Paolo L. Bernardini
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Verso la Dalmazia interiore, e oltre…
Spalato, fine agosto 2024.
La massa dei turisti rende difficile non solo camminare tra quel che resta del palazzo di Diocleziano, ma perfino navigare agevolmente con un semplice gommone nelle acque antistanti la gloriosa città romana. Sui mari sciamano natanti d’ogni tipo, generalmente spiacevoli alla vista, per le loro forme ridicole (copie di misteriosi galeoni…) e per i turisti imbarcati in misura eccessiva, quasi stipati; e anche all’udito, per il rombo di motori truccati: in molti casi molesti ad entrambi i sensi. L’afa, 36 gradi reali, almeno 40 percepiti, invita a lasciare la città dalmatica sotto evidente assedio, per mete più fresche, se non climaticamente, almeno per assenza di turisti.
Decido dunque di affittare una macchina nei pressi del porto, e fuggire in Bosnia, nell’entroterra, per ammirare, tra l’altro, uno dei maggiori laghi artificiali europei, il Buško Blato, spettacolare creazione umana quasi ai confini con la Dalmazia, ovvero i confini croati, nella Federazione della Bosnia-Herzegovina. Lago meta di varietà di uccelli migratori, e di pesci, più o meno segnati dalla presenza, purtroppo, di metalli pesanti. La Bosnia tradizionale luogo di pesti e malattie endemiche nel passato — terrore dell’Occidente allora che, parte della Turchia d’Europa, veniva considerata terra d’Oriente — sembra talora malsana anche oggi. Forse però è solo un’impressione. Lo raggiungo, cammino per un po’ sulle sue rive, dopo aver attraversato uno dei pochi confini ancora esistenti in questa parte d’Europa, con tanto di timbro sul passaporto, e domande di rito (su cosa va a fare in Bosnia, un italiano al volante di macchina con targa croata, senza bagagli?). Il lago è immenso, calmissimo, vagamente grigiastro, completamente spopolato: né turisti, né uccelli, né pesci, per quanto possa vedere, almeno, qualche ragazzino locale ma su sponde lontane, appollaiato su un lembo di sabbia giallastra che si incunea tra le acque; incorniciato da una diga percorribile a piedi, ma alquanto sinistra, con un camminamento che intuisco covo di vipere, o perlomeno, pieno di insidie, mai curato, pericolosamente sporgente sulle acque immote e grige; non privo, certo, di sinistro fascino.
Inizio il viaggio di ritorno a Spalato, ma è ora di pranzo e, passato l’affollato confine, mi fermo nel paese di Trilj, dove, al ristorante Lucar, che vivamente consiglio, mi gusto un abbondante piatto di patate al forno, rane fritte e prosciutto locale, naturalmente.
Ora, sotto l’afa che mi ha accompagnato sempre, troppa perfino per l’aria condizionata della mesta, nuovissima Renault che ho preso a nolo, per fortuna bianca, lievemente intorpidito dalla birra biondissima e gelata, insomma non al massimo, ho una specie di illuminazione. Nei baratri, nei meandri disordinati ma vastissimi della mia memoria di storico, Trilj è associata a qualcosa. Come la vicina Sinj, del resto, perla un tempo dell’entroterra dalmatico-veneziano, col nome di Signo. Anche Trilj aveva un nome italiano, anzi veneziano, Treglia. La memoria allora riaffiora, quasi sorgiva, improvvisamente, e viva e precisa. O meglio, si precisa pian piano. Perché Treglia fa risuonare un campanello, che evoca non qualcosa di glorioso, ma una tragedia grandissima, di cui ben poca memoria si conserva. Essere storici dà indubbiamente un grande vantaggio sulle masse dei turisti. Anche quando non si sa precisamente cosa cercare, i nomi di luoghi e personaggi evocano sempre, o quasi sempre, qualcosa. Afferro un filo e piano piano si dipana una storia…
In ausilio, in pochi secondi, la benevola tecnologia. Se l’aria condizionata è insufficiente, la connessione wifi lo è eccome, e Treglia riaffiora, per quel che vi accadde, in men che non si dica, su wikipedia, e moltissimi altri siti.
