FRONTIERE

Una strategia gandhiana per salvare l’Ucraina (e anche l’Europa)

Il 24 febbraio 2022 la Russia ha lanciato una massiccia invasione terrestre dell’Ucraina che segnala, nella sua drammaticità, il fatto che Putin ha innalzato il livello dello scontro con l’Occidente. Stati Uniti ed Europa hanno risposto con sanzioni molto pesanti ma anche con una retorica bellicista, stimolata dalle angosciate richieste militari degli ucraini, che rischia di far deflagrare la situazione in uno scontro dagli esiti imprevedibili. Le immagini dei neonati morti sotto le bombe sono atroci. Ricordiamo però che l’invasore russo andrebbe affrontato non solo con mezzi militari, ma anche sfidandolo con azioni non violente, mirate a enfatizzare la natura del conflitto tra un invasore e una nazione che subisce questa violazione delle leggi internazionali.

Si sa che la verità è la prima vittima della guerra per cui è vitale riuscire a ragionare con lucidità, con la volontà di valutare adeguatamente sia gli eventi storici che l’enorme massa di notizie che ci giungono dalle città che subiscono i bombardamenti russi. Il presidente ucraino Zelensky, come pure il ministro degli Esteri Kuleba, hanno lanciato appelli drammatici per la creazione di una no-fly zone, in modo da impedire all’aviazione russa, che ha il controllo quasi totale dei cieli, di colpire strutture e centri abitati. La NATO ha rifiutato la richiesta perché significherebbe entrare direttamente nel conflitto e scontrarsi con le forze russe che, nel caso qualcuno lo avesse dimenticato, possiedono il più grande arsenale nucleare del mondo. Le immagini dei palazzi sventrati, delle rovine fumanti, delle lacrime di chi ha perso tutto e fugge verso la salvezza evocano scene che non si vedevano in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma siamo sicuri che armare gli ucraini affinché conducano una guerriglia senza tregua contro gli invasori sia nel loro interesse?

Politica: continuazione della guerra con altri mezzi

Invertendo la rotta di una politica tradizionalmente pacifista, il neo-cancelliere Olaf Scholz ha annunciato un drastico aumento delle spese militari. Ma sarebbe assurdo ripetere gli stessi errori fatti dagli USA per trent’anni.

Le decisioni che possono mettere a repentaglio il futuro dell’umanità non andrebbero prese sulla base delle emozioni o dell’orrore provocato dalle vittime innocenti, i cui corpi insanguinati giacciono impietosamente sull’asfalto. La rabbia e il desiderio di vendetta non dovrebbero mai condizionare l’operato di chi deve gestire gli affari pubblici, soprattutto quando certe scelte possono spalancare le porte dell’inferno. In ogni caso, la mossa sciagurata di Putin ha rafforzato l’unità europea che, nell’accettare l’accoglienza temporanea dei profughi in fuga dalla guerra, ha finalmente rotto un tabù che aveva lungamente diviso il continente. L’Unione Europea ha poi stanziato 450 milioni di euro attraverso il Peace stability Fund che potranno essere utilizzati anche per acquisti militari, in una svolta che non ha precedenti. Oltre all’intervento comune, diversi Paesi europei hanno promesso l’invio di armamenti. Il governo italiano ha secretato il decreto che contiene il numero esatto di missili anticarro Spike e dei missili terra-aria Stinger, mentre è stato molto prodigo di informazioni sugli aiuti di emergenza per i civili. Per la prima volta, dalla fine della Seconda guerra mondiale, la Germania, che aveva sempre bloccato l’esportazione di armi verso aree di conflitto, ha deciso di inviare 500 missili terra-aria e 1.000 razzi anticarro. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha spiegato che “l’invasione russa è un punto di non ritorno. È nostro dovere aiutare l’Ucraina a difendersi contro l’esercito invasore di Putin”.

