L’ora di Draghi e le lezioni di Jeffrey Sachs e dei Chicago Boys

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E siamo al secondo uomo della provvidenza chiamato a risollevare le sorti dell’Italia prostrata nel corso del XXI secolo. Il primo fu Mario Monti scelto dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2011: i risultati di quella prima gestione puramente tecnica dell’economia e della politica italiana furono sul piano sociale molto gravosi. Ma certo salvarono l’Italia da un disastro forse ancora maggiore qualora fosse caduta nelle grinfie della Troika, come è accaduto in quel periodo alla Grecia, malgrado la buona volontà messaci da Varoufakis. I tempi non erano maturi.

Ora è la volta di Mario Draghi, chiamato dal Presidente Sergio Mattarella. Sono ora maturi i tempi?

In questi anni sta, in modo più dilatato, accadendo anche da noi qualcosa di simile a quel che accadde in Russia dopo la caduta del regime sovietico.

Poiché l’essere umano ragiona secondo i modelli ideologici che abbraccia, ovvero secondo il colore delle lenti degli occhiali che indossa, e poiché è portato a estremizzare le proprie posizioni, dopo la caduta del Muro, interpretata come la fine di tutto ciò che appariva determinato dall’invadenza dello Stato, ecco che tutto quanto recasse il marchio del Privato appariva bello e buono, funzionante e utile.

La Russia ne ha conosciuti gli effetti tramite le ricette ammannite dall’economista Jeffrey Sachs portando l’ideologia allora dominante: il verbo iperliberista dei Chicago Boys di Milton Friedman. La Russia di Eltsin lo accolse come salvatore e ne fu sconquassata, per via dell’emergere dei pescecani ex commissari politici sovietici divenuti imprenditori capitalisti senza in nulla mutare la propensione predatoria. Fu un fallimento.

Sachs si è poi convertito ed è passato a prestare maggiore attenzione ai problemi sociali e a come elaborare sistemi per alleviare la povertà, divenendo direttore della Rete delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile (UN SDSN). E cerca di giustificare quanto fece in Russia sostenendo che quella società non era pronta per la politica che egli propose e che Eltsin attuò, la “shock therapy” cosiddetta, e nel 2001 ha scritto: “I viewed my work as a short term, with a time horizon of a few years at most. I was not, and would not become, the long-term advisor… Long-term choices were for the society, through politics, not through an outside economic advisor”. Come dire: ero un tecnico, nulla a che fare con la politica e con la corruzione diffusa nella società. Se la società fosse stata ben impostata, con gente tutta onesta e desiderosa di attuare gli interessi generali e non i propri personali, il tutto avrebbe funzionato (tralasciando che una società così impostata difficilmente entra in crisi). E come dire che per i tecnici, a differenza dei politici, ha senso occuparsi del breve termine anche senza pensare al lungo periodo.

È questa proprio la questione cruciale. Quel che si fa sul breve periodo ha sempre conseguenze sul lungo periodo: non si sfugge, occorre sempre una politica economica improntata al lungo termine che veda sul breve periodo solo i primi passi per arrivare a quel più vasto orizzonte: se no si cade nella mera speculazione che privilegia i pochi e condanna i molti. E non è possibile pensare vi sia differenza tra tecnica economica e politica economica o politica in senso lato: si parla sempre della vita e dei destini degli esseri umani, non di numeri astratti, come forse il mero “tecnico” dell’economia vorrebbe.

Poiché l’essere umano è un insieme inscindibile di tendenze buone e cattive, egoistiche (perlopiù dominanti) e altruistiche, alla politica spetta di trovare in ogni condizione data le soluzioni migliori per la cosa pubblica (che va vista sul lungo periodo): da questa discendono le condizioni nelle quali la “cosa privata” (che sempre opera sul breve periodo) si muove – interessante al riguardo che nel corso della storia si è molto ragionato attorno alla “repubblica” mentre intorno alla “reprivata” i ragionamenti sono molto meno sviluppati: è l’ovvia dimostrazione di come la seconda discenda dalla prima.

