L’ex ambasciatore Sergio Romano è un lucido e disincantato commentatore degli avvenimenti internazionali e, nel suo ultimo saggio, ci fornisce un quadro storico preciso e realistico del grande Paese a cavallo tra Europa e Asia. È forse arrivato il momento per le democrazie occidentali di mettere a punto una strategia che miri a superare le ambiguità e le incomprensioni degli ultimi venti anni.
Analizzare, non demonizzare
Sergio Romano usa un tono pacato e discorsivo nel ricostruire la storia della Russia, dalla conversione al cristianesimo nel 988, alla battaglia di Kulinovo che vide la sconfitta dei mongoli nel 1380. Se con l’avvento di Ivan III finisce il medioevo russo e inizia un nuovo capitolo nella storia europea, è Ivan IV, conosciuto come il Terribile, a unificare il regno e consolidare l’impero che da quel momento in poi inizia un’espansione stupefacente. Secondo Peter Hopkirk, uno studioso dei rapporti anglo-russi citato nel saggio, nel corso di quattro secoli l’impero zarista si è ampliato “al ritmo di circa 150 chilometri quadrati al giorno, più di 50.000 all’anno”, avanzando instancabilmente attraverso i grandi spazi dell’Europa orientale e dell’Asia. Secondo Romano “lo spazio ha foggiato le loro istituzioni, condizionato la loro cultura politica, mescolato quella combinazione di aggressività e paura che è ancora oggi il dato caratteriale della loro politica estera”.
Questo corso secolare sembra aver termine nel 1991 con la caduta del comunismo, la dissoluzione dell’Unione Sovietica e l’inizio di una drammatica crisi di identità. In questa svolta epocale gli Stati Uniti non si sono resi conto che “l’interesse delle democrazie occidentali era quello di accompagnare la nuova Russia sulla strada delle sue trasformazioni” e hanno preteso di trattare la Russia come un Paese sconfitto. Secondo l’autore, la politica erratica verso Mosca è dovuta ai conflitti all’interno del Dipartimento di Stato USA sulla strategia politica da seguire e alla pesante influenza del “complesso militare industriale”. L’autore ricorda che gli Stati Uniti non hanno mai dimenticato che sono usciti dalla crisi del 1929 con la Seconda guerra mondiale e che le altre guerre combattute successivamente sono state un successo economico ma un disastro da un punto di vista militare.
Putin rappresenta una risposta nazionalista al tentativo di ridimensionare lo
status internazionale del proprio Paese e ha il merito di aver impedito la dissoluzione della Russia, anche se con metodi brutali, come quelli usati in Cecenia. Romano considera Vladimir Putin come la reincarnazione moderna di Ivan il Terribile e paragona il drastico ridimensionamento degli oligarchi, diventati potentissimi e ricchissimi sotto la presidenza di Eltsin, alla lotta spietata condotta da Ivan contro i boiardi. Il presidente russo ha certamente usato la mano dura contro gli oppositori, ha ordinato, o quantomeno consentito, che venissero uccisi giornalisti e rivali politici, ha contrastato attacchi terroristici come quello del Teatro Dubrovka di Mosca o della scuola di Breslan senza curarsi del prezzo in vite umane. Ma certamente i critici di Putin non potevano ignorare quale rischio la secessione della Cecenia rappresentasse per l’unità di uno Stato multietnico e multireligioso come la Russia.
Un approccio realistico
Nel maggio del 2002 nell’aeroporto di Pratica di Mare venne firmato un accordo di collaborazione tra la NATO e la Russia che sembrava aprire una nuova stagione nei rapporti est-ovest, dopo decenni di Guerra Fredda. Purtroppo, i buoni propositi elaborati in quell’occasione sono rimasti non solo lettera morta ma l’Alleanza Atlantica ha accolto al suo interno molti dei Paesi ex comunisti, rinfocolando una vecchia paura russa come la sindrome da accerchiamento. Con l’arrivo della NATO alle sue frontiere, Putin si è sentito giustificato a mettere pesantemente mano al bilancio militare che, rispetto al 2000, è quasi raddoppiato.
Il saggio ci ricorda che non si può ignorare come Putin abbia goduto per molti anni di un reale consenso nazionale e, soprattutto, che niente “giova alla reputazione di un leader, in patria e all’estero, quanto un successo militare”. Mentre i Paesi occidentali si baloccavano con l’idea delle rivolte arabe e appoggiavano i ribelli in Libia contro Gheddafi e contro Bashar al-Assad in Siria, Putin ha puntato sulla Siria di Assad, tradizionale alleato della Russia in epoca sovietica, ha conquistato Aleppo e ha vinto. Certo, il prezzo in vite umane è stato terribile ma, da quel momento in poi, è diventato chiaro che non era più possibile affrontare i problemi del Mediterraneo e del Medio Oriente senza tener conto della Russia.
Le parole conclusive sono improntate al pragmatismo e al buon senso sviluppato nei lunghi anni di attività diplomatica: “Credo che il miglioramento dei rapporti economici con questa Russia sarebbe utile. Alla Russia, in primo luogo, perché il Paese ha bisogno di crescere e di modernizzarsi. Ma anche ai Paesi europei che hanno lavorato con la Russia per molti anni con generale soddisfazione e che hanno bisogno di un grande mercato in un momento in cui quello degli Stati Uniti e quello della Cina danno, all’epoca di Trump e di Xi, per ragioni diverse, minori garanzie”.
di Galliano Maria Speri
Sergio Romano
Processo alla Russia
Un racconto
Longanesi, pp. 208, 18.50 euro