Ecco – esclamo tra me e me – ricordavo bene.
Treglia è stato luogo ove qualcosa di importante.
Che cosa?
Un massacro. Il “massacro di Treglia”. Per l’appunto.
Un massacro di italiani.
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Il disordine regna sul Regno…
Non affiora dunque niente di bello dai meandri della mia memoria, che è memoria peraltro non di eventi vissuti personalmente, ma memoria di secondo grado, di scritture, di “storiografia”. O potrebbe essere di racconti uditi da qualcuno, discendente diretto o indiretto dei protagonisti, o al corrente degli eventi e disposto a raccontarli. Ma così non è. O non mi par che sia.
E dunque immergiamoci nel passato. Quale? Nella tormentata, lunga fine del secondo conflitto mondiale.
3 settembre 1943: armistizio di Cassibile. 8 settembre: proclama di Badoglio. 1-2 ottobre: la strage di Treglia. Come in tutta Italia, dopo l’8 settembre regna anche nei domini stranieri lo sconcerto. Ma l’assenza di informazioni, la difficoltà nel reperirle, la contraddittorietà delle stesse getta lo sconcerto maggiore nelle forze armate. Soprattutto, come ben noto, tra le forze armate impegnate su fronti stranieri, su territori da poco e precariamente controllati. Con chi e contro chi si deve ora combattere? Chi è ora l’amico, l’alleato, e chi il nemico? Nei territori occupati della Jugoslavia alla sua prima spartizione – non meno terribile e sanguinaria della seconda, cui all’inizio degli anni Novanta del secolo passato abbiamo tutti assistito, impietriti e molto interessati perché tutto ciò accadeva ai nostri confini – gli italiani presidiano vaste zone della Dalmazia. Dopo l’invasione della Jugoslavia lacerata da mille conflitti il 6 aprile 1941 (e dopo la pace del 17 dello stesso mese, i croati capitoleranno subito), invasione condotta da parte di tedeschi (ancora alleati) italiani e ungheresi, l’Italia assume il controllo della maggior parte del territorio, almeno quello costiero. La spartizione della Jugoslavia stabilita il 17 aprile infatti vedeva la Dalmazia, i vecchi possedimenti veneziani, divisi tra Italia e neonato Stato indipendente di Croazia, alleato. All’interno dei territori italiani venne eretto il cosiddetto “Governatorato della Dalmazia”, da sud a nord, diviso in tre province contigue, Cattaro, Spalato, Zara, tutte un tempo possedimenti veneziani (Spalato forse quello più conteso e instabile, Cattaro fedelissima fin oltre la caduta della Repubblica marciana, Zara fiore all’occhiello per secoli della Dominante). L’Italia si trova ad agire, già prima dell’8 settembre, in zone che sono vere e proprie polveriere, con forze differenti e opposte, tra tedeschi, ungheresi, croati, partigiani titini, gruppi cetnici, pericolosi e instabili nelle loro aderenze politiche, pur essendo formalmente legati all’Asse.
Insomma, un vero disastro che ovviamente la fine del regime di Mussolini contribuì ad accentuare, dal momento che lasciati privi di ordini diecine di migliaia di soldati, e i loro ufficiali, brancolavano davvero nel buio, incerti su cosa fare, con molti che si tolsero spontaneamente la divisa, per cercare di tornare a casa; e altri che, più radicalmente, si tolsero, invece, la vita.
La domanda – peraltro legittima – che si ponevano i tedeschi, dominatori militari della zona, nel momento della smobilitazione italiana, e nel momento più che altro della suprema incertezza sul da farsi, era: “Gli italiani ora da che parte stanno?”. Navi da Bari portavano munizioni e altri beni necessari ai partigiani titini. L’esercito italiano era diviso in due settori principali, a Sebenico e Spalato rispettivamente.
