Traballa il dollaro scosso da Trump

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Mario Lettieri e Paolo Raimondi Se persino un economista della banca americana JP Morgan Chase, la più grande tra le “too big to fail”, ammette che l’era del dollaro come moneta degli scambi internazionali è arrivata al termine, vuol dire che qualcosa d’importante sta veramente cambiando nel sistema monetario mondiale. Il dollaro è stata la valuta di riserva dominante per quasi un secolo. Ma Craig Cohen, l’economista della citata banca, afferma che “il dollaro potrebbe perdere lo status di principale valuta internazionale”. Una causa non secondaria è il crescente potere delle economie asiatiche, in particolare quello della Cina e del Giappone. Oggi l’intera regione asiatica, che comprende anche la Russia, vanta più del 50% del Pil mondiale. E, com’è noto, per i commerci interni di questa vasta area si fa sempre più spesso uso di monete locali. L’altra ragione sta nel gigantesco debito pubblico americano che ha raggiunto i 22.000 miliardi di dollari. Ciò, inevitabilmente, rende la valuta americana più vulnerabile e meno appetibile per gli investitori. La prova evidente è la corsa all’oro e la crescita del suo valore. La Russia e la Cina guidano quest’azione. Nei primi cinque mesi dell’anno hanno aumentato le loro riserve auree di ben 70 tonnellate. Sembra che negli ultimi 10 anni la quota di oro nelle riserve russe sia quasi decuplicata. La Banca centrale di Mosca ne detiene 2190 tonnellate per un valore di circa 90 miliardi di dollari. Un quinto di tutte le riserve russe. Nel 2018 la Banca centrale russa ha dimezzato le riserve di dollari passando dal 45,8% al 22,7% del totale, sostituendoli con l’euro (passato dal 21,7% al 31,7%) e con lo yuan (salito dal 2,8% al 14,2% del totale) La Cina da gennaio sta acquistando decine di tonnellate di oro il mese che in parte sono destinate a incrementare le riserve. La quantità totale di oro è di circa 2.000 tonnellate. Rimane ancora molto spazio, poiché l’oro rappresenterebbe solo il 3,5% del totale delle riserve cinesi. Comunque, la concentrazione di oro è ancora negli Usa. Vi sarebbero, infatti, circa 8.200 tonnellate, pari a oltre il 70% di tutte le riserve americane. Una simile percentuale vale anche per la Germania. In Italia l’oro, con circa 2.450 tonnellate, rappresenta il 66% di tutte le nostre riserve. Ma la tendenza a livello mondiale di rimpiazzare il dollaro, nella composizione delle riserve, con l’oro e con altre monete prosegue speditamente. La progressiva perdita di affidabilità del “sistema dollaro” è testimoniata anche dalla presa di distanza di molti investitori istituzionali internazionali dai titoli di stato americani. In passato la Russia era ritenuta uno dei maggiori investitori in Treasury bond. Nel 2010 ne aveva 176 miliardi di dollari. Adesso la quota è scesa a 12 miliardi. La Cina, il principale detentore mondiale di Treasury bond, mese dopo mese ne vende per decine di miliardi di dollari. Negli ultimi due anni ha raggiunto il minimo storico, scendendo a 1.100 miliardi. Anche i più stretti alleati degli Usa incominciano ad avere dubbi circa l’attendibilità del sistema finanziario americano, tanto che persino la Gran Bretagna nel solo mese di aprile ha ridotto il portafoglio di obbligazioni americane di 16,3 miliardi di dollari. Il Giappone, che è il secondo creditore degli Usa, ha fatto lo stesso. Secondo il ministero delle Finanze di Washington, la stessa disaffezione si starebbe manifestando anche nella borsa di Wall Street, dove nei passati 13 mesi gli investitori stranieri avrebbero venduto azioni di società americane, soprattutto dei settori high tech, per circa 215 miliardi di dollari. Nonostante tutto ciò, Trump auspica una svalutazione del dollaro. Così, sostiene lui, si comprerebbero meno beni sui mercati mondiali e le esportazioni americane diventerebbero più competitive. In uno dei suoi recenti “messaggini” ha detto che “la Cina e l’Europa giocano con la grande manipolazione monetaria e immettono ingenti quantità di soldi freschi nei loro sistemi allo scopo di competere con gli Usa”. Il presidente americano chiede, quindi, di stampare più dollari e con essi comprare altre monete, rendendo più conveniente per gli investitori stranieri cambiare le loro valute in dollari. Molti, anche negli Usa, gli hanno fatto notare che un dollaro svalutato non è la soluzione. È soltanto il percorso più sicuro per far aumentare i prezzi all’interno del Paese, poiché le importazioni Usa sono in gran parte prodotti semilavorati che entrano nei processi produttivi nazionali. Ma Trump non ci sente. Se oltre alla guerra dei dazi si dovesse rischiare anche una guerra delle valute, la stabilità economica mondiale potrebbe essere messa pericolosamente a rischio e con essa, naturalmente, anche il ruolo del dollaro. Al riguardo il presidente della Bce, Mario Draghi, è stato molto chiaro: “Consideriamo l’accordo internazionale per evitare le svalutazioni valutarie competitive un pilastro del multilateralismo”. Parole sagge e consapevoli.]]>

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