E l’economia non è estranea alla politica, proprio perché indica le direzioni che la politica segue: esattamente come fece Sachs con Eltsin. Quella economica non è una scienza astratta, è invece sempre espressione di un pensiero politico: è politica economica.

Pertanto un economista non può non sapere quali saranno le conseguenze delle scelte che propone: più o meno come i gerarchi nazisti — lo sancì il tribunale di Norimberga — non potevano non sapere, ovvero non sentirsi responsabili, delle azioni di sterminio che eseguivano trascinati dalla politica dominante nella Germania di quel tempo nefasto.

Ma il punto qui non è di sostenere che Jeffrey Sachs, dopo aver cambiato registro, invece di cercare di giustificare ex post le azioni che compì in Russia, dovrebbe pentirsi e dichiarare di aver cambiato idea. Bensì di avvertire che è insensato pensare all’economia come a una scienza astratta, poiché si tratta sempre di politica economica, ovvero di scelte che si compiono e che comportanto responsabilità personali, anche se sono assunte seguendo il flusso del pensiero dominante.

In Italia durante tutto il corso della cosiddetta prima Repubblica, nelle interazioni tra le diverse forze si è mantenuto un certo equilibrio tra gli interessi pubblici e quelli privati, ma tale equilibrio si è spezzato con la crisi del ’92 conseguente, sia alla caduta del Muro e alla relativa crisi ideologica, sia alla pesante speculazione sulla Lira legata in particolare al nome di George Soros. Il congiungersi della crisi ideologica e della crisi finanziaria porse il destro perché la corruzione, endemica, fosse sfruttata per rovesciare il sistema di governo che aveva sino ad allora funzionato: ed ecco che emerse Berlusconi come il vessillifero del libero mercato a fronte dello statalismo strisciante rimasto in Italia per il tramite delle Partecipazioni statali, frettolosamente quanto infruttuosamente dismesse.

Mario Draghi, da tecnico all’epoca direttore del ministero del Tesoro, ebbe parte attiva in quelle dismissioni. Ora torna come politico: già nel noto, bellissimo discorso tenuto al Meeting di Rimini nell’agosto 2020 aveva tratteggiato i principi per una ripresa quando tra l’altro, dopo aver analizzato l’evolversi delle crisi, dagli anni ’70 a quella della pandemia, sosteneva: “Ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale, si pensi a De Gasperi, che nel 1943 scriveva la sua visione della futura democrazia italiana e a tanti altri che in Italia, in Europa, nel mondo immaginavano e preparavano il dopoguerra. La loro riflessione sul futuro iniziò ben prima che la guerra finisse, e produsse nei suoi principi fondamentali l’ordinamento mondiale e europeo che abbiamo conosciuto”.

Invitava a guardare sul lungo periodo e non sul breve e a far sì che l’accresciuto debito pubblico, necessario per finanziare la sopravvivenza della società alla crisi pandemica, si tramutasse in investimenti produttivi. “Il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani… Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi”. E concludeva superando la miopia da breve periodo e affermando che “il miglior modo per ritrovare la direzione del presente è disegnare il futuro”.

Oggi l’ideologia iperliberista è tramontata (tranne che per alcuni nostalgici conservatori neonazionalisti) lasciando dietro di sé un’impressionante scia di devastazioni. A differenza di Monti, che si limitò a compiere il suo dovere di “tecnico” al servizio dell’ideologia dominante, come già aveva fatto Sachs nella sua esperienza russa, Draghi ora si trova nel campo aperto dallo sconquasso causato dal liberismo friedmanita e dalle politiche impostate da Reagan negli USA e dalla Thatcher in Europa negli anni ’80 secondo l’ispirazione dei Chicago Boys. I tempi dunque sono maturi per un cambio di paradigma e già l’intervento statale, ovvero la politica fondata sulla ricerca dell’interesse pubblico e non sulla difesa a oltranza di quello privato, si è imposto.