I due settori ebbero sorti diverse ma in gran parte parallele. A Spalato si vide il peggio. A Sebenico almeno i tedeschi offrirono al comandante italiano Grimaldi e alle sue truppe la scelta: o continuare a combattere a fianco dei tedeschi, o prigionia e internamento. La maggior parte decise per la prigione, Grimaldi per primo. A Spalato invece il generale comandante, Emilio Becuzzi, vista la mala parata abbondonò le sue truppe allo sbando, e a fine settembre si imbarcò per la Puglia lasciando senza comando oltre 8 mila soldati della gloriosa Bergamo, di stanza in città. Un gesto vile? Forse, un giudizio del genere è troppo lapidario. Non si abbandona comunque la nave finché tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggio non siano in salvo. Regola del mare, che comandanti militari, ma anche civili, troppe volte, vilmente, o inconsapevolmente, hanno ignorato e tuttora ignorano.
La confusione, del resto, era totale. Un po’ i partigiani comunisti tormentavano gli italiani, un po’ cercavano di prenderli tra le proprie fila. I tedeschi stavano arrivando con preponderanza di mezzi e furiosi per l’8 settembre, in cerca di vendetta più che di alleanze con militari e colleghi che stimavano pochissimo, salvo rare eccezioni. Dall’Italia arrivavano ordini confusi e contradditori, quando pure arrivavano: “chi doveva servire” ora l’esercito italiano? Badoglio? Gli alleati? Mussolini a Salò? Un tragico disastro, alla cui base stava innanzi tutto la contraddittorietà e carenza di informazioni, un problema di comunicazione. Intanto a marcia forzata la divisione di volontari SS Prinz Eugen, famigerata, muove verso Spalato, la notizia giunge ai partigiani titini che abbandonano la città al proprio destino, in gran fretta. Lasciandovi anche migliaia di soldati italiani: in balia di forze molto più grandi di loro, e senza più un tricolore solo, ora sono due e fieramente contrapposti l’uno all’altro. Ideologicamente, geograficamente.
Dall’8 settembre, ma forse da luglio, come ebbe a scrivere il compianto Claudio Pavone, l’Italia era in “guerra civile”. Una guerra civile che fece, ampiamente, strazi e stragi fuori dai confini italiani. In Dalmazia, ad esempio.
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Ottobre è il più crudele dei mesi…
Una canzone che forse giustamente, per una volta, il “politicamente corretto” di oggi sanzionerebbe, una hit dello Zecchino d’Oro di mezzo secolo fa e forse più, intonava trionfale: “E’ il primo ottobre, a scuola si va…” Perché una volta le scuole, qualcuno ancora forse lo ricorda, in Italia iniziavano il primo di ottobre. Ma la parte politicamente scorretta segue il verso dopo: “e ci accompagnano mamma e papà…” E i bimbi orfani di uno o due genitori, dicevamo allora una mia amica importante ed io? E ora si direbbe, e i bimbi con due mamme, o due papà, quelli naturali e quelli “acquisiti”? (Oltre a quelli orfani che ci sono sempre? E i più sfortunati che nessuno viene a prendere…?)
In ogni caso furono proprio gli inizi di ottobre 1943 quelli invece più tragici per gli italiani, poiché gli effetti dell’8 settembre cominciarono ad essere avvertiti pesantemente.
