Nella cosiddetta lunga pace che è seguita alla fine della Seconda guerra mondiale la realtà globale, nei fatti, è stata martoriata da centinaia di conflitti, di cui l’Occidente non si è accorto semplicemente perché erano in continenti lontani. Con una guerra su vasta scala in Europa, la più grave crisi in Medio Oriente dal 1948, la sempre più esplicita inadeguatezza degli USA, il crescente peso cinese, l’emergere di potenze regionali che scalpitano per allargare la loro influenza, anche i più inguaribili ottimisti devono prendere atto che la situazione internazionale è magmatica. Un saggio molto affilato ci restituisce il quadro accurato e senza illusioni di un contesto sempre più preoccupante.
Manlio Graziano vive a Parigi, dove insegna geopolitica e geopolitica delle religioni alla Paris School of International Affairs di Sciences Po, all’Università della Sorbona e all’American Graduate School. Può essere considerato a buon diritto una “voce fuori dal coro” per le sue posizioni spesso originali e in controtendenza nel panorama accademico internazionale. Le analisi contenute nel suo ultimo lavoro possono sembrare crude e pessimistiche ma, se valutate alla luce della storia e delle esperienze passate, fotografano senza nessun autocompiacimento il mondo di oggi. Andando dritto al punto Graziano afferma che il compito dell’analista geopolitico non è quello di proporre soluzioni ma offrire valutazioni competenti che aprono la strada a prospettive diverse che dovranno essere selezionate dalla politica ma, nonostante un cinico realista come Henry Kissinger, speri nella comparsa di «leader sufficientemente forti e saggi», Graziano prende atto che non c’è alcuna traccia di simili personaggi.
Viale del tramonto per gli USA
L’ambizione del libro è quella di dissipare, almeno un po’, la fumosità che avvolge un concetto come quello di «ordine mondiale» che, a ben guardare, non è mai esistita nella storia dell’umanità. Una delle nozioni fondamentali che ci permettono di decifrare i fenomeni storici è quella di «sviluppo ineguale» (oggi banalizzato con la formula assai approssimativa di «trappola di Tucidide»), la tendenza cioè di grandi potenze a crescere in modo diverso rispetto al proprio avversario creando le precondizioni per cui uno dei due arriva a superare l’altro e impone quindi il proprio dominio. Secondo l’autore «gli accordi imposti dopo la Guerra dei trent’anni, dopo le guerre napoleoniche e dopo la Seconda guerra mondiale non portarono veramente l’ordine, e di sicuro non lo portarono al mondo nella sua interezza; essi segnarono nondimeno l’inizio di periodi di relativa stabilità, almeno nel continente che era ormai diventato il fulcro della politica mondiale: l’Europa. Una relativa stabilità resa possibile proprio dall’esito di quei conflitti apocalittici, in cui certe potenze ne avevano annientate altre, privandole della possibilità di far valere i loro interessi per poter imporre i propri».
Il dominio della Francia e dei suoi alleati successivo ai trattati di Westfalia fu seguito dall’emergere della potenza inglese in quello che gli studiosi definiscono shift of power. «Le nuove regole, dettate a Vienna dai vincitori britannici, ratificarono l’egemonia mondiale di questi ultimi fino al successivo shift, provocato dall’emergere di nuove potenze che oggi chiamiamo “revisioniste” per la loro volontà di imporre la revisione delle regole scritte precedentemente in loro assenza: la Germania, il Giappone e, soprattutto, gli Stati Uniti». Una parte significativa del saggio è dedicata allo studio della translatio imperii tra Gran Bretagna e Stati Uniti. In questa operazione Washington trovò un alleato in Mosca con cui non aveva avuto in passato seri dissidi (né serie relazioni, a dire il vero). Così, tra il 1941 e il 1991, Washington e Mosca collaborarono nel distruggere la Germania prima, poi nel di- struggere il potere imperiale britannico (e degli altri imperi coloniali europei) e, infine, nel mantenere l’Europa divisa per mezzo secolo.
«Washington si garantì la continuità della propria egemonia, eliminando per cinquant’anni dalla competizione il suo primo e più pericoloso rivale, l’Europa, sia nella versione oceanica dei vecchi imperi coloniali sia nella versione di una possibile unione continentale eurasiatica guidata dalla Germania in combutta con la Russia, vecchio incubo dei britannici quando i britannici governavano il mondo». Graziano sostiene che gli Accordi di Jalta, sostanzialmente rispettati da entrambi i contendenti, erano basati su interessi reciproci tacitamente accettati quindi la Guerra fredda va letta in un’ottica diversa da come è stato fatto finora. Mentre si era in attesa dell’inevitabile inizio di un’era di pace e prosperità che sarebbe succeduta al crollo del muro di Berlino e alla dissoluzione dell’URSS, «si è perso di vista l’essenziale di quel che stava succedendo, e cioè che il declino relativo degli Stati Uniti era entrato ormai nella sua fase finale, quella del crescente disordine internazionale, del caos fuori controllo, che arriva fino ai giorni nostri».
