Perché qualunque accordo con Mosca è molto rischioso: il precedente del Memorandum di Budapest

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Dopo l’elezione di Trump si sono intensificate le pressioni di coloro che chiedono una rapida intesa con il Cremlino per porre fine alla guerra. Ma le richieste di questi ambigui “pacifisti” sembrano ignorare che nel 1994 USA, Regno Unito e Russia avevano firmato un memorandum (a cui si aggiunsero successivamente Cina e Francia) in cui si impegnavano a garantire i confini e la sovranità dell’Ucraina da attacchi esterni. L’annessione della Crimea nel 2014 e la successiva invasione dell’Ucraina hanno mostrato quanto valesse la parola di Putin, ma hanno anche messo in evidenza l’inconsistenza delle garanzie fornite dagli USA e dai suoi alleati. Questa irresolutezza ha convinto il Cremlino di avere un ampio spazio di manovra in un gioco che potrebbe sfuggire al controllo.

I dati ci dicono che siamo nel bel mezzo di una nuova corsa agli armamenti e che la necessità di aumentare massicciamente gli investimenti militari è ormai accettata dalla maggior parte delle forze politiche. Ovviamente, a scapito di infrastrutture, educazione, sanità, lotta al cambiamento climatico. La guerra in Ucraina, il più grave conflitto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, non sta andando bene per l’Occidente e Putin ha scatenato una massiccia offensiva militare per conquistare quanto più territorio possibile per sedersi al tavolo degli eventuali negoziati in una posizione di forza. Per raggiungere questo obiettivo si sta servendo di una minacciosa campagna propagandistica che mira a intimidire e confondere chi si oppone al suo disegno di riportare la Russia ai confini di quella che fu l’Unione Sovietica. Un importante strumento di questa offensiva è il ventilato uso dell’arma atomica.

La propaganda sulla guerra nucleare

Dopo il fallimento della guerra lampo che avrebbe dovuto occupare Kyiv in una settimana, l’esercito russo ha condotto una campagna di logoramento, con progressi limitati ma costanti, che non hanno tenuto in nessun conto i costi umani delle operazioni militari. Secondo il quotidiano britannico Guardian del 22 ottobre 2024 i russi hanno avuto circa 115.000 mila morti e oltre mezzo milione di feriti, un numero superiore di dieci volte alle perdite subite dall’Armata rossa in Afghanistan. I droni da ricognizione ucraini trasmettono le immagini di truppe russe che avanzano verso le posizioni di Kyiv con una scarsissima protezione aerea e di artiglieria. Questa strategia, dai costi umani enormi, ha però consentito ai militari di Mosca un’avanzata costante che, in quasi tre anni di guerra, ha portato al controllo di un’ampia fascia costiera che si estende dal confine russo-ucraino fin quasi a Odessa. Il Mar di Azov è ormai un lago russo. L’accesso al Mar Nero dell’Ucraina è drasticamente ridotto, con gravi ripercussioni sulle esportazioni e sulla libertà di navigazione.

Incurante delle gravissime perdite umane, Putin punta da tempo a intimidire l’Occidente brandendo l’arma nucleare. Il 21 settembre 2022 il presidente russo ha annunciato con tono grave che, di fronte a una minaccia che mettesse in pericolo l’esistenza stessa della patria, egli è pronto a usare qualsiasi arma, inclusi ordigni nucleari tattici. Il 25 settembre 2024 questa dottrina nucleare è stata aggiornata e, certo non casualmente, è entrata in vigore per decreto presidenziale a novembre, poco dopo l’annuncio di Joe Biden di concedere a Kyiv il permesso di usare missili USA a medio raggio anche contro il territorio russo. Per far capire che non scherzava, Putin ha dichiarato che il missile ipersonico che aveva colpito la città ucraina di Dnipro il 21 novembre 2024, era una risposta al lancio di vettori a medio raggio contro il territorio russo. Il presidente russo ha aggiunto che non c’è modo di intercettare quest’arma che viaggia a Mach 10, equivalenti a 2,5/3 chilometri al secondo. Questo tipo di missile può montare testate nucleari per cui il senso della minaccia russa diventa più esplicito.

