FRONTIERE

Taiwan, il nodo più aspro e il momento più difficile

I nodi stanno venendo al pettine. I toni della stampa cinese somigliano sempre di più a quelli del bullo del quartiere che minaccia il ragazzino gracilino: “se attacchiamo Taiwan la sua Difesa cederà ben presto” è il messaggio che trasuda dalla propaganda martellante, da mesi pubblicata sui mass media di lingua inglese della Cina continentale.

Da decenni si sa che la zona più pericolosa del mondo è il Mar Cinese Meridionale: se mai vi sarà una terza guerra mondiale comincerà da qui, perché da qui passa il più ingente flusso di traffici commerciali da cui dipende l’economia globale. E su questo mare la Cina ha piazzato propri avamposti militari in una serie di isole alcune delle quali artificiali – cosa che non è vista di buon occhio da tutti gli altri Paesi della zona, dal Vietnam alle Filippine, dall’India al Giappone che, in questo, condividono l’interesse statunitense a contenere il progressivo allargamento della sfera di influenza cinese.

E in particolare dal tempo della presidenza Trump (2016-2020) negli USA il caso di Taiwan è divenuto il tavolo su cui si svolge il braccio di ferro tra la Cina e il resto del mondo: potrà questo diventare l’innesco di un conflitto globale?

Premesso che la cosa appare assai poco probabile (gli interssi economici e i rapporti strategici in gioco sono tali da sconsigliare avventure belliche), resta che questo è il fulcro attorno a cui si misura la strategia internazionale di questi primi anni ’20, e che le tensioni sono tanto cresciute che potrebbero dar luogo a incidenti dalle dimensioni non prevedibili.

Cercando di sintetizzare la situazione

Taiwan, che il mondo occidentale si è abituato a considerare un Paese indipendente, agli occhi dei Cinesi continentali è un’isola attualmente retta da un governo secessionista, che pertanto va rimesso in riga.

Oltre alle minacce verbali si susseguono esercizi militari navali nel mare che separa il continente da Taiwan e sorvoli di aeroplani da guerra cinesi sullo spazio aereo dell’isola.

Risalta particolarmente una inconsueta modalità di manovra compiuta all’inizio di ottobre dalle Forze armate cinesi (People’s Liberation Army, PLA): il traghetto Chinese Rajuvenation, di 45 mila tonnellate, la più grande nave ro-ro dell’Asia, dalle caratteristiche commerciali e non militari, è stato usato per simulare il trasporto di truppe, carri armati e altri veicoli di supporto lungo un migliaio di chilometri. Quel traghetto è in grado di ospitare 1700 passeggeri e 350 veicoli. Già in agosto una simile manovra era stata compiuta con un traghetto di dimensioni minori. Lo scopo di tali manovre è dimostrare che, una volta che le forze aeree e navali abbiano preso il controllo del mare che separa Cina e Taiwan, in breve migliaia di soldati della PLA possono sbarcare sull’isola e invaderla. È difficile credere che se veramente la Cina volesse lanciare un attacco, l’isola possa respingerlo, non solo per la sproprzione di forze militari, ma anche perché la volontà indipendentista è relativamente recente e non necessariamente radicata in tutta la popolazione, e la capacità e volontà di intervento esterno a difesa dell’indipendenza dell’isola è assai dubbia.

Com’è noto la popolazione di Taiwan ammonta a quasi 24 milioni di abitanti, a fronte di 1,4 miliardi di abitanti della Cina: le rispettive Forze armate sono proporzionate alla popolazione. E sul piano tecnologico la Cina ha compiuto passi da gigante nel corso dei decenni passati, al punto che oggi è in grado di costrure la propria stazione spaziale orbitante e di disporre di missili ipersonici. Taiwan dipende dalle forniture militari statunitensi.

