L’Impero dei fiori. Gli inglesi in Liguria, ville e giardini, poeti e sognatori

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Portovenere. Foto Federico Di Dio/Unsplash

Paolo L. Bernardini

Vi sono, in tempi malinconici, almeno per alcuni, di Brexit, o post-Brexit, infiniti motivi per leggere, godendosi le straordinarie immagini che lo punteggiano, il volume Inglesi in Liguria. Castelli, ville, giardini, storie, a cura di Alessandro Bartoli e Francesca Centurione-Scotto Boschieri (Genova, Sagep, 2023). Accompagnato, quasi per mano, dai testi di Massimo Bacigalupo, tra i maggiori anglisti italiani e, anche per motivi familiari, legato alla Rapallo di Ezra Pound (non inglese, ma senz’altro anglosassone, per infiniti aspetti, quando ancora l’America non aveva tagliato il cordone ombelicale con l’Inghilterra, e l’Europa tutta), e corredato da splendide foto, spesso con angolature inusuali, il libro narra una storia che vede il proprio culmine a partire dal secondo Ottocento; e offre una prospettiva se non inedita, quantomeno estremamente affascinante, su una vicenda secolare di amori e aspettative, di letteratura intima e pubblica, di edifici, soprattutto, ove la memoria, per dir così, si pietrifica in monumento.

La storia è secolare. A ben vedere. E narra, innanzi tutto, del primevo desiderio dei popoli del Nord di ritagliarsi un posto al sole, tra ulivi e viti: e se ora, forse grazie al cambiamento, o alla rivoluzione climatica (v’erano viti in Inghilterra nel Rinascimento…) nel Kent si produce un vino delizioso, certamente l’olivo, ghigliottinato dalla lama crudele dei paralleli, a quelle latitudini non potrà mai attecchire, se anche, alla fine, esse non sono così estreme.

La vicenda degli inglesi in Liguria si colloca in quella della loro secolare presenza nel Mediterraneo dall’epoca Tudor, innanzi tutto sui mercati, come operatori di commercio di rilievo perfino nelle repubbliche marinare, come, per Venezia, ha ben dimostrato Maria Sofia Fusaro nel suo – oramai quasi un classico — Political Economies of Empire in the Early Modern Mediterranean: The Decline of Venice and the Rise of England 1450-1700 (CUP, 2015) – e poi conquistatori. Soprattutto indirettamente, ma con consolidate presenze strategiche, da Gibilterra (la rocca mai conquistata), alla diuturna presenza in Egitto (1882-1952), a quella settecentesca di Minorca (1708-1802), senza contare gli interventi cruciali nelle vicende corse, e naturalmente genovesi ed adriatiche.

Sarebbe forse una vicenda da appurare: ma, se pensiamo al ruolo di Nelson nel contesto mediterraneo in età napoleonica, e poi in generale della Royal Navy, forse lo stesso modo, del tutto inesatto, di definire l’Italia “una penisola” ha derivazioni inglesi. Ciò non deve sorprendere. Fu la flotta britannica, la sua bandiera ereditata o concessa da quella genovese, a proteggere dai francesi la Sicilia e la Sardegna, facendo dell’Italia per pochi anni una vera “penisola”, privata delle sue isole maggiori. Per un breve periodo anche l’Elba fu inglese, nei tormentati anni napoleonici, fino al 1802, quando venne, nolens volens, interamente francesizzata. La Sicilia e la Sardegna non lo furono mai.

Se è vero poi che la cultura inglese, almeno per tutto il Settecento, giunse in Italia filtrata da quella francese, è quasi simbolico che al confine estremo, ponentino, della Liguria, vi siano gli splendidi giardini Hanbury, con relativa villa, residuo della colonizzazione “privata” della Liguria che gli inglesi fecero quando il loro Impero si trovava al proprio apice, prima di cominciare a declinare ad inizio Novecento, lentamente ma inesorabilmente. L’intrigante esordio del saggio di Bacigalupo che apre il volume funge da perfetto viatico per un percorso non tra rovine, certo, ma tra retaggi di un passato in gran parte scomparso, come, se non scomparsa, molto è mutata, al giorno d’oggi, la presenza anglosassone in Liguria (fatta, nell’era del turismo globale e rapace, troppo spesso di mordi e fuggi, di rapsodiche incursioni al posto di diuturni soggiorni: a volte anzi, assai spesso, dimore di tutta una vita):