A fine settembre giunge in città, dunque, la divisione SS Prinz Eugen. “The Assyrian came down like the wolf on the fold,/ And his cohorts were gleaming in purple and gold…” Spalato come la Sennacherib di Lord Byron. Almeno per i soldati italiani. Karl von Oberkamp guida la divisione, con crudele fermezza. Un cittadino di Monaco, fedelissimo di Hitler. Viene chiesto al generale Pelligra, più alto in grado dopo la fuga di Becuzzi, di radunare tutti gli ufficiali italiani, che erano circa 450. Nel frattempo, le SS compiono rastrellamenti in cerca di alleati dei partigiani titini, i quali, veri o presunti, vengono immediatamente passati per le armi. La città è in mano loro. Pelligra raduna gli ufficiali, ne trova circa 60. Vengono caricati sui mezzi militari tedeschi, con l’assicurazione che sarebbero stati deportati in campi di prigionia in Germania o nelle zone occupate. Ma era già stata decisa la loro eliminazione. A Sinj, la gemma della Dalmazia veneta interiore (col nome di Signo), vengono fucilati i tre generali, Pelligra stesso, Angelo Policardi, Alfonso Cigala Fulgosi. Questo nei pressi delle fornaci.
Poco dopo, il massacro maggiore.
Circa 15 chilometri a sud di Sinj, a Trilj, vengono messi dinanzi alla mitragliatrice altri 56, il giorno dopo. In tutto, 59 morti, che la storia però vuole siano 60, perché un ufficiale, Koch, si era suicidato la notte del 12 settembre per protestare contro il disarmo. 60 morti, 60 italiani, 60 soldati. 60 esseri umani. Soprattutto.
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Storia e memoria. Quel che accadde e non accadde dopo: 1. La Storia
Una strage dimenticata?
Sì, e no.
Perché i percorsi della storiografia e della memoria sono vari e complessi, si intrecciano in infiniti incroci e prendono altrettanto ampie diramazioni. Intanto della strage si venne a sapere molto dopo. Intenta in altro, l’Italia repubblicana dimentica questi e tanti altri morti. Erano ben italiani! Ma va bene, grazie ad una donna coraggiosa, come spesso accadde grazie quindi ad una iniziativa individuale, la storia emerge.
La figlia di Carlo Linetti, maggiore e comandante di battaglione ucciso a Treglia, sola, poco aiutata nelle sue ricerche dal governo iugoslavo, ovviamente, e senza nessun supporto da parte di quello italiano, riesce a venire a sapere, parlando con anziani del luogo, della strage, avvenuta presso un cava di ghiaia, individua il luogo della sepoltura, i cadaveri, ormai decomposti, sono portati alla luce, e la loro mesta “translatio” avviene negli anni Cinquanta, al Tempio Votivo di Venezia-Lido, ove un sobrio altare li ricorda tuttora. Con una luce molto fioca, quasi surreale, come surreale è in fondo tale Tempio Votivo, la cui prima pietra fu gettata nel 1925, cento anni fa. Luogo ove laicità e sacralità si incontrano in modo inquietante, ignorato dalle masse di turisti, ma anche di veneziani, che si riversano al Lido l’estate in cerca di mare.
“Memoria”, se non giustizia, sembra fatta.
Ovvero, ricuperata.
Ma a questa operazione, dovuta e giusta, di pietas, umana prima che nazionalistica, fa eco la storiografia. Sia quella di maggior divulgazione, anche se di ottima fattura, e mi riferisco soprattutto al libro, di larga diffusione, di due acute e intelligenti storiche, Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti, Una guerra a parte, Il Mulino, 2011; sia soprattutto quella scientifica, militare, con la monumentale opera in tre volumi, di varie migliaia di pagine, di Oddone Talpo, Dalmazia. Una cronaca per la storia (1943-1944) pubblicata dallo Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, tra il 1985 e il 1994.