Guerra e pace

A fronte della minaccia di invasione cinese la sua speranza di difesa dipende dalla possibilità che giunga tempestivo un supporto militare statunitense alla guida di una coalizione che può essere molto vasta: dal Giappone alla Corea del Sud, all’Australia all’India, perché di Paesi interessati a contenere l’espansionismo cinese ve ne sono parecchi, a parte la Corea del Nord, un po’ in tutta l’Asia. E la stessa Russia, che è stata la fonte di alcune delle strumentazioni militari più importanti attualmente in uso alle Forse armate cinesi (a cominciare dalle due portaerei già attive e dagli aerei da combattimento), per quanto di fatto alleata alla Cina con la quale compie ripetute manovre militari congiunte, guarda con sospetto il suo vicino dell’Asia meridionale, la cui ingente popolazione in prospettiva può divenire un rischio per i confini della spopolata Siberia, la porzione più vasta del territorio russo.

Comuque al momento si direbbe che in caso di conflitto militare non vi sarebbe scampo per Taiwan. Anche se la congerie di altri Paesi volesse veramente attivarsi per difendere l’isola, avrebbe bisogno di un lasso di tempo ben maggiore di quello necessario alle forze armate cinesi per invaderla.

La Cina conduce già una guerra psicologica a tutto spiano, Taiwan cerca di stringere rapporti più forti col mondo occidentale, ma questo non è in grado di affermare con forza la propria volontà di difenderla, perché semplicemente non la ha né è in condizioni di maturarla. Questo è ben noto a tutti gli attori in gioco. Di qui che nel mondo occidentale l’attenzione politica e massmediale sul nodo di Taiwan sia relativamente limitata, mentre sui mass media cinesi rivolti all’estero la propaganda sia insistente e condita di toni assai violenti e minacciosi.

Tuttavia probabilmente la Cina, prima ancora che a invadere l’isola è interessata a un cambio di regime e usa i tamburi di guerra anzitutto come strumento di pressione politica e psicologica sulla popolazione taiwanese. In fondo, ci farebbe una ben meschina figura se attaccasse, e non farebbe che aumentare il solco che allontana la popolazione taiwanese dalla Cina continentale.

Politica interna e politica esterna

Dal 1949 e fino al 2000, Taiwan, insieme con le tante, più piccole isole di sua pertinenza, è stata governata dal Kuomintang, il vecchio partito legato alla rivoluzione del 1911 che mise fine all’Impero cinese e si rifugiò sulle isole dopo che Mao e le sue truppe comuniste riuscirono a prendere il controllo della Cina continentale. Tuttavia, pur essendo tendenzialmente liberale, democratico e anticomunista, il Kuomintang (KMT) si è sempre mosso come parte della Cina unita, e infatti v’è un settore di questo partito che opera legalmente all’interno della Cina comunista.

La tendenza del Kuomintang non è di separare Taiwan dalla Cina, ma, se possibile, di cambiare il regime dominante sul continente. Per ottenere questo obiettivo dalla fine degli anni ’70 ha puntato sulla rinascita economica e sulla diffusione della logica capitalistica nella Cina comunista. In questo la sua politica non è stata dissimile da quella soggiacente alle riforme promosse da Deng Xiaoping dopo la morte di Mao e la sconfitta della Banda dei Quattro.

Ma dal 2000 in Taiwan ha acquisito notevole peso politico il Partito Progressista Democratico (DPP) che, dopo aver vinto le elezioni del 2016 ha sempre più marcatamente manifestato l’intenzione di fare di Taiwan un Paese indipendente. E non senza ragione: la cittadinanza taiwanese è ormai abituata da tempo al sistema elettorale di tipo occidentale, con la competizione di diversi partiti in un dibattito aperto e non ideologico.

Beninteso, anche il KMT, che è stato il responsabile di aver portato l’isola a queste condizioni culturali, è da tempo favorevole al regime democratico di stampo occidentale. Tuttavia a differenza del DPP si è sempre mantenuto anche favorevole al dialogo con la Cina e a considerarsene parte. Non a caso il governo del KMT precedente a quello attuale del DPP aveva allacciato una vasta serie di interconnessioni con la Cina continentale, che avevano consentito l’aumento del numero dei voli commerciali e le visite reciproche di famiglie che si trovavano ad avere membri, sia sul continente, sia sull’isola.

Dopo il 2016 una serie di circostanze ha portato a un irrigidimento delle posizioni.

Da un lato in Taiwan ha prevalso il DPP e ora il suo governo è in mano alla Tsai Ing-wen che, di formazione giurista, persegue con convinzione l’idea di ottenere che il suo Paese sia riconosciuto dalle Nazioni Unite come sovrano e indipendente.

