di Stefano Sartorio
PREMESSA
Gli spettatori, tendono in ogni epoca a classificare le opere in base ad un proprio concetto di bellezza (paesaggi a cui siamo legati o che siamo abituati a vedere, somiglianza alla realtà, etc…) tuttavia il senso comune (quello più profano e lontano dall’ amore per l’arte) preme affinché a giudicare un’ opera sia sempre un’ immediata sensazione, la prima per esattezza, quella che rispetta solo i propri canoni estetici, dimenticandosi di leggere le opere nel contesto in cui sono nate e in relazione al loro periodo. Citando il filosofo Hegel potrei dire che “tutto ciò che é immediato é errato, sbagliato e fittizio”. Ma cosa si può fare se l’arte é veloce e non permette riflessioni di lunga durata, senza immagini ferme da poter contemplare?
Da questo breve pensiero nasce il tema del confronto sotto analizzato. Si snoda attraverso una ricerca nella Storia dell’ Arte sulla volontà artistica di voler raccontare una storia, una sequenza di momenti, movimenti e atti temporalmente consecutivi di un’ unica vicenda.
La ricerca è culminata su tre principali esempi di evoluzione di tal tema: Le metope del fregio esterno del Partenone, la colonna Traiana e un cortometraggio creato dalla geniale collaborazione tra Walt Disney e Salvador Dalì, “Destino”.
In queste tre opere ho riconosciuto diverse evoluzioni tecniche della rappresentazione di una sequenza-storia, le cui singole componenti perderebbero di significato, se astratte dalle altre. Esse necessitano di movimento (del soggetto o dell’oggetto) per essere lette nella loro interezza, lasciando alla mente dell’ osservatore la somma di una sequenza di fotogrammi. Il racconto è una rappresentazione, perciò è da considerarsi una volontà in potenza dell’arte.
METOPE DEL PARTENONE (Atene, V secolo A.C.)
Nel 447 Ictino e Callicrate iniziano a costruire il celeberrimo Partenone, per ordine del programma di rinnovamento dell’acropoli istituito da Pericle. Parallelamente alla costruzione architettonica, Fidia viene ingaggiato per la creazione di tutta la decorazione. Tutte le metope dei fregi (uno interno, ionico, e uno esterno, dorico) e le statue vengono attribuite alla sua bottega, nel periodo che va dal 447 al 432 A.C.
Le Storie scultoree rappresentate nel fregio esterno si compongono di metope scandite da triglifi dorici che circondano tutto il perimetro dell’ edificio. Il termine Metopa deriva dal greco (μετόπη = metópē) composto di metá ‘tra’ e opḗ ‘apertura’. Un chiaro riferimento alla funzione inizialmente svolta da questo elemento: coprire i buchi presenti nelle trabeazioni dei primitivi templi lignei. Nulla di più. Per tale umile compito i primi artisti greci le videro come semplice espediente per svariate raffigurazioni, quasi mai connesse tra loro. Solo semplici istantanee di scene della loro mitologia, ognuna di un diverso racconto.
La maestosità del Partenone (considerato il culmine della ricerca architettonica classica) risiede anche nell’evoluzione della funzione di queste componenti del fregio. Proprio come molti fotogrammi di un’unica sequenza narrativa, i marmi del Partenone compongono quattro racconti che si sviluppano orizzontalmente lungo i quattro lati del templio: Centauromachia (lato sud), Gigantomachia (lato est), Guerra di Troia (lato nord) e l’ Amazzonomachia (lato ovest).
Le meglio conservate sono quelle esposte al lato sud del Partenone, raffiguranti la lotta tra i Centauri e i Lapidi. È proprio grazie alla quasi completa raffigurazione della vicenda che possiamo riconoscere in quest’opera il primo dei capisaldi dell’approfondimento. Nessuna mattonella è a sé stante. Da sola non rappresenterebbe che un episodio qualsiasi della mitologia greca. È il susseguirsi di scene della battaglia che crea l’opera, attraverso un continuum spazio-temporale. La vicenda vede un’ evoluzione nel fregio; è interessante notare su come l’osservatore sia invogliato a proseguire il suo viaggio nel racconto. Egli vuole raggiungere la fine, scoprire cosa succede durante la battaglia. Lo stesso effetto non sarebbe mai stato reso possibile dalla rappresentazione della medesima vicenda con una sola statua o un dipinto, poiché l’artista sarebbe vincolato in un determinato spazio a rappresentare più temporalità, quindi lo spettatore ha la possibilità di una lenta e attenta contemplazione della panoramica degli avvenimenti.
L’utilizzo di diverse metope per un racconto permette al fruitore di imporre la propria fantasia. Ad egli sono presentati i momenti della vicenda in brevi intervalli di tempo consequenziali, connessi tra loro solo grazie alla facoltà immaginativa del fruitore, non dall’abilità dell’artista.
