A cento anni esatti dal suo assassinio, Giacomo Matteotti rimane un esempio folgorante di coraggio, dignità e vero amor di patria. Un italiano raro che decise di non chiudersi nel suo “particulare” ma di operare in favore degli sfruttati con rigore e determinazione, pienamente cosciente del prezzo che avrebbe dovuto pagare per questa sua scelta. Un libro appena uscito riporta il testo del suo ultimo discorso alla Camera, il 30 maggio 1924, preceduto da un illuminante saggio di Francesca Rigotti che mette bene in luce il contesto storico e il valore del politico e dell’uomo.
Un italiano diverso
Per la classe sociale a cui apparteneva e per le sue qualità intellettuali il giovane avvocato veneto avrebbe potuto aspirare a una agiata vita borghese, come professionista affermato o docente universitario. Ma la sua sensibilità sociale, che non poteva fargli ignorare le misere condizioni in cui vivevano i lavoratori del Polesine che, allora, era una delle zone più povere d’Italia, lo aveva sua nascita, il Polesine era stato colpito da una devastante alluvione dell’Adige, che aveva trasformato l’intera area in un’enorme palude, aumentando ulteriormente i disagi. Matteotti era infatti nato a Fratta Polesine, in un’area che era tra le più infelici e sottosviluppate d’Italia dove «vegetava una popolazione malnutrita in condizioni sanitarie e igieniche carenti, tanto che vi regnavano le malattie tipiche delle zone paludose: tubercolosi, rachitismo, difterite, anemia, e soprattutto pellagra e malaria». La situazione era così degradata che anche due fratelli di Giacomo morirono di tubercolosi.
Matteotti aveva iniziato la sua carriera politica all’interno del Partito Socialista come amministratore comunale, sindaco, consigliere comunale in diverse località della provincia di Rovigo. Rigotti nota che «la sua attività nelle assemblee comunali e provinciali lo aveva convinto che queste avessero un ruolo importante da svolgere per il progresso e il miglioramento delle condizioni di vita delle classi più povere della popolazione». Ma ben presto, dopo essere stato eletto al Parlamento nel 1919, aveva dovuto fronteggiare la minaccia del Partito Nazionale Fascista, il primo partito borghese di massa in Italia, di cui fu tra i primi a comprendere la pericolosità e la radicale differenza con i partiti della tradizione liberale. La denuncia delle violenze degli squadristi, dei soprusi, delle intimidazioni e delle vere e proprie esecuzioni divenne il suo impegno principale.
Nel primo anno di fascismo, Matteotti si limitò a osservare, criticare e raccogliere fatti e dati, e all’inizio del 1924 pubblicò senza
commento un documentato libretto dal titolo Un anno di dominazione fascista. La raccolta viene diffusa clandestinamente, ma già dopo pochi mesi Matteotti ha in programma di pubblicarne una seconda edizione riveduta e aggiornata. Questo pamphlet è tipico della mentalità rigorosa di Matteotti. Nessuna rappresentazione astratta e generica, nessuna vuota accusa: nient’altro che una raccolta sobria e stilisticamente non pretenziosa di cifre e dati che parlano da soli. «Nell’aprile 1924, tra l’elezione della lista unitaria e il discorso del 30 maggio, Matteotti si trova a Londra. Aveva già viaggiato in Europa da ragazzo durante le vacanze scolastiche per imparare le lingue straniere e aveva continuato a farlo durante gli anni dell’università. In quel periodo viaggiò con insolita frequenza recandosi anche presso i socialisti francesi e inglesi».
Ben presto, Mussolini si rese conto che, nonostante le tensioni all’interno del Partito socialista (che si sarebbe diviso in tre tronconi che si combattevano reciprocamente), Matteotti si stava configurando come un avversario che non si sarebbe mai piegato a pressioni o intimidazioni. «Mussolini –scrive Rigotti– era un uomo crudele e vendicativo, che non tollerava le critiche, ma forse ancora di più odiava essere messo in ridicolo. Ed è proprio ciò che faceva Matteotti, ricordando a tutti le promesse mai mantenute e gli impegni mai onorati. Il discorso del 30 maggio fece infuriare Mussolini, ma probabilmente ancora di più lo fece il timore per il discorso sul programma finanziario del fascismo, che Matteotti avrebbe tenuto l’11 giugno, timore che lo spinse a eliminare l’avversario». Nel discorso al Parlamento del 24 maggio 1924, il re Vittorio Emanuele III aprì la ventisettesima legislatura affermando che il bilancio dello Stato era di nuovo in pareggio. Ma il bilancio che il Duce aveva presentato al re era un falso. Il vero bilancio mostrava un debito considerevole. E ancora una volta era stato Matteotti a farlo notare, nella riunione della Commissione Bilancio del 5 giugno 1924.
