FRONTIERE

Nobile semplicità, già prima del Concilio: la Real Congregación de Arquitectos

San Pedro Martir a Madrid. Progetto di Mighel Fisac del 1955. Foto di Zarateman - Trabajo propio, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=34348080

E non va bene l’individualismo che porta l’architetto, pensando di trovarsi di fronte al tema più semplice e libero, a credersi libero di imprimervi sentimenti personali e nostalgie infantili: la chiesetta del paese dove passava le vacanze da bambino, il sogno di un’immensa cattedrale coltivato nell’adolescenza. L’opera di Gaudí sembra il risultato di questo individualismo sentimentale e romantico, che nulla ha a che vedere con la nobiltà della liturgia”. Così scrive l’architetto Luis Moya Blanco nel volume “La liturgia en la arquitectura religiosa”, pubblicato nell’agosto del 1949 dalla Real Congregación de Arquitectos de Nuestra Señora de Belén y Huida a Egipto.

Questa è la più antica associazione di architetti spagnola tuttora in attività, forse la più antica del mondo: si costituì nel secolo XVII e fu approvata nel marzo 1688, oggi è riconosciuta sia dalla Diocesi di Madrid, dove ha la sede nella cappella della chiesa di San Sebastián, sia dalla Casa Reale, e fa parte di Pax Romana, l’associazione sorta dopo la prima guerra mondiale tra intellettuali e professionisti cattolici di diversi Paesi europei per promuovere la pace tra i popoli,

La cappella degli Architetti nella chiesa di San Sebastian a Madrid (sec. XVIII). Foto L. Servadio
La cupola della cappella. Foto L. Servadio
La sede della Real Congregación de Arquitectos de Nuestra Señora de Belén y Huida a Egipto, accanto alla cappella. Foto L. Servadio
La cripta, dove sono sepolti alcuni dei più illustri membri dell’associazione. Una sepoltura è dedicata alle vittime senza nome della rivolta del 2 maggio 1808, quando la popolazione si sollevò contro gli invasori fracìncesi. Foto L. Servadio

Il citato volume raccoglie i testi di tre conferenze tenute da tre soci della Real Congregación per fare il punto su come affrontare il problema della costruzione, o ricostruzione, delle chiese spagnole dopo le devastazioni della Guerra Civile (1936-39) e nel contesto dell’incipiente espansione urbana. Nel ’49 la situazione interna spagnola si era relativamente stabilizzata sotto il regime franchista (per quanto si fosse mantenuta neutrale durante la seconda guerra mondiale, anche la Spagna aveva risentito al proprio interno degli sconvolgimenti da questa derivanti) e la Real Congregación de Arquitectos raccoglieva molti di coloro che venivano incaricati di operare per l’architettura delle chiese: di qui il desiderio di approfondire le tematiche attinenti al rapporto tra architettura e liturgia. E di farlo alla luce del magistero della Chiesa come anche del portato del movimento liturgico.

Leggendo oggi i testi di quelle conferenze tenute nel 1949 da Francisco Iñiguez Almech, Luis Moya Blanco e Miguel Fisac Serna ci si sorprende perché, pur nel rispetto dell’allora vigente tradizione post tridentina (i testi a volte si riferiscono agli scritti di Carlo Borromeo), essi mostrano una grande sensibilità per le tematiche del movimento liturgico che hanno preconizzato e preparato il Concilio Vaticano II.

Nel testo di Moya Blanco può sconcertare la punta critica verso l’opera di Gaudí ma, al di là delle gelosie professionali sempre in agguato, essa è motivata dalle tematiche sulle quali più hanno insistito i tre relatori. E queste ruotano attorno al tema della nobile semplicità: abbandonare la tendenza a realizzare tanti altari laterali, poiché lo spazio delle chiese dev’essere focalizzato sul solo altare principale; questo dev’essere ben visibile da ogni parte della chiesa e non vi devono essere ostacoli per alcuno, e di qui discende l’avversione alla realizzazione di colonne, la cui presenza non è su piano tecnologico necessaria (e nello spazio liturgico della Sagrada Familia i pilastri sono imponenti); viene evidenziata la necessità di scegliere sempre materiali nobili e duraturi, quali la pietra e il mattone, pur senza all’occorrenza disdegnare il calcestruzzo armato in funzione strutturale (niente materiali “moderni” e effimeri, perché una chiesa “è per sempre”); si raccomanda di evitare imitazioni, privilegiando invece la semplicità delle forme; di rispettare la coerenza col sito; piuttosto che ornamentazioni sgargianti e pretenziose, che distolgono dal senso dello spazio inteso a raccogliere la comunità nel rito, si raccomanda lo studio delle proporzioni e dell’armonia generale dell’organismo architettonico; che le opere d’arte rifuggano dalla banalità e dall’eccesso “una parete nuda sarà sempre più nobile di una decorazione mediocre”…

Notevole è anche l’esortazione a rifuggire dall’uso di “retablos”, le lignee strutture artistiche che, a mo’ di gigantesche pale d’altare giungono a occupare tutta la parete di fondo nelle chiese barocche. Al riguardo viene citato il prelato brasiliano mons. Nabuco che nella rivista messicana “Arquitectura y los demás” del 1945 nota che sotto “enormi retablos alcuni dei quali arrivano a toccare il soffitto e che sono pieni all’inverosimile di statue di santi di ogni dimensione, e di innumerevoli candelieri e fioriere, quasi scompare la mensa ridotta a un semplice piedistallo”.

L’abuso dell’illuminazione elettrica è stigmatizzato, secondo le indicazioni allora in vigore della Sacra Congregazione dei Riti (questa, istituita nel 1588 da Sisto V, è stata disciolta nel 1969 attribuendo le sue funzioni relative all’architettura per la liturgia alla Congregazione per il Culto Divino) che auspicava che si privilegiasse l’illuminazione naturale.

Miguel Fisac, il più noto dei tre estensori degli interventi riportati nel volume, si è incaricato di cercare di individuare quali siano le tendenze “stilistiche” adeguate per l’epoca contemporanea, e avverte come siano da evitare le due contrapposte tendenze a concepire chiese come qualsiasi altro edificio (le chiese-garage) o a ricorrere all’imitazione di stili passati (grandi architetti storici come Herrera o Churriguera “imposero, lottando con le unghie e coi denti, nuove tendenze nell’architettura” del loro tempo, evidenzia). Nell’esaminare come procedere per definire una buona architettura della chiesa contemporanea, Fisac spiega che la pianta dev’essere studiata in modo tale che l’altare risalti come punto cardine di tutto l’organismo architettonico, a prescindere dalla forma che si scelga per esso. E fa appello che chi progetta infonda nell’edificio la propria fede: dà per scontato che il progettista deve partire dal comdividere la fede cristiana, per poter veramente impegnarsi nel disegnare una chiesa: una nuova chiesa dev’essere “anzitutto buona Architettura – scrive Fisac – e poi deve avere quel non so che di inconscio e impalpabile che può possedere solo l’architetto che sente e vive come un buon cristiano”.

Il volume si conclude così, su un tema che è stato dibattuto e continuerà a esserlo. Fatto sta che le migliori architetture contemporanee per la Chiesa sono state realizzate da progettisti che, da Le Corbuier a Gio Ponti a Mario Botta, hanno saputo far proprio il messaggio cristiano operando in dialogo e di concerto con committenti ben consci di che cosa si aspettassero.

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