Differentemente da quello esterno, il fregio ionico del Partenone rappresenta un’unica enorme scena che corre lungo tutto il porticato interno: le feste panatenaiche. La descrizione delle cerimonie non è scandita dai triglifi, dando all’osservatore l’impressione che in un medesimo luogo avvengano differenti atti temporali (inizio cerimonia, arrivo delle vittime sacrificali, presentazione del peplo a gli dei).
Il metodo di rappresentazione del fregio dorico presente nel Partenone verrà emulato nel corso dei secoli: sfruttare elementi architettonici per scandire una sequenza narrativa. Esempio sono gli affreschi di Giotto nella basilica di San Francesco ad Assisi o le rappresentazioni della via crucis e in generale della vita del Cristo nelle chiese.
Così, nel loro insieme, tutte queste opere costituiscono un primo livello di narrazione, che si compone attraverso una lettura orizzontale, quasi come fossero tanti frame di una pellicola cinematografica.
LA COLONNA TRAIANA ( Roma, 113 D.C.)
Circa sei secoli dopo, nella Roma Imperiale, il princeps Traiano compì un enorme passo in avanti nella tipologia nella rappresentazione di narrazione scultorea. Fece erigere a suo nome una colonna alta 100 piedi (circa 30 metri) che raccontasse, senza sue esaltazioni di alcun tipo, le vittorie dei romani. Egli stesso scrisse a Plinio “È mio proposito non ottenere la reverenza della maestà per mia persona con misure severe e repressive e trasformando ogni banale mancanza in un atto di tradimento”. Con tale frase esprime la sua volontà di voler raccontare le sue campagne militari non come generale vittorioso che soggioga i nemici, ma bensì nelle vesti di un capo premuroso, che condivide con i soldati tutte le situazioni di guerra. È quindi un approccio nuovo dell’arte, che non mira come le steli assire o le pitture rupestri a raccontare solo la realtà favorevole.
Si tratta della prima colonna coclide mai innalzata; un’idea innovativa nel campo artistico che fonde le funzioni del rotolo di pergamena e dell’obelisco. E’ Quasi come un rullino srotolato e attorcigliato su un bastone in cui si presentano le scene della battaglia in Dacia, citando episodio per episodio ogni avvenimento in ordine cronologico delle battaglie. Nel Foro di Traiano, fra le due biblioteche (una romana e una greca), un doppio loggiato ne facilitava l’osservazione totale. Tuttavia una veloce lettura era possibile senza la necessità di dover girare intorno al fusto della colonna, bastava seguire le scene secondo un ordine verticale, dato che la loro sovrapposizione nelle diverse spire del racconto mantiene una logica narrativa.
Le scene non sono più compartimentate in fotogrammi, ma fuse in un unico flusso narrativo. La minuziosa descrizione degli avvenimenti in ogni momento della vicenda va così a creare un continuum dalla prima scena (costruzioni e fortificazioni romane sul Danubio) all’epilogo (il suicidio di Decebalo e la presa dell’ultima fortezza dacica), annullando di fatto la partecipazione del fruitore nella lettura dell’opera. A questi non serve usare la propria fantasia per colmare gli avvenimenti tra una scena ed una altra (come accadeva con la suddivisione in metope). Permane invece la necessità di dovere (e volere) leggere l’opera nella sua totalità; ancora una volta non è permessa la contemplazione di un singolo elemento, occorre muovere lo sguardo dal basso all’alto o camminare intorno alla rappresentazione per godere del significato di quest’arte.
La tecnica di narrazione precisa di imprese belliche in un unico flusso di ordine cronologico lungo un silmil rotolo di pergamena viene ripresentato spesso nel corso della storia. Esempio embelmatico è l‘arazzo di Bayeux, ricamato con filo di lana per una lunghezza complessiva di 68,30 metri. La sua impostazione grafica, articolata in azioni concatenate lungo un lasso temporale, consente ad alcuni di vedervi l’antenato del fumetto, in quanto ogni scena è corredata di un breve commento in lingua latina. Si tratta di un opera che, diversamente dalla colonna traiana, non costituisce più un racconto oggettivo per entrambe le parti combattenti; la narrazione predilige la figura dei Normanni e Irride gli inglesi (tuttavia in sporadiche scene anche quest’ultimi godono di alcune felici rappresentazioni). Benché favorevole a Guglielmo il Conquistatore al punto da essere considerato talvolta un’opera di propaganda, ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo come lo fu la colonna traiana per le conoscenze dell’epoca imperiale romana.
DESTINO
A metà del secolo scorso le menti di due grandi uomini e artisti si intrecciarono in incontro fugace e non immediatamente fortunato che tuttavia ha lasciato uno straordinario segno nel mondo e nel modo artistico della rappresentazione narrativa.