L’ultimo discorso
Il 30 maggio 1924, dando seguito ai risultati delle elezioni del 6 aprile, il neoeletto presidente della Camera Alfredo Rocco riceve dalla Giunta delle elezioni la relazione di convalida in blocco di tutti gli eletti della maggioranza, ne legge in fretta i nomi e mette immediatamente ai voti la lista. Questa mossa coglie di sorpresa l’opposizione che si trova impreparata e incapace di prendere la parola per fronteggiare l’offensiva del governo. Matteotti, però, reagisce immediatamente e, pur se non può contare su un testo preparato in precedenza, chiede la parola e improvvisa un lungo discorso (durerà quasi tre ore a causa delle continue interruzioni dei fascisti), in cui denuncia in modo analitico tutti i brogli e le irregolarità delle elezioni chiedendone l’annullamento. Matteotti aveva già denunciato che «nel dilemma tra il consenso e la forza, voi cercate di avere il consenso con la forza». Poi, coraggiosamente e guardando in faccia i suoi avversari, ripete: «Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse».
Percependo che l’uso massiccio della violenza politica da parte dei fascisti stava chiudendo tutte le opportunità per i partiti democratici, Matteotti si affretta a denunciare quello che forse, tra poco, non sarebbe stato più possibile affermare pubblicamente e cioè che «il fascismo non era altro che una dittatura a servizio degli imprenditori e delle banche, nella quale l’arbitrio aveva sopraffatto il diritto». Ci sono anche altre ragioni, oltre alla denuncia dei brogli che spingono i fascisti a organizzare l’omicidio. Come abbiamo già visto, Matteotti aveva intenzione di tenere un discorso alla Camera l’11 giugno in cui intendeva denunciare non solo la falsificazione del bilancio da parte di Mussolini (e questo avrebbe creato una frattura gravissima con il re), ma anche la corruzione legata al cosiddetto “affare Sinclair”. La Sinclair Exploration Company era una compagnia petrolifera americana che sperava di ottenere dal governo italiano il permesso di perforare pozzi esplorativi in Italia. «Si vociferava –scrive Rigotti– che Aldo Finzi, sottosegretario agli Interni e braccio destro di Mussolini, fosse coinvolto nel progetto Sinclair. Finzi era azionista del Corriere Italiano, diretto da Filippo Filippelli, cui apparteneva l’automobile usata per rapire Matteotti».
Rigotti ritiene che «le ragioni dell’omicidio di Matteotti non risiedono dunque soltanto nelle sue indagini sui brogli elettorali e nella denuncia di atti di violenza fascista, ma anche nella sua intenzione di rendere pubbliche le falsificazioni dei conti, i legami d’affari e la corruzione nel ministero dell’Interno». È molto interessante il paragone che Rigotti compie tra l’oratoria di Mussolini e quella dell’esponente socialista. Il Duce si serviva di un linguaggio tronfio e retorico, e ricorreva alla metafora organicista, alla terminologia bellico-militarista, a quella meteorologica e naturalista, al frasario cantieristico, al gergo ingegneristico e meccanicista. Al contrario, l’oratoria di Matteotti è parca di immagini ma non ne è completamente priva; è asciutta e precisa, sì, ma non è arida né ignara di pathos. Vivaci, per quanto contenuti, sono i riferimenti analogici e metaforici alla natura, agli animali. Un po’ più diffusi i riferimenti colti alla mitologia e alla storia.
Le parole con cui Matteotti conclude il suo discorso sono illuminanti e di grande attualità ancora oggi:
Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della nazione. Non continuate più oltre a tenere la nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo.
(Interruzioni a destra)
Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni. (Applausi all’estrema sinistra. Vivi rumori)
Giacomo Matteotti
Il consenso e la forza
L’ultimo discorso del 30 maggio 1924
Con un saggio di Francesca Rigotti
interlinea edizioni, 80 pp., 12 euro