Oltre all’aspetto etico (l’articolo 11 della nostra Costituzione condanna esplicitamente il ricorso alle armi) e alle enormi difficoltà logistiche del consegnare materiale bellico durante un conflitto in atto, c’è il rischio concreto, sollevato da molti esperti militari, che gli armamenti inviati dagli USA e dall’Europa finiscano nelle mani sbagliate. Quando Putin dichiara che intende liberare l’Ucraina dai “nemici della Russia “ e dai “nazisti” fa certamente propaganda ma è vero che il tristemente noto battaglione Azov, nato durante gli scontri nel Donbass del 2014 e successivamente incorporato nella Guardia nazionale dell’Ucraina, è formato da volontari con esplicite simpatie naziste che in quell’occasione si sono macchiati di svariati crimini di guerra. Nel momento in cui sostiene di voler aiutare gli ucraini nella lotta contro l’invasore, il cancelliere Scholz dovrebbe anche ricordare la tristissima storia dei missili Stinger forniti dalla CIA ai mujaheddin di Osama bin Laden che combattevano contro i sovietici in Afghanistan. Gli stessi missili vennero poi utilizzati nel 2001 contro l’aviazione USA che attaccava i talebani che avevano dato rifugio ad al Qaida.

L’Europa ha certamente l’imperativo morale di aiutare le popolazioni civili sotto attacco e

Etty Hillesum (1880-1943), brillante intellettuale e dotata di una profonda umanità, avrebbe avuto la possibilità di sfuggire al campo di concentramento ma decise di condividere la sorte del suo popolo, per coerenza con le sue convinzioni umane e religiose.

accogliere i profughi in fuga dalla guerra ma è importante ricordare che, oltre alla risposta militare contro l’invasore, è possibile contrastarlo anche con azioni non violente da parte della popolazione e non è detto che siano meno efficaci delle operazioni di guerriglia. Il 5 marzo i cittadini di Kherson, appena conquistata dalle unità russe, sono scesi in piazza sventolando bandiere ucraine e cantando l’inno nazionale, senza farsi intimorire dai carri armati nelle strade. Possiamo capire perfettamente lo stato d’animo di quegli uomini che accompagnano alle frontiere degli stati confinanti moglie e figli e poi tornano indietro per combattere. Bisogna però evitare di cadere nella trappola di trasformare i russi in mostri da eliminare; contrapporre nazionalismo feroce a nazionalismo feroce è sbagliato e controproducente. Etty Hillesum, un’intellettuale ebrea olandese che venne uccisa ad Aushwitz, scrisse nel suo diario, redatto tra il 1941 e il 1943: “Ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale”. Non dovremmo ripetere il tragico errore del Trattato di Versailles, che impose ai tedeschi sanzioni umilianti dopo la Prima guerra mondiale, creando le precondizioni per la vittoria del nazismo in Germania.

Putin ha ordinato l’invasione perché intende passare alla storia come colui che ha riportato l’Ucraina, all’origine della nascita della Rus e della sua cristianizzazione, nell’alveo della grande madre Russia, quasi obbedendo a un comando divino. Non è certo casuale che Kyrill, patriarca della chiesa ortodossa russa (presente anche in Ucraina), non abbia condannato esplicitamente l’invasione, nonostante che 236 sacerdoti e diaconi ortodossi abbiano firmato una lettera in cui denunciano il “calvario a cui i nostri fratelli e sorelle in Ucraina sono stati sottoposti”, aggiungendo che il popolo ucraino deve essere artefice delle proprie scelte in modo libero, “non sotto il mirino delle mitragliatrici, senza pressioni dall’Occidente o dall’Oriente”. Da un punto di vista militare, l’esercito russo ha incontrato una resistenza molto maggiore di quella che si aspettava, il presidente Zelensky non è fuggito come si augurava Putin e il ministero della Difesa russo ha dovuto ammettere la perdita ufficiale di 500 militari nella prima settimana di guerra, una cifra enorme, considerata la sproporzione delle forze in campo. Sarebbe però pericolosissimo se Stati Uniti ed Europa si illudessero che, con il dovuto sostegno, gli ucraini possono infliggere una sconfitta umiliante all’esercito invasore.