La costa ligure è costellata di presenze anglosassoni, ricordi delle fiorenti colonie di inglesi (e americani) che soggiornavano abitualmente sulla Riviera e vi si ritiravano dopo il pensionamento. Biblioteche ricche di rarità (classici, letteratura di viaggio, libri per bambini, biografie…). Chiese anglicane. Cimiteri raccolti dove può capitare di scoprire un presidente del British Museum, un Brown della famiglia legata al Castello di Portofino, il padre di Ezra Pound, l’inventore dei limerick Edward Lear che fu anche pittore. E tombe di cani di inglesi con lapidi che ne decantano l’amorevolezza ringraziando il buon Dio per tanto dono. E ville e giardini più e meno spettacolari, come il magnifico parco Hanbury sul confine con la Francia.”

Villa Hanbury. Foto di Daderot/Commons.wikimedia

Questo libro non sarebbe stato pensabile senza gli immensi e pregevoli sforzi ricostruttivi di Bacigalupo, e val pena citare, del professore di Rapallo, Angloliguria. Da Byron a Hemingway (Genova, Il Canneto, 2018), libro di notevole successo accompagnato da un breve scritto di Michel David, erudito e letterato di Grenoble scomparso novantenne dieci anni orsono, e legato a doppio filo con Genova, città d’elezione, che lo ha ampiamente ricambiato del proprio eccellente affetto.

Naturalmente, la Liguria è concetto fluido per l’inglese ottocentesco, e il libro in qualche modo rende testimonianza di questo, includendo tra i tesori – molti assai poco noti, o conosciuti ma senza pensare che fossero originariamente proprietà e/o costruzioni di inglesi – la Fortezza della Brunella di Aulla, che i facoltosi Waterfield trasformarono, a fine Ottocento, in sontuosa dimora, e che dal 1977 ospita l’ottimo Museo di Storia Naturale della Lunigiana. D’altra parte, anche per geologia e orografia, Lucca, ma soprattutto i suoi Bagni – perla parzialmente abbandonata – sono in fondo “liguri” e anche qui gli inglesi nidificarono, eccome, con una chiesa anglicana che ospita, tra l’altro, la biblioteca civica con il fondo di Ian Gordon Greenlees, diplomatico e scrittore scozzese legato alla Toscana a doppio filo, a lungo direttore del British Institute, scomparso nel 1988 e figura chiave nei rapporti anglo-italiani per decenni. Le sue celebri parole si adattano bene ai tanti anglosassoni che misero radici in Liguria: “Da anni sono innamorato dell’Italia, del vostro bel paese, non soltanto per la grandezza del passato, ma anche e soprattutto per il popolo italiano, così civile, gentile e umano. A conoscere meglio l’Italia, ho acquistato un affetto particolare per la Toscana, la Campania e le Puglie, e nella Toscana posso confessare che ho un grande affetto per Bagni di Lucca, nella valle di Lima, così ricca di ricordi anglo-italiani…”. Tale sentimento lo provarono in tanti, tra i nobili figli d’Albione, per la Liguria. E questo libro ne è testimonianza. Ma non solo ville e giardini, alcune nell’entroterra, molte sul mare, diverse a Genova stessa, nel cuore della Superba. Anche edifici di culto. Tra le circa venti chiese anglicane in Italia, numerose sono in Liguria. Alassio, Bordighera – quest’ultima, forse, il luogo più amato – e anche Rapallo, con la sua Chiesa di Saint George, ora privata ed in vendita (credo ancora lo sia), ove furono celebrati, nel 1956, i funerali del caricaturista Max Beerbohm, sodale giovanissimo, come è ben noto, di Oscar Wilde, e matita finissima.

Libro pieno di chicche, anche per liguri e genovesi, che queste cose dovrebbero conoscere. Ad esempio, chi sa del cimitero britannico di Savona e il monumento al “Transylvania” a Bergeggi, di cui ci parla qui Alessandro Bartoli? Bartoli, tra l’altro, è autore di un libro importantissimo e preparatorio anch’esso – come quelli di Bacigalupo – per questo di cui parlo qui ed ora: The British Colonies in the Italian Riviera in ‘800 and ‘900, pubblicato dalla Fondazione De Mari di Savona nel 2008.

