
di Paolo Luca Bernardini
Si è chiusa da poco la mostra novarese “Realtà impressione simbolo. Paesaggi. Da Migliara a Pellizza da Volpedo”. Rimane il ricco e dettagliato catalogo (METS, 2024), curato da Elisabetta Chiodini, come del resto la mostra stessa. Le considerazioni in merito ad essa sono molte. Intanto, giungendo da Sud, in auto, la stessa città di Novara, con l’arco alpino che la circonda interamente, senza soluzione di continuità, perfettamente visibile nelle giornate azzurre e limpide come quella che mi è toccata, è essa stessa imperdibile paesaggio, che determina l’orizzonte “italiano” nella sua specificità non politica, ma ideale e geografica; orizzonte che individua mondi “altri” aldilà dell’arco alpino, confine visibile, ed ampio, mentre più rarefatto rimane quello delle marittime, che da lì non si può ben individuare, o quello, a maggior ragione inafferrabile, dei lontani Appennini. In qualche modo visitare una mostra di paesaggi essendo noi stessi collocati in un paesaggio che ben potrebbe essere pittorico – e certamente lo fu – invita ad una doppia immersione. E a libere letture di una mostra molto lombarda, forse più che piemontese; Novara peraltro divenne sabauda solo nel primo Settecento, e fu sempre ambiguamente legata alla Lombardia confinante, all’Insubria appena lì sopra. Anche se quanto diversi, alla fine, i destini di Varese, o Como, da quelli di Novara o Vercelli.
Libere letture, si è detto. E divagazioni. Innanzi tutto, legate alla storia risorgimentale, all’unificazione. Ovvero, alla costruzione di un’identità paesaggistica italiana, in qualche modo “unica”, e destinata, anche se non sempre consapevolmente, alla creazione di un’identità nazionale (in tutte le sue dimensioni, pubbliche e interiori, collettive e individuali), più o meno poi effettivamente realizzata. Insomma sembrano, molti questi dipinti, corollario alla costruzione ideologico-geografica compiuta meglio da ogni altro dall’abate Antonio Stoppani, col suo Il Bel Paese, del 1876 (disponibile anche in elegante “millennio” Einaudi). Sembra quasi di osservare un’appropriazione della precisione fotografica, e prospettica, già ampiamente sviluppata nel Settecento (ma per scopi turistico-commerciali, alla fine) da un Canaletto, e dalla sua scuola, per scopi cameralistico-amministrativi, per fissare luoghi come attraverso una cartina geografica assolutamente realistica. Per sapere, insomma, quello di cui si è venuto in possesso, come la Lombardia della prima sezione della mostra, nel regno (francese) d’Italia, e ancor prima, nel suo nucleo primordiale, la Cisalpina. Si pensi solo al Marco Gozzi che dipinge il “Ponte di Crevola sulla strada del Sempione”, o l’ubertosa “Pianura Lombarda” di Filippo Carcano. E siamo nel primo Ottocento, nonché all’inizio di questa mostra stessa. Che poi dalla precisione del dettaglio, dalla visione quasi scientifica, derivi una profonda bellezza, ottenuta anche con il giuoco delle luci, è altra cosa. All’inizio questa pittura vuol essere fotografia.
E non stupisce poi, parlando di fotografia, che la pittura di paesaggio perda progressivamente il proprio “realismo magico” (uso impropriamente questa locuzione, che si sa definisce una ben chiara corrente novecentesca), proprio con l’avvento della fotografia, con cui non può effettivamente competere. E dunque si perda finalmente in impressionismo, divisionismo, insomma in allontanamenti dalla riproduzione realistica, più o meno fantasiosi, più o meno suggestivi. Nel 1838 viene istituita all’Accademia di Brera la cattedra di “paesaggio”, in clima sempre più anti-austriaco, ed evidentemente l’idea di un paesaggio “irredento” è presente, proprio nella bellezza, armonia, semplicità che viene evocata da questi artisti: da Segantini a Mosè Bianchi, ma anche già da Giovanni Migliara, Giuseppe Canella e Giuseppe Bisi, poi dai piemontesi e dai liguri – ampiamente qui rappresentati – tanto che il noto “triangolo industriale” del tardo Novecento si configura, in tempi pre-e post unificazione, come “triangolo pittorico”, ove alle città e alle campagne s’aggiunge, meraviglioso ponte col mondo, un porto, anzi, il porto per eccellenza, Genova.
Dieci anni dopo l’istituzione della cattedra a Brera, le Cinque Giornate. E a proposito di emergenza della fotografia – una curiosità – fu proprio nella guerra di Crimea, cinque anni dopo, che la fotografia fece il suo primo ingresso sulla scena bellica. La sua carica realistica, anche nel ritrarre orrori vari, fece scattare l’opera censoria nelle riviste italiane. Un’altra curiosità: dovrebbero anche esistere – ma dove sono? – le foto di una delle prime stragi (di Stato), italiane, che toccò proprio la capitale del Regno di Sardegna divenuto da poco d’Italia: il 21 e 22 settembre 1864 vennero uccisi dall’esercito 52 torinesi, e ne vennero feriti altri 187, nelle proteste nate dalla decisione – improvvida – di trasferire la capitale a Firenze. Ce n’era davvero bisogno? Vi furono mai dipinti (oltre a fotografie) di questa sciagura?