Parliamo del cineasta Walter Disney e il surrealista Salvador Dalì. Ad accomunarli, in due modi differenti, c’era la vocazione creativa della rappresentazione dei propri sogni. Insieme, agli inizi del 1945, vollero creare un cartone animato. Disney produceva, il compositore messicano Armando Dominguez scriveva le musiche e Dalì, insieme al disegnatore degli studios della Disney John Hench, lavorava alle immagini.
Ci troviamo al culmine della ricerca su come narrare una storia nel campo artistico. Ormai le sequenze figurative possono prendere realmente movimento grazie all’avvento del cinema del 1895. Le opere scultoree e i dipinti e i disegni sono sorpassati dall’avvento tecnologico. L’artista non deve più fare leva sulla fantasia del fruitore come nelle metope del partenone, non deve più concentrare su una determinata superficie di tela o di muro un excursus narrativo di diverse sequenze o, al contrario, non è più costretto ad impiegare metri di materiale per una narrazione come nella colonna traiana. Avviene ora una rappresentazione verticalizzata, per sovrapposizione di numerosi disegni. Attraverso la tecnica del “cadavere squisito” e del metodo paranoico-critico tipicamente surrealista, Hench e Dalì poterono sbizzarrirsi nella continua evoluzione dei loro soggetti, senza doversi curare di una precisa trama. Lo scopo dell’opera non è più di carattere sociale come le metope del partenone, né di carattere politico come la colonna traiana; siamo di fronte ad un lavoro intimo e privato degli artisti. Ormai il fruitore investe la sua fantasia solo nel contemplare ciò che ricorda delle vicende. Non essendo più arte statica, all’osservatore non rimane che un lavoro nel suo complesso, esattamente lo scopo ultimo voluto da Fidia per i suoi racconti e dal maestro delle opere di Traiano.
Sfortunatamente, a causa di problemi di natura finanziaria e dello scoppio della guerra, fu abbandonato. I disegni e i bozzetti preparativi di Destino vennero conservati da Hench che riuscì a produrre un piccolo pilot d’animazione della durata di circa 18 secondi, nella speranza di un futuro recupero di quel sogno: In un viaggio onirico, una ballerina è alla ricerca del suo amore nei surreali spazi del deserto. E così fu. Oltre cinquant’anni dopo nel 1999, il nipote di Walt Disney, Roy Edward Disneyriscoprì il progetto di Destino e decise di ripristinarlo. Un team di circa 25 animatori si diede da fare per decifrare gli storyboard criptici di Dalí ed Hench (avvalendosi anche dei diari scritti dalla moglie di Dalì, Gala). Alla fine il risultato fu un cortometraggio in cui sono mescolati elementi di animazione classica a ritocchi apportati con la computer grafica.
Non è l’innovazione tecnologica a rendere “Destino” l’ultimo caposaldo dell’approfondimento. Esso infatti non è stato pluripremiato come “Biancaneve e i sette nani”, né ha costituito un punto di riferimento per altre opere dello stesso genere. Tuttavia esso si pone, a mio avviso, come punto di incontro tra la settima arte e l’arte pittorica. I soggetti della clip sono infatti disegni di studio utilizzati da Dalì per i suoi quadri, tuttavia non rimangono solo semplici elementi di studio, essi costituiscono i frame della pellicola. Il che significa che estratti dal loro contesto assumerebbero lo stesso valore delle metope da sole: semplici rappresentazioni svuotate del loro significato.
La grande invenzione del movimento reale nell’arte grazie al cinema ha, come precedentemente scritto, permesso agli artisti di scindere la componente tempo dalla componente spazio nelle loro opere. Fino a questo momento infatti gli artisti son dovuti ricorrere ad espedienti rappresentativi per raggirare il problema di rappresentare diverse sequenze temporali in un dato spazio. Possiamo notare come Piero della Francesca nella sua “flagellazione” sfrutti la rappresentazione di un’architettura per separare temporalmente e spazialmente la scena reale (i signori che discorrono) e la scena citata dai personaggi (la flagellazione del Cristo). È assai più evoluto invece il lavoro di Raffaello nella stanza di Eliodoro la liberazione di San Pietro, in cui rappresenta lo scenario del suo carcere e, leggendo da sinistra a destra, si svolge la vicenda dell’arrivo dell’angelo e la fuga del santo dal carcere.
CONCLUSIONE
Ciò che ho tentato di approfondire in questo scritto sono le potenzialità dell’arte, capace di narrare una storia che si snoda attraverso una temporalità e una spazialità nelle sue vicende. Evidenziando come il tutto sia necessariamente legato all’espediente tecnico caratterizzante l’opera, ponendo tre diversi esempi (diversi per luogo, tempo, cultura e tecnica tipologica adottata). In ultima istanza ho voluto sottolineare per ognuno degli esempi come una diversa tipologia d’espressione del racconto tende a differenziare non solo l’opera in sé, ma anche e soprattutto il rapporto stesso tra artista e fruitore.
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