Non solo Byron, che se ne innamora, non solo Shelley, che vi muore, naufrago, con “Lamia” di Keats infradicito ma ancora riconoscibile in tasca, ma tanti altri, letterati, imprenditori, politici, innamorati della “terra leggiadra”. E non solo uomini: si pensi solo a Ellen Willmott, o a Clarence Bicknell e al suo mirabile museo di Bordighera.

In qualche modo, la presenza anglosassone è egemone, come era egemone il loro Impero (non solo in Liguria, ma in gran parte del mondo). La Liguria, però, attira, tra altri “foresti”, russi, polacchi, tedeschi. Tutti ricordano Nietzsche, ma il suo amico Paul Lanzky (1852-1936), autore di delicatissimi versi (“Am Mittelmeer”, 1890), è purtroppo caduto nell’oblio, insieme a tanti altri. Questo per dire che la Liguria, cinta dai monti e dal mare, priva di “terraferma”, o quasi, ha sempre attirato stranieri illustri, che magari poi si sono naturalizzati, come le piante, lasciando ogni tanto anche prole. In fondo, a metà Ottocento la Chiesa anglicana coltivava il sogno, poi presto abbandonato, di “convertire” gli italiani; gli edifici di culto sono invece poi rimasti per gli inglesi che non volevano né convertire, né conquistare più nessuno, ma pregare secondo il loro eretico rito, e solo godersi le bellezze uniche delle Riviere (e magari dell’entroterra: con nobili genovesi, i Serra, che a Comago edificano una villa eclettica con un vero e proprio “parco all’inglese”, consentendo ai privati visite di studio già nel 1863.)

Quanto rimane di questo “impero dei fiori”? Molto. Villa Hanbury è dell’Università di Genova. All’estremo ponente. All’estremo levante? Villa Bianca Gambrosier a Fiascherino, quella della passeggiata di D.H. Lawrence, di Shelley? Ecco per svelare il mistero, tra magnati russi e stabilimenti balneari, rimando alle pagine che qui ad essa dedica Massimo Bacigalupo.

La Liguria ha percorsi architettonici singolari. Se anni fa mi soffermavo sulle ex-colonie fasciste, oggetto di mappatura e tentativi di ricupero (forse impossibili, si pensi a quella immensa di Rovegno) (ma realizzabili: si pensi alla riqualificazione residenziale delle colonie Burgo e Fara rispettivamente a Moneglia e Chiavari),

Ex colonia Fara. Foto di FC-1982-flickr-commons-wikimedia-org

ora riflettere sulle, quasi coeve (ma così diverse), architetture “inglesi” (ma assai spesso acquisti, non edificazioni ex novo) porta a considerazioni diverse: si tratta di costruzioni maggiormente elitarie, generalmente di minori dimensioni, insomma, più “gestibili”. O, per usare conio anche troppo abusato, “sostenibili”. (Utile, peraltro, la catalogazione online delle colonie italiane, per “mari”, che comprende anche quelle liguri: http://www.lecolonie.com/colonie_marine_tyrrhenian_sea.html, accesso dicembre 2023, con qualche errore, la colonia Burgo di Moneglia non è una residenza per anziani ma un complesso residenziale, la colonia Fara di Chiavari è stata del tutto ristrutturata, e non è abbandonata).

Per concludere, poeticamente, la mia lettura di un libro in tante pagine squisitamente lirico, niente di meglio che i primi versi della poesia di Shelley, “Versi scritti nel golfo di Lerici”, che singolarmente evocano, da un mare chiuso e tranquillo, l’Oceano, ma quel mare sappiamo bene non è sempre così calmo, e il poeta, un mese prima di compiere trent’anni, vi trovò, tragicamente, tempestosamente, la morte:

Lei mi lasciò nell’ora silenziosa

quando la luna smette di ascendere

l’azzurro sentiero del cielo scosceso,

e come un albatro addormentato,

in equilibrio sulle sue ali di luce,

ondeggiava nella notte purpurea

prima di cercare il suo nido d’oceano

nelle dimore dell’ovest.

Lei mi lasciò, ed io rimasi solo…

(trad. di Flavio Ferraro).

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