Negli USA si chiedono che cosa accadrà del Partito Repubblicano, ora che Trump è tornato nella condizione di privato cittadino e dopo che tanti tra le sue file si son fatti prendere dall’esuberanza fanfarona dell’ex Presidente.
Qui in Europa dobbiamo chiederci che cosa accadrà con i vari partiti di destra nostrani, anch’essi caduti nelle spire del grande illusionista, tanto che soprattutto in Italia e Spagna (in Francia e Germania i lepenisti e gli AFDisti, forse più sciovinisti, sono stati più prudenti nel pendere dalle sue labbra) fino all’ultimo hanno dato credibilità alle asserzioni che vi sia stata frode nell’elezione di Biden. E molti continuano a crederlo.
Del credere
Qui c’è un primo aspetto da evidenziare. È tipico dell’atteggiamento ideologico credere in affermazioni che sembrano confortare la propria appartenenza: “siccome sono di destra devo credere che Trump vincerà, e che se non vince è perché ha subito una frode. Le prove ci sono e se non ci sono crediamo lo stesso che ci siano”.
Questo atteggiamento ideologico è tipico, beninteso, non dell’una piuttosto che dell’altra parte: tutti i movimenti di massa si fondano su tale struttura. Come loro punto di partenza vi sono elementi ragionevoli, per solito costituiti dalle condizioni di sfruttamento e oppressione dei più a opera dei pochi privilegiati; poi su questo si instaura la nozione di appartenere alla parte opposta a quella che appare dominante; infine su tale “coscienza di classe” si erige il castello della fede in tutto ciò che è accettato e condiviso come strumento per condurre la “lotta di classe” come inevitabile esplosione di violenza.
In questi ultimi decenni, il mondo di “sinistra” (virgolettato visto che la ragione originaria di appartenenza si perde nell’evoluzione storica) nell’Occidente si è fuso col liberismo dando luogo al mainstream ideologico contro il quale da tempo si erge la “destra”. Quella che ha trovato in Trump il proprio campione.
La sinistra riesce a riscontrare che le analisi sui mali del mondo soggiacenti al successo di Trump sono in parte corrette (trionfo del liberismo in campo economico, imperialismo militare statunitense nel mondo) ma critica le soluzioni da lui offerte. E in effetti in campo economico il liberismo è stato rafforzato da Trump e con esso le disparità sociali mentre i criteri di valutazione sono rimasti invariati: il Pil in cui l’uso dei valori medi cancella la percezione delle disparità, sia per quanto attiene al reddito, sia per quanto attiene alle fonti del reddito (altro è ricavare profitto dalla produzione di alimenti, altro è ricavarlo dalle scommesse). E sul piano strategico l’idea che Trump non abbia lanciato nuove avventure militari è contraddetto dall’accresciuta tensione con l’Iran e soprattutto con la Cina, la quale ultima ha posto le basi per una nuova corsa al riarmo.
Ma a sua volta la sinistra, intrappolata nell’illusione del mainstream alimentata dalla circuitazione massmediale, si limita ad auspicare l’intervento della magistratura per prevenire che il trumpismo cresca come movimento negli USA e nel mondo: di qui l’attesa che un impeachment postumo o procedure giudiziarie impediscano a Trump di ripresentarsi per le elezioni presidenziali del 2024. Il che è espressione di carenza di nerbo morale e di capacità politica: quando la politica delega le proprie responsabilità alla magistratura non fa che dichiarare la propria bancarotta.
Ma di fronte a questo, che fa la destra? Auspica la crescita del trumpismo ideologico come contrapposizione a tutto quanto odori di sinistra, proseguendo sui binari dell’ideologia anticomunista diffusa dagli USA a partire dal secondo dopoguerra (cfr http://www.frontiere.eu/ideologia-trump-o-della-fine-degli-stati-uniti/ ).
In questi ultimi lustri le destre hanno trovato in Putin il loro campione. Sia perché questi incarna l’immagine dell’uomo forte, che è uno di quegli ingredienti, forse non assolutamente necessari (pure una donna forte va bene), ma certamente utili nel coltivare la struttura di fede della destra. Sia perché Putin, nel perseguire l’impegno di rilanciare la Russia nel mondo dopo la debacle sovietica, s’è impegnato a contrastare il potere dominante in Occidente: il mainstream contro il quale s’è impegnata anche la destra, esclusa com’è rimasta dal potere dopo la seconda guerra mondiale.
Ma tutto questo castello di fede, in Putin o nella vittoria rubata a Trump, risulta effimero sul lungo periodo. E il classico cavallo di battaglia del nazionalismo ha fatto il suo tempo, per quanto riciclatosi come sovranismo, nel mondo che, piaccia o non piaccia, comunque è ormai inevitabilmente globale.
Una nuova internazionale
L’ultimo gesto di Trump da Presidente è stato di concedere l’indulto a vari personaggi, tra i quali Steve Bannon. Questi era sottoposto a un procedimento giudiziario per uso improprio dei fondi raccolti per costruire il muro sul Rio Grande che Trump promise nel corso della campagna elettorale del 2016, e il mainstream sperava che tale procedimento l’avrebbe tolto di mezzo. Grazie all’indulto Bannon invece continuerà la sua attività, che in realtà oggi è prevalentemente incentrata nel promuovere lo scontro con la Cina continentale: quella “comunista”, la bestia nera dell’americanismo.