Dall’altro in Cina Xi Jinping ha rispolverato il maoismo in salsa tecnologica, ha modificato la consuetudine, invalsa dopo la morte di Mao, di impedire che il presidente del Paese resti in carica per più di due mandati e in tal modo è divenuto una specie di nuovo dittatore.

E, come ciliegina, negli USA Trump ha cominciato la sua guerra commerciale contro la Cina, in tal modo accelerando la tendenza, peraltro inevitabile, che la Cina sviluppi il proprio mercato interno per completare così la propria ascesa economica che è stata fondata in modo quasi esclusivo sulle esportazioni. L’aumento degli investimenti interni in Cina è uno dei fattori che hanno accelerato il rafforzamento del suo sviluppo tecnolgico e del suo potere militare, nel quadro della raggiunta coscienza di essere divenuta una potenza mondiale comparabile solo agli Stati Uniti – con la differenza che il potenziale futuro cinese è infinitamente superiore a quello americano, dato il peso demografico inarrivabile del Paese asiatico.

Sino all’inizio dell’era Trump, in Cina la prospettiva della riunificazione con Taiwan era intesa come un progetto di lungo termine. Dopo i rivolgimenti del 2016 i tempi si sono ristretti. Anche perché, se non riuscisse nell’operzione a breve termine, alla lunga la vecchia strategia del KMT di sovvertire il regime dall’interno potrebbe ottenere qualche risultato, soprattutto qualora il ritmo di crescita dell’economia cinese rallentasse in modo vistoso, dando luogo a ragioni di insoddisfazione verso il regime di Xi tra le file dell’élite che oggi lo sostiene.

Oggi la Cina ha costruito la flotta militare più numerosa del mondo e pertanto non accetta che il dominio sui mari che le sono prossimi, a partire dal Mar Cinese Meridionale, le sia conteso; ha progressivamente assorbito Hong Kong mentre sul piano internazionale ha esteso la propria influenza economica, grazie alla Belt & Road Initiative, su gran parte dell’Asia e dell’Africa nonché dell’America Latina.

Per quanto sul piano dell’esplorazione spaziale sia giunta a livelli comparabili con quelli degli Stati Uniti, probabilmente non dispone ancora di una flotta di velivoli, civili e militari, paragonabile a quella statunitense, ma si intende che poco le manca.

Per parte sua Taiwan ha visto crescere la propria presenza internazionale anche grazie allo sviluppo della pandemia nel corso del 2020, poiché ha dimostrato di saperla contrastare con grande efficacia. E ha risposto alle crescenti minacce cinesi attivando una vasta diplomazia volta a presentare il Paese come pienamente integrato nei valori occidentali e liberali, in questo sottolineando il marcato contrasto con la Cina continentale e il suo riaffermato modello comunista.

Quanto tempo per la diplomazia?

Il nodo di Taiwan così è diventato una lotta contro il tempo. La Cina vorrebbe riprendersela prima che l’integrazinoe di Taiwan nella logica occidentale convinca tutto il suo elettorato e il consesso delle Nazioni Unite. Taiwan vorrebbe che la sua forma di governo democratico la porti a essere riconosciuta quanto prima come un Paese sovrano.

Siamo nel tempo in cui la diplomazia è fondamentale per evitare che le reboanti parole e le minacciose manovre cinesi diano luogo a incidenti imprevisti. Una lotta di nervi. Tanto più difficile visto che, anche grazie all’era Trump non ancora tramontata, il nerbo del vecchio modo occidentale risulta alquanto usurato. E l’identità e la cultura della vecchia superpotenza si rivela assai fragile.

Il tempo in cui sempre più importante risulta il ruolo dell’Europa, che sarebbe ancora più rilevante qualore potesse agire di concerto con la Russia, in questa fase più interessata a una mediazione che a uno scontro.

Ma certo, se L’Europa si limita ad accalorarsi attorno a problemi quali quello dell’identità di genere, sarà difficile che trovi le energie per dire una parola autorevole in un mondo dove la superpotenza di riferimento sta perdendo brano a brano la propria anima.

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