La democrazia non si esporta come una merce

Dwight D. Eisenhower (1890-1969), comandante in capo dell’esercito alleato durante la Seconda guerra mondiale, nel suo discorso di commiato denunciò il ruolo pericoloso svolto nella politica americana di quello che definì “complesso militare-industriale”.

La caduta del comunismo provocò negli Stati Uniti un delirio di onnipotenza, un desiderio smodato di imporre i propri valori e stili di vita a tutto il mondo, con le buone o con le cattive. All’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, con la fine della minaccia militare sovietica, ci fu la possibilità di indirizzare la politica statunitense verso una collaborazione con l’ex nemico comunista e questo avrebbe consentito di investire quello che fu definito allora peace dividend in progetti di sviluppo nelle aree meno ricche del globo, aprendo una fase di pace e prosperità per tutti. Evidentemente, la prospettiva di trasformare le spade in aratri non poteva essere accettata dal “complesso militare-industriale” (ricordiamo sempre che la definizione fu formulata il 17 gennaio 1961 dal presidente Eisenhower al termine del suo secondo mandato) tanto che iniziò presto una campagna di riarmo per la “guerra al terrorismo” e per “esportare la democrazia”. Le varie amministrazioni che si sono succedute alla Casa Bianca hanno considerato la Russia post sovietica come un gigante ferito da saccheggiare, con lo stesso atteggiamento con cui Gran Bretagna e Francia avevano spolpato il decadente impero ottomano, alla fine della Prima guerra mondiale. Contrariamente alle attese, la risposta della Russia si è incarnata nell’emergere di un potere sempre più accentrato nelle mani di una sola persona che, correndo rischi enormi, ha deciso di lanciare la sua campagna di sfida alle società liberali dell’Occidente.

Il mondo unipolare sognato dai neo-cons che dominavano le amministrazioni di George W. Bush si è dissolto, la Cina è diventata la seconda potenza economica del mondo e sono sorte varie potenze regionali come la Turchia e l’Iran. La Russia di Putin ha investito tutte le sue risorse nella modernizzazione del proprio esercito e dell’apparato missilistico-nucleare e ha rimpiazzato gli Stati Uniti come potenza di riferimento nel Medio Oriente. Mosca ha lanciato con successo anche una strategia di penetrazione in Africa, riuscendo a sostituire la presenza militare francese in Mali, oltre a giocare un ruolo centrale in Libia. Dei 35 Paesi che all’Assemblea Generale dell’ONU si sono astenuti nel condannare l’invasione russa dell’Ucraina, ben 20 sono africani e questo rappresenta un’indicazione molto precisa dell’influenza russa in quel continente.

Vincere la pace

L’umiliante ritiro statunitense da Kabul nell’agosto del 2021 è la chiara dimostrazione che la democrazia non si esporta con le baionette e che puntare soltanto su una strategia armata, oltre ad essere inumano, è fallimentare. Nel 2003, nel clima di proteste seguito all’invasione statunitense dell’Iraq, giustificata da una inesistente minaccia di “armi di distruzione di massa”, Jürgen Habermas e Jacques Derrida, due importanti intellettuali europei, si interrogarono su cosa legasse insieme gli europei rispetto all’ordine internazionale. La loro risposta fu: una mentalità politica diversa da quella americana e basata su alcuni tratti comuni. L’avversione all’uso della forza, innanzitutto, e quindi l’insistenza sulla legge e il rispetto della legalità internazionale; il sostegno a un sistema globale basato su istituzioni multilaterali “liberali” e sui diritti umani. Forse, l’amministrazione Biden ha capito quella lezione ma, purtroppo, dobbiamo tener presente che gli Stati Uniti, ancora la maggiore potenza militare del mondo, sono una nazione fortemente disunita, attraversata da correnti radicali contrapposte, al punto che la storica americana Barbara F. Walter e il giornalista canadese Stephen Marche hanno scritto due distinti saggi sul pericolo di una prossima guerra civile.

