di Leonardo Servadio
“La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde… Un uomo, considerato di per se stesso, ha solo dei doveri, fra i quali si trovano certi doveri verso se stesso. Gli altri, considerati dal suo punto di vista, hanno solo dei diritti. A sua volta egli ha dei diritti quando è considerato dal punto di vista degli altri, che si riconoscono degli obblighi verso di lui.” Suona strano, letto oggi, l’incipit del testo Le esigenze dell’anima, scritto da Simone Weil a Londra nel 1943 (La prima radice) come parte della ricerca di nuove basi per ricostruire lo Stato francese dopo la fine, allora imminente, della seconda guerra mondiale. Suona strano perché l’idea di dovere del singolo verso la società è stata ben presente nella cultura diffusa al tempo della ricostruzione, in tutta Europa e sino a questi anni più recenti. Ma le eccezioni si sono fatte sempre più incalzanti man mano che il dominio del senso di giustizia sociale svaniva a favore di un sempre più ampio libero arbitrio.
Sul piano macro economico la svolta è avvenuta nel corso degli anni Settanta del ‘900 e non ha fatto che estendersi sempre di più negli anni successivi, complice la caduta di quella che sembrava la società per eccellenza fondata sugli obblighi e praticamente priva di diritti, qual è stata l’URSS ispirata ai principi del comunismo. Ha trascinato ogni aspetto della cultura e della vita sociale.
Negli USA la marcia verso gli eccessi del liberalismo dopo la fine della guerra in Vietman ha assunto il volto del movimento “Free to Choose”, ispirato dalla produzione teorica di Milton Friedman col suo corrispettivo di privilegiare la domanda sull’offerta: solo il gusto del consumatore definisce le caratteristiche del mercato. (Ovviamente si tralasciavano le domande: come si formano i gusti del consumatore? Chi e come e quanto vi influisce?).
E questo sul piano politico equivale a dire: l’elettore definisce chi è e che cosa fa l’eletto. Sembra una politica democratica e per questo s’è imposta ed è cresciuta di importanza occupando aree sempre più ampie dei mercati e degli agoni politici, nonché delle scelte dei governi, fino a rendere sempre più ampio il potere di chi è in grado di influire sui gusti, incidendo sugli egoismi delle persone e a discapito delle società nel loro complesso.
All’epoca di F.D. Roosevelt era chiaro che lo Stato doveva mettere un freno all’invadenza delle capacità delle grandi società private di influire sul mercato e sui gusti dei consumatori, ma la “libertà di scelta” ha messo a tacere questa che ha finito per apparire come eccessiva invadenza della legge sulla libertà di movimento dei singoli. E la caduta del comunismo non ha fatto che rafforzare l’idea che questa libertà sempre più diffusa e onnicomprensiva fosse la chiave di volta di una società bene impostata e che tutto quanto odorasse di pubblico fosse da evitare o guardare con sospetto. In Italia lo scontro tra il prototipo del privato (Berlusconi) e il presidio del pubblico (la magistratura) non ha fatto che rafforzare il senso che questa sia un’alternativa secca, e che non vi siano altre possibilità.
Il problema è che il gioco democratico funziona solo nella misura in cui vi sia da parte di tutti il riconoscimento e l’accettazione di quanto con chiarezza esposto dalla Weil: la persona deve sapere di avere obblighi, prima di vedersi riconosciuti i diritti. E questo vale per tutte le persone, operino nel pubblico o nel privato, altrimenti quanto è pubblico diviene mero strumento di potere di chi vi ha posizioni di privilegio, e quanto è privato tende a eludere il dominio della legge con la scusa che questa è usata male da parte di poteri avversi alla libera creatività e vitalità dei singoli.
Tutto questo ha spinto la vita politica verso l’attenzione al brevissimo periodo: quel che appare il vantaggio del momento rispetto alla lunga prospettiva; quel che appare come vantaggio proprio rispetto a quello condiviso.
Il politico ha obblighi verso i propri elettori ma deve guardare al di là della prossima tornata elettorale per individuare interessi di lungo termine sui quali si articola il vivere civile, non solo le pulsioni del momento. E a questo serve la politica economica definita secondo ragione e non secondo emozione ovvero secondo le ubbie del momento, o secondo i gusti di un mercato plasmato dalla propaganda e inevitabilmente miope.
Ma questa capacità di progettare sul lungo periodo è sempre più mancata, e ha generato una crescente debolezza nei regimi democratici del mondo occidentale. Al punto che oggi essi si trovano sfidati da rinnovate proposte dittatoriali, che si presentano come salvifiche a fronte della degenerazione che mina le democrazie. Oggi, proprio grazie a questa condizione di debolezza minacciano di estendersi nuovi influssi anti liberali quali quelli propugnati dalla Russia di Putin (e con chiarezza esposti da Alexandr Dugin).
Per constatare come il necessario bilanciamento tra diritti e doveri sia stato scombussolato e si trovi in condizioni di forte pericolosità in tutto il mondo libero, basti considerare il modo in cui dagli anni Settanta in tutte le società occidentali si sono diffusi movimenti che pretendono che i diritti occupino una posizione sempre più rilevante mentre tralasciano in toto il tema dei doveri.
Il fatto più evidente è quello della diffusione delle droghe psicotrope: un tempo appannaggio di ristrette élite, dagli anni Settanta sono diventate consumo di massa, permettendo l’accumulo di enormi fortune da parte di gruppi organizzati di stile mafioso che poi, col succedersi delle generazioni, passano al mondo dell’imprenditoria e della finanza dove trasferiscono la medesima noncuranza per i destini comuni che si coltivano nelle cosche. Mentre il riciclaggio del denaro sporco continua a rimpinguare le casse di molte banche. Insieme con le droghe, sul piano culturale s’è diffusa l’idea che si vive nel godimento del momento e non si fanno progetti per il futuro.
