sue fughe in avanti ideologiche, ha scavato un solco profondo rispetto a muratori, cameriere, fattorini delle consegne che vivono a un’ora di metrò dai loro grattacieli». Manhattan è rimasta democratica ma il Bronx e Queens hanno registrato una forte avanzata dei repubblicani.

L’ultimo fattore che ha contribuito all’umiliante sconfitta di Kamala Harris è stata la posizione dell’amministrazione Biden sul perdurante massacro compiuto dall’esercito israeliano a Gaza. In moltissime occasioni il presidente ha fatto appello a Israele affinché si mostrasse moderato e ha inviato per ben undici volte il suo segretario di Stato in Medio Oriente per mediare tregue umanitarie, arrivo di aiuti ai civili stremati, la limitazione dei bombardamenti ai soli obiettivi militari, lo scambio di prigionieri. Il risultato è stato nullo e ha rappresentato uno dei più fallimentari tentativi diplomatici degli ultimi decenni. Papa Francesco ha il dovere di esortare a un comportamento più umano, ma un presidente degli Stati Uniti non può limitarsi agli appelli, visto che possiede tutti gli strumenti per intervenire. Molti giovani democratici sono rimasti disgustati dalla vigliaccheria e dal cinismo dimostrati sulla questione di Gaza e non hanno votato. Gli studi sui flussi elettorali mostrano che anche l’elettorato di origine araba non ha scelto la Harris, nonostante il fatto che la prima amministrazione Trump avesse approvato misure come il bando contro l’immigrazione da alcuni Paesi arabi, trasferito la sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme, sposato completamente la visione razzista e coloniale di Israele, promosso gli “Accordi di Abramo” che, sotto la retorica del mutuo riconoscimento, avevano semplicemente cancellato il problema della popolazione palestinese.

Trump entrerà alla Casa Bianca il 20 gennaio del prossimo anno e vi rimarrà, presumibilmente, fino al gennaio del 2029. Studi molto pessimistici ipotizzano una montante era repubblicana, con J.D. Vance che subentrerà come prossimo presidente, magari per due mandati. Secondo alcuni osservatori queste elezioni hanno sancito la vittoria dei conservatori nella guerra culturale contro le ideologie radicali di cui sono succubi i democratici. Qualche analista arriva addirittura a delineare uno scenario in cui il Partito repubblicano plasmato da Trump potrà ridisegnare la storia seguita al New Deal di Franklin D. Roosevelt. Mentre è chiaro che una nazione che aspira a guidare l’Occidente (qualunque cosa significhi) non può rimanere ostaggio di minoranze fanatiche e radicali, bisognerebbe essere cauti nel pronosticare un futuro totalmente rosso (il colore dei repubblicani) per gli Stati Uniti. Trump ha 78 anni ed è il più anziano presidente che sia mai entrato alla Casa Bianca ma, soprattutto, ha promesso la luna a tutti. La pace per l’Ucraina in 24 ore, la soluzione dei problemi in Medio Oriente, una nuova età dell’oro per l’America. Se richiamiamo alla memoria il clamoroso fallimento della sua strategia verso la Corea del nord che avrebbe dovuto aprire agli Stati Uniti, vediamo che la differenza tra la realtà e gli annunci roboanti salta subito agli occhi. Il problema vero è che un presidente così anziano e instabile rappresenta un pericolo serio anche per l’Europa e non solo per le derive autoritarie che rischia di innescare negli Stati Uniti.

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