di Galliano Maria Speri
Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta hanno segnato uno spartiacque insanguinato che ha tragicamente condizionato il futuro dell’Italia. A distanza di quarant’anni il quadro che abbiamo è parziale e, spesso, fuorviante perché certe “verità” non possono ancora emergere. Il libro di Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni Moro. Il caso non è chiuso. La verità non detta, basato sulle indagini della Commissione Moro 2, rivela particolari finora sconosciuti che dischiudono prospettive inquietanti e pongono domande pesantissime ancora senza risposta, documentando una vasta e insospettabile rete di supporto internazionale.
La Commissione ha lavorato per quattro anni, interrogando centinaia di nuovi testimoni, consultando migliaia di documenti desecretati e servendosi delle moderne tecnologie della polizia scientifica e del RIS dei carabinieri. Molti nuovi fatti smentiscono quello che si considerava assodato, ma che sembra essere una verità di comodo, concordata tra le varie parti in causa. La versione ufficiale sostiene che, per tutta la durata dell’operazione, Moro fu tenuto prigioniero in un minuscolo vano ricavato all’interno di una stanza del covo di via Montalcini 8. Le risultanze dell’autopsia però documentano che il tono muscolare dello statista democristiano era buono, quindi difficilmente compatibile con una prigionia fortemente costrittiva, all’interno di un minuscolo bugigattolo per quasi due mesi. Il 28 settembre 1978 il generale Giulio Grassini, allora direttore del Sisde (i servizi segreti civili), inviò un appunto al ministro dell’Interno, facendo riferimento ad una intercettazione ambientale di una conversazione tra detenuti, “uno dei quali di alto livello terroristico”, e questo parrebbe confermare che Moro fu tenuto prigioniero in un ambiente più vasto. La conversazione rivela che Moro “si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere scriveva”. L’appunto era rimasto sconosciuto per quarant’anni.
[caption id="attachment_11317" align="aligncenter" width="300"] Via Fani, dopo il rapimento.[/caption]Diversi elementi raccolti dalla Commissione portano a ritenere che la prima prigione usata dalle Brigate Rosse fosse in una zona non troppo distante da via Fani, luogo dell’eccidio della scorta e del rapimento. Il 17 marzo 1978, il giorno successivo alla strage terroristica, una fonte, giudicata molto attendibile, segnala alla Guardia di Finanza l’utilizzazione di una base situata ad un piano elevato, con accesso al garage tramite ascensore. Informazioni simili sono poi fornite alla sala operativa della questura di Roma da un anonimo, secondo il quale in via Massimi, via Anneo Lucano, via Licinio Calvo “sarebbero nascoste le Brigate Rosse e lui ci avrebbe indicato l’appartamento che si accede attraverso un garage”, a parte l’italiano approssimativo del trascrittore della telefonata, la relazione covo-garage coincide con quanto riferito alla Guardia di Finanza. Ancora, nella riunione del 22 marzo 1978 del Comitato politico-tecnico-operativo istituito presso il gabinetto del ministero dell’Interno, il generale delle Fiamme Gialle Raffaele Giudice riferisce che secondo una fonte “il rapito si trova nella zona di Monte Mario e che finora non è stato trovato in quanto le perquisizioni non sono state fatte a tappeto”. La stessa zona era stata indicata da Emanuele De Francesco, questore di Roma all’epoca del rapimento e poi ai vertici del Sisde, secondo il quale la prima prigione di Moro aveva forse il “carattere di extraterritorialità”. Il dott. Marinelli del commissariato di Monte Mario segnalò che in via Balduina 323 esistesse l’accesso al garage privato di due palazzine con ingresso principale in via Massimi 91.
Gli edifici indicati erano allora di proprietà dello IOR, l’Istituto Opere di Religione gestito dal discusso mons. Paul Marcinkus, e vi risiedevano i cardinali Vagnozzi e Ottaviani. Ma oltre a quegli alti prelati, la Commissione ha appurato che allo stesso civico alloggiava una coppia di conviventi che ospitò dall’ottobre al dicembre 1978 un “compagno” che successivamente essi identificarono con il brigatista Prospero Gallinari, uno dei carcerieri di Moro. Un’altra inquilina era la giornalista tedesca Birgit Kraatz, corrispondente dall’Italia dei periodici Der Spiegel e Stern. All’epoca, la giornalista aveva una relazione con Franco Piperno, il leader di Autonomia Operaia, che ha riferito alla Commissione che il contratto d’affitto era stato ottenuto proprio grazie a Marcinkus, preoccupato del suo buon nome sulla stampa tedesca.