L’elemento romantico è, nascostamente, elemento patriottico. E non poteva essere diversamente. Tanti sono gli elementi di interesse di questa mostra, oltre questo, però. Ad esempio. Prima che colate d’asfalto deturpassero le città italiane, le maggiori erano tutte d’acqua, piccole Venezie, da Bologna, alla stessa Milano, di cui i navigli sono ricordo sfocato, minimo. “Il Naviglio a Ponte San Marco” di Segantini, proveniente da collezione privata, datato 1885, è una splendida gemma, a testimonianza di ciò. Così come la mirabile scena cittadina colta ne “La nevicata” del medesimo genio. Cosa meglio di un ponte che si chiama “San Marco” per congiungere Milano e Venezia?
Quando è la fotografia a servire l’amministrazione e il grande pubblico desideroso di cogliere ogni aspetto e angolo della nuova Italia unificata, come abbiamo accennato, il paesaggismo assume nuove-antiche sfumature malinconiche, sentimentali, e l’elemento umano, possibilmente individuale, ora giuoca una funzione assai meno complementare, quando non una centrale, nel paesaggio. Si pensi solo al sonno – o morte, o suicidio? – della fanciulla sul lago in “Per sempre” di Angelo Morbelli – pittore che a tacer d’altro racchiude Piemonte e Lombardia nella sua vita in cerchio perfetto: nata ad Alessandria e morto a Milano). Mentre il torinese Bertea, ne “Il pozzo di cascina (Delfinato)”, del 1874, dipinge quasi una Stonehenge continentale, deprivata di ogni allusione celtica, familiare. Mentre Carlo Pittara parla – polemicamente – di “Imposte anticipate” nel suo quadro agreste del 1865. Tre anni prima della famigerata “imposta sul macinato” di Quintino Sella, che evidentemente aveva avuto già qualche anticipazione. Il genovese Tammar Luxoro invece nella “Via ferrata” del 1870 ci parla della ferrovia, fondamentale tramite per il carico delle merci, sulla via da Genova a Torino, e Milano (tuttora). Cinque anni dopo il quadro sembra trasformarsi in lirica in Carducci: “Flebile, acuta, stridula fischia/la vaporiera da presso. Plumbeo/il cielo e il mattino d’autunno/come un grande fantasma n’è intorno.” E poi ancora: “Già il mostro, conscio di sua metallica/anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei/occhi sbarra; immane pe ’l buio/gitta il fischio che sfida lo spazio./Va l’empio mostro; con traino orribile/sbattendo l’ale gli amor miei portasi.” Poi i futuristi sostituiranno alla locomotiva gli aeroplani. Tornerà solo quell’epica nel fortunato motivo di Francesco Guccini, “il mostro” che “divora la pianura”.
Difficile quindi non smarrirsi nelle suggestioni che la mostra evoca, dipinto per dipinto, tracciando un “lungo Risorgimento” italiano, dall’età napoleonica alla Prima guerra mondiale, ove il paesaggio subisce ogni sorta di metamorfosi, dalla precisione architettonica, quasi scientifica, al dissolvimento impressionistico. E ogni tanto vi appaiono anche luoghi eccentrici rispetto al “triangolo pittorico”, ligure-lombardo-piemontese. Anche se poi lombardo-veneta – e infinitamente malinconica – è la Venezia, ad esempio, del veronese Giuseppe Canella, “Veduta della Laguna di Venezia presa dal Campo di Marte”, del 1838. Poi i paesaggi sono sostituiti dall’umanità. Popolarissimi a fine Ottocento i “giochi di bimbi”, antico tema rinascimentale (si pensi all’inquietante Mantegna dei bimbi che giocano con le maschere, o ai giochi di bambini, quasi infernale, di Pieter Bruegel il Vecchio), ma già greco-classico, romano e medievale. Ed ecco qui Lorenzo Delleani, nativo di Pollone, che a più riprese ritrae bimbi, del popolo, in semplici girotondi, poveri e allegri e spensierati. Anche più tardi sia la pittura, sia la poesia (si pensi a quel grande dimenticato che fu il sestrese Giovanni Descalzo, morto ancor giovane nel 1951), si è ampiamente occupata dei giochi dei bambini. Qualcosa di immensamente toccante.
Paesaggio, Paese, Panorama, Persona. Un itinerario su cui riflettere, profondamente, nella costruzione di un’identità nazionale, più o meno forzata (ma di questo non è luogo qui di discutere), ma oltremodo coerente. La pittura di paesaggio ottocentesca è stata troppo spesso relegata, ma ingiustamente, tra le “buone cose di pessimo gusto” da salotto borghese. Questa mostra la rivaluta, ponendola al centro di una riconsiderazione anche molto attuale – si pensi al peso acquisito dalle “Environmental Humanities” – e di un’attenzione rinnovata, peraltro, anche da parte del mercato (che alla fine è spesso giudice supremo, anche in quest’ambito).
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