Guerra fredda e guerra calda
Secondo lo studioso «tutte le potenze che, in un momento o in un altro della storia, hanno occupato “il primo posto” non hanno esitato davanti a nulla pur di conservarlo; per gli americani si aggiunge un secondo fattore di resistenza: la convinzione che il loro successo sia dipeso da un particolare favore della Provvidenza». La politica, come la natura, ha orrore del vuoto, ma la corsa a riempire i vuoti lasciati dagli americani è stata, fatalmente, una corsa verso il caos: il primo caso a questo riguardo è stato l’Afghanistan, «accompagnato nella discesa negli abissi da un Medio Oriente sempre più periferico rispetto agli interessi fondamentali di Washington e dove, in conseguenza, i conflitti si sono moltiplicati in numero, intensità e orrore. E i varchi aperti dal declino della Francia come stabilizzatore egemonico in Africa occidentale hanno acceso un’altra competizione selvaggia per prenderne il posto, complici, in loco, mafiosi travestiti da profeti, avidi capi tribali, satrapi corrotti e militari golpisti».
Graziano confuta anche le teorie affermatisi negli anni ’70 del secolo scorso secondo le quali l’attributo principale di una potenza è la forza militare. «La storia ha dimostrato che non era così: non solo i più seri rivali degli Stati Uniti si sono rivelati essere il Giappone e l’Europa parzialmente demilitarizzati, ma la Cina è diventata una grande potenza proprio in virtù del suo sviluppo economico e non del suo potenziale militare; e l’Unione Sovietica, un gigante militare, è crollata sotto il peso della sua debolezza economica». Secondo l’autore sarebbe un grave errore riferirsi alle crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina rispolverando la formula della guerra fredda. «Oggi gli Stati Uniti sono estremamente più deboli; il numero di attori in grado di pesare sulla scena internazionale si è moltiplicato; la Cina è un vero rivale e un vero competitore degli Stati Uniti, mentre l’Unione Sovietica non lo è mai stata, né avrebbe mai potuto esserlo».
L’Unione Sovietica era un competitore sul piano militare, ma per riuscirvi era stata costretta a impegnare gran parte delle sue risorse, fino a un quarto del suo PIL; la Cina, nel 2022, aveva invece consacrato alla spesa militare solo l’1,6 percento del suo PIL, cioè meno della metà degli Stati Uniti (3,5 percento), meno della Francia (1,9) e dell’Italia (1,7), e anche meno della sua stessa media annua dal 1995 al 2022 (1,8 percento), benché in crescita continua in termini assoluti per il ventottesimo anno consecutivo, fino a diventare la secondo potenza militare del mondo. La Cina rappresenta una minaccia concreta all’egemonia mondiale degli USA che stanno mettendo in pratica misure che non fanno altro che aumentare le tensioni. «Il rischio maggiore del paragone con la guerra fredda del passato è che qualcuno, in America, pensi che la presente pratica cinese possa essere trattata allo stesso modo e avere lo stesso esito. Non sarà così: non è una guerra fredda, ma rischierebbe di diventare una guerra calda». Nonostante diversi analisti prevedano che Pechino possa diventare la prossima potenza egemone, Graziano ritiene che la Cina non abbia nessuna possibilità di dar vita a un ordine nuovo perché le fanno difetto alcune condizioni indispensabili (tra cui la legittimità interna e l’affidabilità internazionale), ma soprattutto non può sperare di convincere con le buone maniere i suoi rivali e competitori a rinunciare ai propri interessi e ai propri obiettivi per permetterle di affermare i suoi.
L’autore conclude il suo saggio affermando che dalla geopolitica ci si aspetta la capacità di elaborare scenari dai quali si possano dedurre ipotesi con le conseguenze che ne derivano. Dopo aver preso atto che la situazione internazionale è dominata dalla «competizione senza regole» Graziano ritiene che non ci sia nessun tavolo di grandi negoziati in vista ma, nell’attesa dell’avvento degli improbabili «leader forti e saggi» evocati da Henry Kissinger, conclude che «il grande disordine mondiale è destinato a proseguire nei prossimi anni la sua entropica espansione».
Manlio Graziano
Disordine mondiale
Perché viviamo
di crescente caos
Mondadori
228 pagine, € 18,50