Gli Stati Uniti continuano a ritenere un “bluff propagandistico” le ripetute minacce nucleari di Mosca, tanto che il permesso per usare missili americani contro il territorio russo è arrivato dopo un incontro alla Casa Bianca tra Biden e il presidente eletto Trump, dove è stata verosimilmente concordata la decisione. Ma la posizione di Trump sull’Ucraina è radicalmente diversa da quella dell’attuale amministrazione. La sua promessa elettorale di una “pace in 24 ore” e la sua aperta ammirazione per un uomo forte come il presidente russo indicano chiaramente che dal 20 gennaio 2025, giorno del suo insediamento, Trump spingerà per un compromesso che porti a un accordo che implica una sostanziale perdita di territorio per Kyiv. Un recente sondaggio della Gallup indica che la percentuale di ucraini che sono disposti a sacrifici territoriali pur di fermare la guerra (52%) supera notevolmente quella di coloro che vogliono continuare fino alla vittoria (38%). Lo stesso presidente Zelensky, prendendo atto del nuovo clima, ha dichiarato l’impossibilità di una riconquista militare della Crimea e la necessità di una strategia diplomatica. La domanda da porre è però: come possiamo garantire che la cessione della Crimea e (realisticamente) di gran parte del Donbass fermi le mire espansionistiche del Cremlino? I precedenti non inducono all’ottimismo.

Gli impegni traditi da Mosca

La dissoluzione dell’URSS alla fine del 1991 aveva dato vita a una serie di nuovi stati che, come nel caso di Bielorussia, Kazakistan e Ucraina, avevano ereditato il vasto arsenale nucleare sovietico. James Baker, l’allora segretario di Stato USA, era convinto che soltanto la Russia dovesse succedere all’Unione Sovietica come stato nucleare perché si voleva evitare a tutti i costi di ritrovarsi in una situazione simile a quella della Jugoslavia, con stati in lotta tra di loro ma pericolosamente dotati di bombe nucleari. Già nell’era sovietica, l’Ucraina aveva proclamato la sua intenzione di imboccare il sentiero della denuclearizzazione. Ma subito dopo la propria indipendenza, nell’agosto del 1991, si era resa conto che il conferimento totale degli ordigni nucleari a Mosca avrebbe trasformato nuovamente la Russia nella potenza egemone dell’area post-sovietica. Quindi il parlamento ucraino, pur con l’obiettivo finale della denuclearizzazione, aveva sollecitato un percorso più graduale, durante il quale Kyiv avrebbe negoziato dei trattati con le potenze nucleari ma mantenendo il proprio arsenale.

La versione italiana del saggio di Fukuyama che rifletteva l’illusione di Washington di poter plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza.

Nel 1992, dopo la fine dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti erano stati colpiti da un delirio di onnipotenza, lo storico Francis Fukuyama aveva pubblicato il suo famoso saggio The End of History (La fine della storia), secondo il quale il modello delle società democratiche occidentali si sarebbe affermato pacificamente in tutto il mondo. Essendo rimasta l’unica superpotenza militare Washington sognava di poter imporre senza problemi la propria agenda. In quello stesso anno fu eletto Clinton che mantenne buoni rapporti con la Russia di Boris Yeltsin, chiudendo però entrambi gli occhi sul massiccio sistema di corruzione che prosperava e sui segnali di rinascente nazionalismo. Washington fece grandi pressioni su Kyiv affinché cedesse interamente il proprio arsenale e, alla fine, gli ucraini accettarono di consegnare tutto il loro armamento nucleare (che era il terzo al mondo) a Mosca affinché lo smantellasse.

In cambio di questa scelta, l’Ucraina richiese una serie di garanzie con valore legale che avrebbero impegnato gli Stati Uniti a intervenire in caso di minacce alla sovranità nazionale. Quando fu chiaro che Washington non avrebbe mai preso un simile impegno, Kyiv accettò un accordo più debole che forniva garanzie politiche che avrebbero assicurato il rispetto dei confini esistenti. L’intesa fu firmata a Budapest da Stati Uniti, Russia e Gran Bretagna il 5 dicembre 1994 e vide anche la successiva adesione di Francia e Cina (entrambe potenze nucleari che estesero le loro garanzie all’Ucraina ma non firmarono il memorandum). I firmatari di quello che fu chiamato Memorandum di Budapest si impegnavano a «rispettare l’integrità territoriale dell’Ucraina e l’inviolabilità dei confini esistenti». Il problema vero è che le frasi sulle garanzie della sicurezza furono volutamente formulate in modo ambiguo, in modo da tenere aperta la possibilità di diverse interpretazioni.

Quanto vale la parola di Putin?