Chi era Talpo? Oggi, a distanza di 24 anni dalla morte, probabilmente la sua figura comincia a diventare un poco opaca, come le vicende da lui narrate lo furono, finché egli non le riportò come estrema meticolosità e attenzione alle fonti in tutte le lingue, doverosamente, alla luce. L’unica biografia di lui che ho trovato, su Arcipelago Adriatico (Centro di Documentazione Multimediale della Cultura Giuliana Istriana Fiumana Dalmata), riporta:
«Oddone Talpo (Zara 1914 – Roma 2001) laurea in Giurisprudenza e in Scienze Politiche. Tenente dell’8° Reggimento Bersaglieri, nel 1941 è fatto prigioniero dagli inglesi in Africa Settentrionale. Dopo cinque anni di prigionia in India entra per concorso alla Camera dei Deputati dove finirà la sua carriera come vice-direttore dell’Ufficio Studi e Legislazione. Alla prediletta attività di giornalista presto unisce quella storiografica per far conoscere la Dalmazia e la sua storia. Iniziata nel 1977, la sua opera più importante “Dalmazia – Una cronaca per la storia”, viene pubblicata tra il 1985 ed il 1994 in tre ponderosi volumi a cura dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito con la prefazione dello storico Renzo De Felice. Primo in Italia, in un unico testo riunisce gli eventi militari, politici e diplomatici che dal 1940 al 1944-45 avevano sconvolto le terre dell’Adriatico orientale. Seguiranno l’edizione di “Per l’Italia” e, con la collaborazione di Sergio Brcic, il grande volume trilingue (italiano inglese-croato) “Vennero dal Cielo” sulla distruzione di Zara, con preziose immagini d’epoca e documenti originali di fonte americana, jugoslava e italiana.»
Il sito omette che fu pluridecorato; e che fu anche candidato alle elezioni nazionali nel MSI probabilmente in diverse tornate, personalmente sono riuscito a identificare la sua partecipazione a quelle del 18 aprile 1948 dove nella circoscrizione Roma-Viterbo-Latina-Frosinone ottenne 6649 preferenze, a fronte delle 15.501 di Giorgio Almirante che risultò unico eletto. Si sa dell’importanza dell’MSI nel contesto triestino. Il santino che aveva diffuso recita: “Chi vota Talpo – vota Zara”, ed egli si definiva “profugo dalmata”. Vi appare un giovane uomo sicuro di sé e sorridente.
Talpo in ogni caso ci ha lasciato nei suoi tre volumi una documentazione se non completa, molto esaustiva.
Gli storici, dunque, non si sono sottratti al loro compito. Neanche quelli croati, o tedeschi. La documentazione ormai è presente. Ma la storiografia non fa la memoria, non importa se giunga da “destra” o da “sinistra”. Vi erano e forse vi sono interessi non storiografici perché (non ostante il pregevolissimo lavoro degli storici) di questo non si parli. Non si parlò per decenni di tanti orrori, in fondo, accaduti negli anni della guerra, e almeno per un decennio dopo la sua fine. Ma davvero occorrere parlarne? Esiste il “bisogno” di ciò?
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Storia e memoria. Quel che accadde e non accadde dopo: 2. La Memoria
La storia – si sa – fa il suo corso.
Non ci si bagna due volte nello stesso fiume, diceva Eraclito.
Punisce i malvagi e premia i buoni?
Non è proprio così.
Anche se meritoriamente tutte le vittime di Signo e di Treglia hanno ricevuto alla memoria la medaglia d’argento al Valor Militare, e due generali, l’eroico comandante della piazza di Spalato Alfonso Cigala Fulgosi – di antica e nobile famiglia genovese, distintosi in azioni militari di altissimo valore come del resto il figlio Giuseppe, eroe della Marina Militare – e il non meno eroico ma meno noto Salvatore Pelligra, comandante dell’artiglieria del corpo d’armata, quella d’oro. Anche un altro ufficiale, Umberto Volpi, ebbe la medaglia d’oro. Fino all’ultimo avevo infuso coraggio ai compagni vicini alla morte.
I carnefici non sfuggono alla sorte che si sono arditamente preparata.
Il 4 maggio 1947 Karl von Oberkamp, comandante della Prinz Eugen, sale sul patibolo a Belgrado, estradato, processato, e condannato a morte per crimini di guerra. Aveva 53 anni. Le poche foto di lui lo mostrano, e forse non poteva essere altrimenti, come molto più anziano.
Era nato in Baviera quando ancora essa era un regno, moriva impiccato nella Jugoslavia da poco comunista, era passato dall’antico regime ad una delle espressioni peggiore di quello modernissimo, in poco più di mezzo secolo di vita, attraversando due guerre.