[caption id="attachment_11314" align="alignleft" width="300"] Mons. Paul Marcinkus (1912-2006), potentissimo presidente dello IOR e sospettato di appartenere alla massoneria, ebbe rapporti di affari con personaggi equivoci come Michele Sindona e Roberto Calvi (appartenenti entrambi alla loggia P2 di Licio Gelli).[/caption]Sempre al civico 91 risiedeva Omar Yahia, finanziere legato ai servizi segreti libici e statunitensi ma in contatto anche con quelli italiani. Una testimone, ascoltata dai magistrati che hanno collaborato con la Commissione, ha riferito che uno dei condomini dello stesso stabile, il generale del Genio Renato D’Ascia “disse a mio marito […] diversi anni fa, ma comunque molti anni dopo il sequestro Moro, che nella Palazzina B c’era un covo delle Brigate Rosse legato al sequestro dello statista e che proprio nei giorni dell’eccidio di via Fani ci fu movimento tra il garage seminterrato della palazzina e il covo”.
Il generale D’Ascia operò anche nel servizio segreto militare ed ebbe contatti di lavoro con le Fiamme Gialle, per cui è ipotizzabile che fosse lui la fonte qualificata che segnalò l’ubicazione della prigione di Moro. Un’altra coincidenza peculiare è che nella stessa palazzina avesse la propria sede la Tumpane Company, fondata nel 1946 negli Stati Uniti e con domicilio fiscale proprio in via Massimi 91. La Tumpane Company (ha cessato le proprie attività nel 1982) forniva assistenza alla presenza NATO in Turchia ma svolgeva anche attività di intelligence a beneficio di un organo informativo militare statunitense che aveva sede presso l’ambasciata di via Veneto. Nulla di tutto questo è mai stato comunicato all’epoca del rapimento Moro alla stazione e alla Compagnia Carabinieri competenti per territorio. È stato inoltre appurato che, tra il 1977 e il 1978, nell’attico della palazzina B fu realizzato un piccolo vano appoggiato ad uno dei muri perimetrali che poteva ospitare un eventuale prigioniero con gli spazi e i servizi di un vero e proprio miniappartamento. Per completare il quadro di queste palazzine, che certamente non godono di extraterritorialità, ma si sono dimostrate super sicure per i terroristi, dobbiamo ricordare che Alessio Casimirri, l’unico brigatista di via Fani tutt’ora in libertà, è figlio di Luciano, vice portavoce della sala stampa vaticana sotto tre pontefici.
[caption id="attachment_11316" align="alignright" width="310"] Una vecchia foto segnaletica di Alessio Casimirri, il brigatista fuggito in Nicaragua dove vive tutt’ora. Figlio di Luciano, vice presidente della sala stampa vaticana sotto Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI. La famiglia non lo ha mai condannato esplicitamente, giustificando la sua militanza terroristica come una risposta alla sua sete di giustizia.[/caption]Oltre a confermare il ruolo ben noto di Markus Wolf, capo dei servizi segreti della Germania dell’Est, che ha ammesso di essere stato il controllore del gruppo terroristico denominato RAF (Rote Armee Fraktion), il libro ribadisce con elementi e testimonianze che almeno due tedeschi, un uomo e una donna, hanno partecipato all’agguato a Moro, circostanza sempre negata da tutti i brigatisti.
[caption id="attachment_11315" align="alignleft" width="440"] Markus Wolf (1923-2006), responsabile del coordinamento delle attività di spionaggio all’estero della Germania orientale. Riuscì a infiltrare e manipolare il gruppo terroristico RAF che partecipò al rapimento di Aldo Moro.[/caption]Il fatto veramente nuovo, però, è che i terroristi che hanno operato in via Fani hanno usato come base logistica il Bar Olivetti, che si apre sulla stessa strada. In quel caffè, come è stato accertato dalla Commissione, si è svolto per anni un traffico di armi vendute alla malavita romana, alla Banda della Magliana, alla ‘ndrangheta, ai palestinesi dell’OLP. Il proprietario del bar, Tullio Olivetti, era in contatto anche con pezzi da novanta della mafia come Frank Coppola eppure, nonostante questo, è rimasto completamente indenne dalle indagini svolte sul suo bar a partire dal 29 gennaio 1977. La Terza Relazione della Commissione Moro lo indica come “trafficante di armi e di valuta falsa (aveva riciclato 8 milioni di marchi tedeschi, provento di un sequestro avvenuto in Germania)”. Il caffè era gestito da Olivetti in società con Gianni Cigna, marito di Maria Cecilia Gronchi, figlia dell’ex presidente della Repubblica italiana Giovanni Gronchi, le cui mire di rielezione erano state bloccate proprio da Moro, dopo la scoperta di una spia del KGB che lavorava come segretaria del suo consigliere diplomatico. Come si può ben vedere, ci sono veramente tanti fatti nuovi che fanno ritenere che il caso Moro rimane aperto più che mai.
Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni
Moro il caso non è chiuso. La verità non detta
Lindau, pag. 265, 18 euro
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