Bannon è colui che ha portato il trumpismo in Europa e in particolare all’interno della Chiesa Cattolica, alimentando i fermenti della destra estrema di ambito cattolico che ha identificato in papa Francesco un nemico da combattere, cercando di impossessarsi di Benedetto XVI come suo contraltare: quest’ultimo, visto come esponente del conservatorismo cattolico, quello invece, accusato di soggiacere al mainstream di “sinistra” su tutti i fronti, a partire dalla parafernalia LGBT per finire con l’enciclica “Fratelli tutti” interpretata come un’esaltazione del socialismo (anziché come quel che è, ovvero la logica prosecuzione della dottrina sociale tradizionale della Chiesa).
Anche in questa polarizzazione alimentata all’interno della Chiesa, ovviamente il rapporto con la Cina è cruciale: se papa Francesco promuove il dialogo allo scopo di smussare gli angoli e ricercare intese nella prospettiva di una convivenza mutuamente rispettosa, gli estremisti alla Bannon promuovono lo scontro diretto.
Qui entrano in gioco da parte cinese due fattori: 1) che Xi Jinping, parallelamente all’elezione di Trump negli USA, si è profilato in Cina come il nuovo Mao, cioè l’erede dell’antica tradizione imperiale rivista in salsa “comunista” e 2) che l’attrito con Taiwan può diventare l’innesco di un nuovo conflitto militare. E su questo pare che il trumpismo da sempre punti. Non a caso subito dopo il suo insediamento nel gennaio 2017, la prima persona che Trump chiamò al telefono fu la Presidente taiwanese Tsai Ing-wen: per quanto questa sia persona non certo avventurista né desiderosa di giungere alle mani con Xi, il gesto di Trump da parte della Cina continentale non poteva che essere inteso come una provocazione. E tutta la politica successiva di Trump, a partire dall’apertura della guerra commerciale, ha seguito questo binario di scontro.
Il modo di rapportarsi alla Cina è il perno della politica estera oggi, non solo degli Stati Uniti, ma di qualsiasi Paese nel mondo. E qui l’alternativa è chiara: o scontro perseguito con qualsiasi pretesto, o tentativo di elaborare un modus vivendi che, incentrandosi sulla collaborazione commerciale e industriale, punti magari a una progressiva democratizzazione del regime. Dal trumpismo oggi non ci si può aspettare altro, che continui a perseguire la prima opzione, mentre papa Franceso rappresenta la seconda opzione, e nel modo più chiaro, efficace e ben elaborato.
La destra europea dovrà ben soppesare che fare al riguardo. Perché la suscettibilità cinese su Taiwan è forte e radicata, e se ipoteticamente si giungesse a un vero e proprio scontro militare, questo molto difficilmente resterebbe limitato al teatro orientale, ma coinvolgerebbe immediatamente da un lato il Pakistan e dall’altro Giappone, Vietnam, India, Australia e si estenderebbe presto al Mar Rosso né potrebbe lasciare indifferente la Russia. E soprattutto perché la politica di provocazione non farà che rafforzare la parte peggiore dell’atteggiamento dittatoriale di Xi. Il quale peraltro è invece inevitabilmente e necessariamente disponibile al dialogo sul piano economico, visto che lo sviluppo interno della Cina è stato bensì rapidissimo ma non è ancora maturo.
In pratica: se le destre in Europa sottoscriveranno la nuova internazionale trumpiana cadranno ancora una volta nella trappola di promuovere scontri tra Paesi.
Divergenze o convergenze economiche
La lotta antisistema ingaggiata dalle destre e dal trumpismo, molto ha a che vedere col fatto, su accennato, del confluire delle sinistre col mainstream. Questo è dominato con forza crescente, in particolare a partire dagli anni Settanta, dalla politica della speculazione finanziaria, intesa come il far soldi tramite i soldi: cioè non usare il denaro per attivare circuitazione di beni e lavoro, ma come un circuito a sé stante, eventualmente accelerato dal volano del commercio delle droghe che proprio dagli anni Settanta ha assunto dimensioni di massa.
Né le sinistre, né le destre hanno elaborato una politica atta a convogliare i flussi finanziari a vantaggio dell’economia reale e della redistribuzione di beni e servizi. Proprio il trumpismo dimostra come la ricetta classica liberista (abbassare le tasse) non fa che esacerbare le disparità: la questione non sta nell’alzare o abbassare le tasse, bensì in come usare i denari pubblici e in come manovrare gli strumenti fiscali in modo da convogliare i flussi di investimento lontano dal circuito dell’astratta speculazione e verso l’economia reale.
Su questo tema l’unica voce ragionevole in questi ultimi anni è stata quella di papa Francesco, in particolare con l’iniziativa “The Economy of Francesco” con la quale per la prima volta nella sua storia bimillenaria la Chiesa si è impegnata a mettere assieme non solo precetti morali ma una vera e propria strategia economica.
Se le destre europee, seguendo la demagogia trumpiana, continueranno a scagliarsi contro gli organismi internazionali quali ONU o UE, vedendo in essi solo la longa manus dei potentati economici invece di quel che sono secondo i loro principi fondativi, cioè organismi volti a promuovere armonia e collaborazione tra i Paesi, non faranno che operare per gettare via il bambino con l’acqua sporca.
La cosa più probabile su questo punto è che la vittoria arriderà a chi saprà seguire nel modo più efficace le indicazioni della dottrina sociale della Chiesa e applicare veramente la “economia di Francesco” non contro, ma attraverso gli organismi internazionali esistenti.
Sul piano politico il terreno oggi è aperto: l’Europa unita si è costituita grazie all’iniziativa di una serie di politici radicati nella tradizione cristiana. Tali sono stati De Gasperi, Adenauer, Schuman, Monnet. Ma l’Europa da loro promossa è ancora incompiuta. E il problema sta nel portare a compimento quel progetto iniziale. Su questo si misurerà la correttezza e l’efficacia delle azioni politiche dei prossimi anni.
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