Sono sorti diversi movimenti per la difesa dei diritti di categorie un tempo in vario modo oppresse, e poi sono diventati potenti lobby che di quel ch’è “libito” fanno “licito”. Così si diffonde l’abuso dell’aborto inteso come sistema anticoncettivo e non come un un’extrema ratio cui ricorrere in caso di necessità, o del cambio di sesso come fosse un’opzione disponibile nei banchi di un supermercato.
Il movimento dei Radicali pannelliani, con tutti i meriti che possano avere per quanto attiene alla difesa della Costituzione italiana, con le loro campagne dei primi anni Settanta non hanno fatto che favorire lo sviluppo di questa cultura ultraliberale che ora minaccia l’esistenza stessa delle democrazie liberali. E con azioni di carattere paragoliardico e pesudocritico quale l’elezione della Cicciolina al Parlamento, non hanno fatto che contribuire alla delegittimazione della politica, ovvero della cultura del bene comune.
Sullo sfilacciamento della cultura del bene comune di stampo postbellico è poi cresciuto il localismo, riemerso in Italia con la Lega nord alla fine degli anni ‘90, e diffuso in tutta Europa: è passato, da istanza in difesa delle tradizioni locali a rischio di estinzione, a divenire una minaccia per la stabilità interna di diversi Stati, a partire da quello spagnolo: così, invece di andare verso una devoluzione di poteri statuali a organismi di estensione europea capaci di confrontarsi con le altre grandi realtà che dominano in America e in Asia, si spingono gli Stati a difendersi da minacce disgregatrici interne e si incide negativamente nei dibattiti politici, che tendono sempre di più verso la miopia della difesa di interessi particolari invece di guardare all’apertura verso interessi più ampi di quelli del singolo luogo o del singolo Paese.
Si aggiunge a tutto questo che la tutela del rapporto tra essere umano e mondo naturale si è trasformata in un continuo allarme che descrive l’essere umano solo come causa di disequilibrio ambientale. E in questo si insinua un’ideologia che giunge a vedere la specie umana nel suo insieme come un nemico da combattere.
Sul piano economico la “libertà di scegliere” ha portato a scegliere di massimizzare i profitti sul brevissimo periodo sacrificando gli interessi di lungo termine, e per conseguenza ha favorito la finanziarizzazione dell’economia (di per sé una contraddizione nei termini, visto che la finanza dovrebbe servire ad altro da sé) e l’evasione fiscale è diventata quasi un atto eroico (il piccolo Davide privato contro il Golia statale) invece di essere vista come un’azione criminale.
Per quanto alcune di queste istanze siano più consone al mondo delle “sinistre” (le tematiche ambientali e sessuali) e altre al mondo delle “destre” (le tematiche economiche), sono tutte espressioni di un’esacerbata ricerca del diritto proprio, per quanto questo sia contrario all’interesse comune.
Il liberismo esacerbato (droghe, aborto, diritti LGBT+) appare progressista. Ch’è come dire che tutto quanto distrugge la società alla radice è progressista, e per converso quanto cerca di difendere la civiltà è oppressivo e retrogrado. Secondo una logica che estremizza il confronto delle idee e in tal modo lo toglie alla libertà di un dibattito che invece sarebbe fondamentale proprio per garantire le libertà di fondo della società occidentale.
E proprio dentro lo stesso mare di esacerbato liberismo si muovono anche gli impulsi speculativo-finanziari che destrutturano l’economia reale, e vi sguazzano persino i traffici di armi – per via della loro opacità sempre vicini a quelli di stupefacenti – e questo di solito appariva positivo agli occhi di certe “destre”.
Si potrebbe dire, ancora, che gli estremi si toccano. E che nel periodo attuale, oltre a toccarsi, gli estremi sembrano tendere a occupare tutto l’arco delle proposte politiche, relegando la moderazione in ambiti sempre più ristretti, sempre meno visibili.
In tale contesto, ben venga chi riparla di doveri e non solo di diritti, di interessi nazionali e non solo di pulsioni localistiche, di economia reale e non solo di finanza; chi evoca un Enrico Mattei, che fu il maggiore artefice dell’originalità della politica estera italiana pur in quel secondo dopoguerra polarizzato dalla guerra fredda. Ma si tratta di evocare questa cultura evidenziandone il suo essere patrimonio comune, non una bandiera di parte, e tenendo conto che la politica italiana si sviluppa nel contesto europeo, ed è a livello continentale che vanno cercate le soluzioni più opportune.
Simone Weil scriveva nel ‘43 per il generale De Gaulle, parole che ancora oggi sono di ispirazione per chi ha a cuore un’Europa che non sia succube del consumismo finanziario e drogato statunitense, e neppure dell’imperialismo militarista russo, al quale tanti estremisti sia di destra che di sinistra hanno recentemente guardato con simpatia per via del suo implicito accento anti liberista.
Il dovere prima del piacere si diceva un tempo: sembra banale. Esposto con le parole della Weil il concetto acquisisce maggiore dignità e profondità, se non maggiore verità.
I disastri della guerra in Ucraina e delle tensioni da cui questa è stata generata dovrebbero portare a riconsiderarle come un’ancora di salvezza alla quale si può guardare con simpatia da posizioni politiche anche diverse tra loro, purché ispirate da un autentico senso di interesse pubblico, e non “particulare”.