Ad Umberto Volpi, tra i morti di Treglia, è dedicata una piazza a Poggio Mirteto. Per qualche motivo misterioso, uno storico lo ha definito “partigiano”. Nessuno di costoro ebbe mai né tempo né modo di prendere le armi contro i tedeschi in una guerra partigiana, e tutto da stabilire quel che accadde in uno o due giorni all’arrivo della divisione SS. Forse di armi, dopo il sequestro che di esse fecero i partigiani croati, non ve ne era più, a disposizione della “Bergamo”. E anche dunque la motivazione della medaglia d’oro a Volpi dovrebbe essere riscritta, crediamo. Chi la scrisse?
Tutte le storie riportano, nel bene o nel male, al presente.
Dunque, facciamo storia del presente.
21 agosto 2024. Sono le 15. Mi aggiro come uno spettro per le vie, asciutte, aride, prive di ogni interesse, di Treglia. Il sole mi cuoce, comincio a somigliare alle rane che ho mangiato. Vi sono diversi monumenti, in una piazza centrale e in salita, deserta: spicca quello a San Michele, dell’artista croato Josip Bosnić, collocata davanti all’omonima chiesa nel 2004. Dedicata a tutti coloro che sono morti per la patria (croata). Poi un’enigmatica torre cilindrica, con nomi di artisti, credo, o forse di eroi locali. Non so. Deve essere molto recente. Poi ancora, poco distante, all’ingresso da ovest del paese, la statua dedicata al fiume Cetina, già ben noto nei tempi romani. Qui i romani vennero (videro e vinsero), e edificarono, lasciarono il loro segno. E qui i romani antichi sconfissero i delmati (con la e), la popolazione locale, edificando la celebre fortezza di Tilurium, su pre-esistenze illiriche. Ancora rimane, imponente, interessante nelle sue forme non classiche, sulla cima della lieve collina che domina la città.
Ma della nostra strage, nessun ricordo pubblico, non una targa o un monumento che riporti i nomi dei 59 massacrati.
Salgo a Sinj.
A Signo nessun segno, neanche qui, degli italiani che vi vennero fucilati, i tre generali. Cittadina molto bella, con un retaggio croato, ottomano, ungherese, veneziano, molto a lungo, con bei paesaggi sul Cetina, il silenzioso, limpido fiume che scorre lì vicino. Nulla ricorda 59 italiani trucidati.
D’altra parte, potrebbe essere altrimenti?
Le potenze dell’Asse – finché vi fu – combatterono aspramente i partigiani titini. Dal 15 maggio al 16 giugno, con migliaia di morti da ambo le parti, ebbe luogo la battaglia della Sutjeska, in Bosnia, in cui le forze dell’Asse, italiani compresi (insieme ai bulgari) cercarono di stroncare i partigiani jugoslavi, senza tuttavia riuscirci. Una strage durata un mese, continuativamente. La sconfitta, per dir così, o meglio la non-vittoria, al contrario di quanto i tedeschi soprattutto si aspettavano, fu un punto di svolta nella guerra per il controllo della Jugoslavia. L’Asse si sgretolava già prima dell’8 settembre.
Su questa fase della guerra la letteratura è vasta, anche quella sui simpatizzanti filo-titini (o ritenuti tali), non combattenti, oltre duemila, messi a morte sistematicamente, soprattutto dai tedeschi. Ma anche dagli italiani. Vi erano anche i fascisti croati.
A Sinj le loro stragi, invece, le stragi dell’Asse contro i partigiani sono discretamente ricordate. La loro guerra civile. Opera di Vuko Bombardelli, architetto croato di origini italiane, classe 1917, è il Memoriale Rudusa, non lontano dal centro, nella foresta omonima, eretto nel 1962, che ricorda i 24 partigiani catturati dagli ustascia di Ante Pavelić – erano parte della I Unità Partigiana di Spalato, tra le più antiche e note unità combattenti partigiane in Dalmazia – proprio nell’aprile 1941, poco dopo l’insediamento del governo italiano. Ebbene, è vero che questi partigiani vennero catturati dai collaborazionisti, ma furono trucidati dai soldati italiani, con un colpo di pistola alla nuca, come ricorda una lancinante fotografia. Che tra questi italiani vi fossero anche i soldati della Bergamo, che andarono incontro alla medesima fine?
