Passa per Helsinki la strada della pace in Ucraina?

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di Aldo Ferrara

Nel 1975 imperversava la guerra fredda e l’Europa stentava ad uscire da una delle sue più drammatiche crisi, la crisi petrolifera degli due anni precedenti.

Questa fu la drammatica conseguenza della pessima gestione della questione palestinese ed erano ancora lontani gli accordi del 1978 di Camp David promossi dal Presidente Jimmy Carter. Nell’URSS Breznev forse stava già pensando all’assalto dell’Afghanistan. Una guerra poi cominciata nel dicembre 1979 e durata nove anni, che ha consacrato quella terra di confine eurasiatico a teatro di morte, fino ai giorni nostri. La resistenza dei mujaheddin fu epocale e imbrigliò i sovietici creando le premesse per un “Vietnam russo”. Dieci anni dopo, 1989, gli accordi di Ginevra posero le basi per quello che non fu mai un atto di pace ma di armistizio, fino alla guerra del 2001.

In pratica, malgrado tutti gli sforzi, non c’è mai stata pace vera durante la guerra fredda, basti pensare al suo esordio con la Corea, poi il Vietnam, poi l’Eurasia.

Eppure a Helsinki nella Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, poi esplicitata nell’Atto finale degli Accordi o Dichiarazione che porta il nome della capitale finlandese, 35 Stati, prevalentemente europei insieme con le massime potenze, USA e URSS, firmano un atto per la sicurezza allargata in senso planetario. Fu il più importante atto dichiarativo che mirava al superamento della guerra fredda, al contenimento degli armamenti, e alla vera contaminazione democratica nei paesi che non ancora non ne godevano. La creazione dell’OSCE, che ne scaturì, preludeva al recupero di stabilità in molti Paesi firmatari.

La dichiarazione sui “Principi che guidano le relazioni tra gli stati partecipanti”, inserita nell’Atto finale (nota anche come “il decalogo”) elencava i dieci punti seguenti (il testo è reperibile nei documenti UE https://www.osce.org/it/mc/39504):

  1. Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità

  2. Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza

  3. Inviolabilità delle frontiere

  4. Integrità territoriale degli stati

  5. Risoluzione pacifica delle controversie

  6. Non intervento negli affari interni

  7. Rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo

  8. Eguaglianza dei diritti ed autodeterminazione dei popoli

  9. Cooperazione fra gli stati

  10. Adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale

Il riconoscimento dell’inviolabilità dei confini nazionali e il rispetto dell’integrità territoriale fu visto come un notevole successo diplomatico dell’URSS, che così consolidava le sue acquisizioni territoriali nell’Europa orientale dopo la fine della seconda guerra mondiale e mirava a impedire agli Stati Uniti di intervenire negli affari interni di quei Paesi come era invece avvenuto in Corea e Vietnam. Tuttavia l’Atto finale ammetteva la possibilità di cambiamenti pacifici dei confini, a causa dell’insistenza di alcuni Paesi come Canada, Spagna, Irlanda e la non ammissibilità che i Paesi baltici restassero privi di identità territoriale all’interno del blocco sovietico.

Fu il primum movens, voluto dall’Amministrazione Carter, per lanciare un forte segnale per i diritti umani e per il riconoscimento delle minoranze. Su questo punto c’è da ribadire che i precedenti Consensus sulle Minoranze avevano stabilito i criteri distintivi: etnici, religiosi e linguistici. Da quel momento nasce invece una maggiore attenzione alle Minoranze i cui caratteri sono ancora in via di definizione, arrivando alla conclusione che non esiste Paese che non abbia un gruppo sociale minoritario ma identitario che richiede non solo attenzione giuridica ma il suo pieno riconoscimento. Anche per queste istanze venne predisposto un Gruppo di lavoro, da cui poi scaturì la Federazione internazionale di Helsinki e degli Human Rights Watch.

Dalle prime Conferenze su questo problema (Carta delle Nazioni Unite, adottata a S. Francisco il 26 giugno 1945, Convenzione UNESCO, firmata a Londra il 16 novembre 1945, Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata a New York il 10 dicembre 1948, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, adottata a Roma il 4 novembre 1950, Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966) il quadro normativo e giuridico è stato implementato da documenti risolutivi quali la Dichiarazione universale dei diritti linguistici nell’ambito della Conferenza mondiale dei diritti linguistici, approvata a Barcellona il 6 giugno 1996 e la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze, 1998.

Importate e storicamente da ricordare la presenza finlandese del Vaticano quale Stato sovrano. Lo ricorda Valerio Palombaro nel suo ultimo articolo “…Particolarmente rilevante, come attestato anche dall’inclusione del principio della libertà religiosa nell’atto finale, è stato il contributo diplomatico della Santa Sede rappresentata alla Conferenza da monsignor Achille Silvestrini, allora sotto-segretario del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa. La Conferenza di Helsinki, nelle parole del futuro cardinale, «ha rappresentato un’esperienza unica nel suo valore» in quanto «era la prima volta, dopo il Congresso di Vienna del 1815, che la Santa Sede partecipava come full member in un congresso di Stati». Secondo Silvestrini, inoltre, «la presenza della Santa Sede a Helsinki ha rappresentato un segno concreto della concezione della pace tra le nazioni come valore morale prima ancora che come questione politica, e una occasione per rivendicare la libertà religiosa come una delle libertà fondamentali di ogni persona e come valore e di correlazione nei rapporti fra i popoli»1

L’eredità di Helsinki si è tradotta poi nella immissione di quasi tutti i Paesi ex-sovietici nell’OSCE e tuttora l’organizzazione è presente quale foro di mediazione e investigazione delle lesioni dei diritti di sovranità e libertà democratiche. L’esempio è dato dagli osservatori che sono presenti durante le consultazioni elettorali a rischio di broglio.

Oggi l’OCSE dovrebbe e potrebbe avere voce in capitolo laddove due Paesi aderenti come Ucraina e Russia sono entrati in guerra. Vero è che l’Ucraina, facendo parte del blocco sovietico, nel 1975 non potè aderire ma vi aderì Madre Russia e quindi per transitività anche l’Ucraina fa parte del gruppo OSCE.

Se si leggono i 10 punti della Dichiarazione finale di Helsinki si può agevolmente notare che Madre Russia non ne ha rispettato uno solo e già per questo si è posta al bando delle Nazioni aderenti, non solo agli accordi della capitale finlandese ma addirittura ai margini della firma che lo stesso Molotov siglò per far aderire l’URSS alla NATO.

Nota

1) Palombaro Valerio. Helsinki ’75, l’eredità degli Accordi che ridisegnarono l’Europa. VaticanNews 22.04.22

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