Probabilmente, sono maturi i tempi in cui quella che, fino all’altro ieri, era una “mera espressione geografica” faccia scelte in grado di sciogliere il nodo tra guerra e pace, come recita il titolo del maggior romanzo di Lev Tolstoj. L’Europa, che è sempre riuscita a crescere durante le crisi, ha reagito positivamente alla pandemia con misure impensabili fino a poco tempo fa, mettendo in comune il debito e varando progetti di sviluppo di dimensioni colossali. Anche la guerra in Ucraina ha prodotto reazioni unitarie, ma un salto qualitativo verso una politica veramente federale non può avvenire soltanto nel campo militare. Va messa a punto una strategia globale che includa anche un aspetto militare, ma soltanto in un contesto più vasto. L’invasione dell’Ucraina ha messo in evidenza la necessità di potenziare ulteriormente una forza europea di intervento rapido e di ripensare il concetto stesso di NATO, le cui finalità vanno riviste e aggiornate. La Russia concepisce l’Ucraina come componente irrinunciabile della sua storia, mentre l’Occidente non può accettare che gli ucraini non possano scegliere liberamente il loro futuro. Per questo è necessario iniziare dei negoziati tra le forze in campo, con l’assistenza degli Stati Uniti e dell’Europa, per giungere a un immediato cessate il fuoco e ridiscutere le prospettive strategiche dell’intero continente di cui anche Russia e Ucraina fanno parte.

La Germania ha appena annunciato un gigantesco piano di riarmo di 100 miliardi di euro e forse altri Paesi europei potrebbero seguirla sulla stessa strada. Poiché la guerra in Ucraina rischia di polverizzare ogni possibilità di ripresa dopo la pandemia, non sarebbe più saggio creare, di concerto con Stati Uniti e Regno Unito, un fondo di sviluppo, paragonabile al Next Generation EU, per la modernizzazione e lo sviluppo dell’apparato produttivo ucraino aperto anche alla Russia? La guerra in corso è la più grande minaccia alla pace e alla prosperità in Europa dal 1945 e vale certamente la pena di tentare un colpo d’ala, vista la posta in gioco. Negli ultimi trent’anni gli Stati Uniti hanno dimostrato di non capire l’importanza della crescita economica come fattore in grado di garantire pace e stabilità. Finalmente, dopo decenni di austerità masochistica, l’UE è arrivata a comprendere che bisogna agire in modo centralizzato e coordinato per lo sviluppo economico. Seguendo questo ragionamento, l’Ucraina dovrebbe beneficiare di fondi ingenti per modernizzarsi e diventare allo stesso tempo un ponte per l’esportazione tecnologica verso la Russia, economicamente ancora arretrata e con un Pil vistosamente inferiore a quello italiano.

L’ex cancelliera Angela Merkel, anche grazie alla sua buona conoscenza del russo, sarebbe

Angela Merkel, qui ritratta da giovane in un manifesto della sua campagna elettorale, potrebbe essere un’ottima mediatrice del progetto europeo per l’Ucraina e la Russia.

un’ottima ambasciatrice di questa proposta. Al momento in cui scrivo ci sono, purtroppo, bombardamenti e morti, ma considerare Putin come un demonio da annichilire non favorisce alcuna soluzione. A chi dice che non si può negoziare con un dittatore che ha le mani sporche di sangue, rispondo che l’Occidente ha firmato accordi, rispettati per cinquant’anni, con Stalin. Alla fine del secolo scorso il mondo perse l’occasione di intraprendere un cammino di pace e sviluppo ma, forse, l’invasione dell’Ucraina con le sue orribili conseguenze potrebbe farci invertire la rotta e lavorare per un’Europa “dall’Atlantico agli Urali”. Un aspetto collaterale, ma di importanza cruciale, è che confrontandosi con le ossessioni securitarie di Putin e sfruttando l’Ucraina come ponte verso la Russia, verrebbe rafforzata una collaborazione tecnologica che contribuirebbe a liberare progressivamente Mosca dall’abbraccio mortale con Pechino. E questo sarebbe un vantaggio enorme sia per gli Stati Uniti che per l’Europa.

Galliano Maria Speri

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