Era il 26 agosto 1941, 21 partigiani morirono così per mano italiana, sdraiati in attesa del colpo fatale. Mirko Kovačević, il loro comandante, era morto, giovanissimo, per mano degli ustascia, ma in battaglia, qualche giorno prima. Diverrà eroe nazionale.
21 morti che 21 anni dopo, nel 1962, ebbero il loro monumento, finalmente, a detta di alcuni. Prima che ci si dimenticasse completamente di loro.
Si capisce forse allora perché nessuna targa, nessun monumento o memoriale, niente ricordi, né a Signo né a Treglia, i 59 morti italiani.
Forse i locali, prima di tutto, non lo vorrebbero. Forse la Storia vuole che di essi non vi sia memoria, se non nei libri.
Forse.
Forse anche, però occorre ricordare che la Croazia è entrata nell’Unione Europea il primo luglio 2013, e dal primo gennaio del 2022 è anche nella zona euro. Se i Capi di Stato, se i primi ministri, se qualche autorità tedesca, italiana, croata, apponesse una targa in memoria anche di quei nostri 59 soldati italiani, ebbene, forse l’Unione Europea, o forse, soprattutto, la coscienza europea ne gioverebbero, e non ci si fermerebbe a Trilj sono per assaporare le rane fritte col prosciutto, e soffermarsi davanti a statue e monumenti enigmaticamente deserti. Questa è un’osservazione che farebbe ogni europeista convinto (io però non appartengo a tal novero).
Nel momento in cui tanto si sbandierano, come manifesto dei programmi scolastici futuri, l’identità e la storia italiana, molta di questa storia – l’identità è concetto, peraltro, del tutto vago e ideologicamente modificabile, all’origine (spesso, non sempre) di dogmatiche centralistiche ed autoritarie che hanno conferito tratti strumentali e spesso falsi a tale identità nel momento stesso in cui la costruivano– rimane purtroppo sommersa.
O alterata.
La storia non è identitaria, è fattuale: ad esempio Cristoforo Colombo nacque nel 1451 e morì nel 1506; Galileo Galilei nacque nel 1564 e morì nel 1642. Difficilmente il primo avrebbe potuto ispirarsi al secondo. Napoli non ha 250 anni, ma circa 3000. Prima di ipotizzare i tratti dell’identità italiana (santità, poesia, navigazione? la razza ariana? la pelle candida? il “sì” che suona?), è sempre meglio conoscere la storia, a partire dagli utilissimi sussidiari delle elementari. Dove generalmente tali nozioni, almeno ai tempi miei, erano presenti, e da studiare. Invece, in ogni caso, dell’ “altra guerra degli italiani”, per citare il volume di Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti, poco si sa, ad ogni livello.
Perché?
Coloro che così tragicamente e inutilmente sono morti, indipendentemente dalla loro nazionalità, meritano un ricordo non nazionalistico, ma universale (se poi, nel bene e con le dovute cautele, stimola il senso patrio, bene, stimolerà anche la riflessione su come la “patria” intesa come governo centrale possa causare disastri immani, come lo sbando italiano, di soldati e non solo, dopo l’8 settembre: la patria, posto che esista, non è un governo o un regime, è una terra e un sentire, un sentimento di appartenenza).
Cosa sarebbe necessario? Forse, un ricordo che vada a perenne memoria delle atrocità di ogni guerra, ma anche a perenne difesa della vita, che non è nozione astratta, ma qualità e caratteristica fondamentale dei vivi – degli individui – prima di tutto. Anzi esclusivamente.