Il Memorandum, che si richiamava esplicitamente all’Atto Finale di Helsinki del 1975, oltre alle garanzie sui confini ucraini, impegnava gli stati firmatari anche «ad astenersi da pressioni economiche che avessero lo scopo di subordinare a interessi esterni il diritto dell’Ucraina a esercitare liberamente la propria sovranità». La formulazione della garanzia dei «confini esistenti» era stata inserita su esplicita e pressante richiesta di Kyiv perché in negoziati precedenti con la Russia (come l’articolo 5 dei cosiddetti Accordi di Belavezha) Mosca aveva riconosciuto i confini ucraini ma soltanto nel contesto della Confederazione degli Stati Indipendenti (CSI, l’organismo che aveva preso brevemente il posto di quella che era stata l’URSS). Con il Memorandum di Budapest i confini internazionali dell’Ucraina vengono riconosciuti de facto anche da Mosca che, insieme agli altri firmatari, si impegna «ad astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’Ucraina». Alla luce delle brutali aggressioni russe, prima in Crimea e poi contro il territorio stesso dell’Ucraina, aver affidato la sicurezza di Kyiv a Mosca ha avuto lo stesso significato della nomina di Dracula a custode della banca del sangue.

Secondo Steven Pifer, un diplomatico statunitense che aveva partecipato ai negoziati, dal testo dell’accordo si deduce che in caso di violazione dei confini gli Stati Uniti e il Regno Unito erano tenuti a intervenire, anche se la risposta non era stata definita esplicitamente. Per il diplomatico «esiste un obbligo da parte degli Stati Uniti derivante dal Memorandum di Budapest a fornire assistenza all’Ucraina e […] questo includerebbe l’assistenza nella fornitura di materiale bellico letale». Putin sa bene che nessun presidente americano rischierebbe di scatenare la Terza guerra mondiale per garantire il territorio di un Paese così distante da Washington come l’Ucraina. È vero che sul campo l’esercito di Mosca ha dato pessima prova di sé, ma non si può certo dimenticare che il Cremlino controlla il secondo arsenale nucleare al mondo, anche se nessuno stratega militare ritiene concreta la minaccia nucleare di Putin. Secondo il generale Carlo Jean, presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica, gli Stati Uniti non temono la minaccia nucleare russa ma «tutt’al più pensano che sia possibile un’azione dimostrativa nucleare russa, per esempio, uno scoppio di bassa potenza ad altissima quota sull’Ucraina, che potrebbe provocare panico in Occidente, ma anche dure reazioni da parte cinese» (Formiche, 24 novembre 2024).

Clinton, Yeltsin e Kravchuk, presidenti di Stati Uniti, Russia e Ucraina, si stringono la mano dopo la firma della Dichiarazione Trilaterale di Mosca del 14 gennaio 1994. Durante l’incontro Clinton fece grandi pressioni su Kravchuk affinché si impegnasse a cedere il proprio arsenale nucleare a Mosca, come avvenne il 5 dicembre dello stesso anno.

Oggi il Memorandum di Budapest è volutamente ignorato e si finge che non sia mai esistito. Putin lo fa per ovvi motivi, ma anche gli Stati Uniti non vogliono enfatizzare troppo il fatto che, nonostante gli impegni presi, Washington e Londra abbiano sostanzialmente abbandonato Kyiv alla sua sorte perché non hanno nessuna intenzione di arrivare a uno scontro aperto con la Russia. Questo disimpegno non dovrebbe cambiare con la presidenza Trump, che non ha mai fatto mistero della sua intenzione di riportare quanti più militari americani a casa e ritiene che la difesa dell’Europa spetti agli europei (e su questo è difficile dargli torto) perché gli Stati Uniti hanno cose più importanti a cui dedicarsi. Il futuro che si profila per Kyiv dopo il 20 gennaio prossimo non è roseo ma tutti coloro che si sbracciano perché si raggiunga subito una pace, in cambio di territori ucraini internazionalmente riconosciuti, dovrebbero ricordare che la Conferenza di Monaco del settembre 1938 fece dire al Primo ministro britannico Neville Chamberlain di aver raggiunto la “pace nel nostro tempo”. Purtroppo, le cose non andarono così.

(La foto di copertina indica la gittata dei missili occidentali e mostra la vasta fascia di territorio ucraino occupata finora da Mosca. Realizzata dalla BBC su dati dell’Institute for the Study of War, agosto 2024)

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