USA: liberi di affondare. La trappola delle infrastrutture

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di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Quando le campagne elettorali dei partiti s’intrecciano alle scelte politiche ed economiche, i risultati non sono sempre positivi, ovunque nel mondo. Anche in Italia e negli Stati Uniti.

Per esempio, il programma di investimenti in infrastrutture de l presidente Biden è stato di fatto dimezzato. Il partito Repubblicano non intende permettere che esso diventi un successo per i Democratici nelle elezioni di metà mandato del 2022. Per evitare un ostruzionismo paralizzante al Senato, il governo si è detto disposto a un accordo bipartisan per progetti più “annacquati”.

Il piano infrastrutturale iniziale di Biden era di 1.900 miliardi di dollari in otto anni. È stato ridotto a 1.200 miliardi di cui, però, 650 già stanziati in precedenza dall’amministrazione Trump. I nuovi investimenti, quindi, ammontano a 550 miliardi.

Sembra una cifra ragguardevole. Non lo è se, però, si tiene conto che la maggioranza delle infrastrutture è obsoleta, vecchia di 40 anni o più.

Il Rapporto 2021 dell’American Society of Civil Engineers (ASCE), l’organizzazione indipendente degli ingegneri civili, identifica in dettaglio le aree di sviluppo infrastrutturale e quantifica in ben 2.590 miliardi di dollari la necessità di investimenti in 10 anni.

Servono almeno 786 miliardi solo per modernizzare o riparare le strade e i ponti. Biden ne prevede ora 110 miliardi.

La seconda area che richiede un grande intervento riguarda l’acqua potabile e le relative infrastrutture. L’ASCE stima che il gap di investimenti potrebbe salire a 434 miliardi di dollari entro il 2029. Nel programma dell’Amministrazione sono previsti soltanto 55 miliardi.

Vi sono poi i settori dell’energia il cui gap potrebbe aggirarsi intorno ai 200 miliardi di dollari entro il 2029. Ma ne sono previsti solo 73.

Tutto ciò non sorprende: è la conseguenza della profonda trasformazione degli Usa, dove nei passati decenni la finanziarizzazione dell’economia e l’outsourcing (lo spostamento delle industrie all’estero per pagare meno il costo del lavoro e le tasse) sono cresciuti enormemente, a discapito dei settori produttivi.

Infatti, mentre nel 1965 il settore delle macchine utensili rappresentava il 28% dell’intero mercato mondiale, oggi tale percentuale è ridotta al 5%. Nel 2018 i produttori di macchine utensili ne hanno esportato per 4,2 miliardi di dollari e importato per 8,6 miliardi.

Se si produce di meno e si vuole mantenere alti i livelli di consumo, l’unica via è il debito. Non solo quello pubblico delle amministrazioni centrali e periferiche, ma anche quello privato. Infatti, nel secondo trimestre del 2021 il debito delle famiglie americane ha raggiunto quasi 15.000 miliardi di dollari, dei quali oltre 10.000 per ipoteche sulla casa. In un solo trimestre l’aumento del debito privato è cresciuto del 2,1%. Anche la spesa sanitaria delle famiglie è aumentata enormemente.

L’amministrazione Biden ha un programma di investimenti, sulla carta, molto ambizioso. Oltre alle infrastrutture, vi sono dei pacchetti di spesa per il digitale, per i cambiamenti climatici e soprattutto per l’infanzia e le scuole.

È chiaro che fare tutto a debito, emettendo Treasury bond e stampando moneta, non sarebbe possibile. Per questa ragione Biden ha annunciato la volontà di aumentare le tasse sui profitti delle grandi corporation e per i super ricchi. Anche su questo è in corso una battaglia ideologica, con ricadute elettorali.

D’altra parte, la politica di Trump di tagliare le tasse per 1.900 miliardi di dollari non ha dato grandi frutti. La narrazione liberista sosteneva che le tasse condonate si sarebbero automaticamente trasformate in nuovi investimenti nei settori dell’economia reale. Così non è stato!

Diminuire le tasse per le pmi, per le famiglie e anche per le industrie grandi, produttive e innovative, è positivo. Però, è pratica di certe multinazionali e di alcuni settori dei servizi, in primis quelli finanziari, utilizzare i soldi rimasti nelle loro casse per differenti operazioni di borsa, come il riacquisto delle proprie azioni, di buyout, cioè per l’acquisto di altre imprese con denaro preso a prestito, o per distribuire dividenti più alti. Il contrario di quanto dovrebbe essere fatto, non solo negli Usa.

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