Per chi ci creda, anche il dono di Dio, il più alto che Egli possa farci, ci abbia fatto.
Questa vicenda pone molte domande, però. E se fosse più conveniente non ricordare in modo pubblico, evidente, ma lasciare che in qualche modo il ricordo sia conservato in modo settoriale, chiuso, a chi dunque interessa ricordare, perché magari di professione è storico, o militare? La monumentale opera di Talpo citata prima dimostra che il ricordo, se ricordare vuol dire “studiare e scrivere” è ben vivo. Anche se non incide nell’opinione pubblica, è monumentale senza essere un monumento. Più agilmente wikipedia e altri fonti online ci raccontano con discreta precisione la vicenda. Non è dimenticata, semplicemente non è ricordata a livello pubblico.
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Appunti per una conclusione: Il bisogno di Storia…
Certamente abbiamo bisogno di trasformare la storia in storiografia, in qualche modo la narrazione invera e salva il passato, che comunque è avvenuto. Lo fa vivere davvero, lo porta nel presente. La storiografia rende la storia davvero come la vedeva, forse con eccesso di retorica, Cicerone: «Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis» (De Oratore, II, 9, 36.). Dunque, in conclusione, suggerisco una lettura intelligente, lo scritto dello storico Antonio Trampus, Mappe del tempo. La storia e le altre scienze moderne (Milano, Unicopli, 2021).
Qui, lo storico triestino evoca più volte il nostro “bisogno” di storia, di unire il passato e il presente, di legittimare il nostro presente sulla base del bilanciamento di passato e futuro. Con la notazione già di Agostino che forse il presente non è esiste, l’attimo è “porta” impalpabile tra passato e futuro. In questo Trampus cita grandi storici capaci di riflettere anche sul significato e la natura del loro mestiere (non tutti lo sono): Marc Bloch, ad esempio:
“Per Bloch la storia è «scienza degli uomini nel tempo», che «ha incessantemente bisogno di unire lo studio dei morti a quello dei viventi», di coniugare l’analisi del passato con quella del presente. Se infatti il presente ha bisogno del passato per essere compreso, sarebbe anche «un grave errore credere che l’ordine adottato dagli storici nelle loro ricerche debba necessariamente modellarsi su quello degli avvenimenti». «Più di ogni altra epoca», ha chiosato infine Pierre Nora, «la nostra vive il suo presente attribuendogli già il possesso di un senso “storico”» (Mappe del tempo, p. 62).”
E ancora:
“Abbiamo quindi bisogno della storia, intesa come conoscenza e ordine nel passato, per necessità evoluzionistiche e per elaborare strategie di sopravvivenza, utili a orientarci nel tempo e nello spazio e ad affrontare le prove che ci sottopone il futuro. Lo facciamo ricorrendo a strumenti diversi, variamente complessi, che vanno dall’esperienza personale alle memorie collettive, dal racconto di storie edificanti all’analisi storiografica. Questa attività, tipicamente umana, serve ad attribuire significati al destino individuale, a reagire dinanzi alle sfide della nostra specie. Tutte le scienze e le esperienze che abbiamo ripercorso convergono alla fine su questo punto (Mappe del tempo, p. 100).
Casi come quello di Treglia mettono in luce tutta la complessità della trasformazione della Storia in storiografia, ma anche tutti i labirinti della memoria, i percorsi del ricordo, che sono complessi, che si intersecano con decisioni politiche e scelte individuali. Che cosa davvero vorrebbe dire porre una tarda a Treglia, e Signo, in ricordo dei 59 morti più uno dell’1-2 Ottobre 1943? Se i cittadini delle due località dovessero votare per questo, che cosa verrebbe deciso? E dove la memoria degli avvenimenti è conservata, il Tempio del Lido, i libri di Talpo, quanti frequentatori ci sono davvero?
La memoria, alla fine, del tempo passato ha pochi custodi veri. Non necessariamente gli storici di professione, o perlomeno non solo loro.