Ma la crisi non cambia la natura umana, che resta sempre una mescolanza di impulsi egoistici (perlopiù prevalenti) e altruistici: le istituzioni invece e la politica posso ridefinirsi privilegiando la ricerca di un equilibrio ragionevole tra interesse comune e quello dei singoli. Perché di fronte al compito di uscire dalla crisi occorre necessariamente mettere nero su bianco i principi sui quali lavorare, ed elaborare accordi e fondare istituzioni. Queste, a differenza della labilità dei singoli trascinati dall’interesse del momento, divengono vettori dei valori sui quali si fonda la società. Sta qui la differenza tra il pubblico e il privato: il primo si fonda inevitabilmente su principi condivisi, dichiarati e scolpiti nel funzionamento istituzionale. È un po’ quel tipo di differenza che si può riscontrare tra i principi posti all’inizio delle Costituzioni degli Stati al momento della loro istituzione (“… Repubblica fondata sul lavoro… diritti inviolabili… pari dignità sociale… rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana … diritto al lavoro...”) e le articolazioni in regole, emendamenti e concreti comportamenti che si susseguono nel tempo in funzione del variare degli interessi.

Draghi non è il solo che oggi accenna all’ipotesi di un nuovo grande accordo economico e monetario internazionale stile “Bretton Woods ’44”. Il 5 febbraio 2021 s’è saputo di un gruppo di economisti di diversi Paesi, tra cui Laurence Scialom, Gaël Giraud, Thomas Piketty, che propongono una cancellazione del debito della Banca centrale europea, per trasformarlo in investimento produttivo e socialmente utile. Tanto non è una novità, che nella tradizione biblica l’anno giubilare una volta ogni cinquanta anni prevedeva di azzerare tutti i debiti perché l’economia potesse riprendere e gli schiavi fossero liberati: “Santificherete il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e ognuno di voi tornerà nella sua famiglia” (Levitico 25, 10). Non è chiaro se e come veramente si attuassero tali precetti, ma certamente nel capitalismo di questi ultimi due secoli non v’è traccia alcuna di tali antiche prescrizioni.

Così oggi ci trovaiamo di fronte a una rivoluzione, alla rottura di uno dei tabù ideologici da libero mercato: il debito visto come santità inviolabile. Scrivono quegli accademici: “La cancellazione da parte della Banca Centrale Europea del debito che detiene, in cambio di investimenti pubblici, costituirebbe il primo segnale forte della riconquista, da parte dell’Europa, del proprio destino” (v. Il debito detenuto dalla Bce si può e si deve annullare, in Avvenire, 5 febbraio 2021). È una delle tante dimostrazioni di come il vento stia cambiando. Già anni addietro cominciò a incrinarsi un altro tabù fondamentale del capitalismo contemopraneo: quello del segreto bancario all’ombra del quale navigano i capitali frutto di attività illecite e distruttive quali il denaro della droga. E più recentemente (v. lo scandalo dei Panama papers del 2016) ha mostrato tutte le sue pecche il sistema di covi-rifugio del capitalismo selvaggio coi suoi mercati “offshore” (di cui Hong Kong è il capostipite): è proprio grazie a questo sistema che oggi possono prosperare i superricchi pur mentre la maggioranza affonda nella crisi.

Che farà ora Draghi? C’è da agurarsi che pur essendo un tecnico si comporti da politico, come ha indicato nel suo discorso di Rimini. A differenza di quando Sachs andò a Mosca nel 1991 o quando Monti andò a Roma nel 2011, ora c’è un clima diverso.

Per l’Italia bisognerà trovare nuove forme politiche capaci di superare il magma pantanoso in cui è stata gettata dopo la fine dell’era democristiana. Ma questo potrà avvenire solo in un contesto europeo orientato a proseguire sulla strada della riconquista della legalità per arginare le pretese fameliche dei grandi capitali privati globali.

Non dipenderà solo dalla sua buona volontà, se Draghi riuscirà a essere il maieuta di una auspicabile nuova realtà, che è insieme nazionale, europea, globale.

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