di Stefano Mavilio
PREMESSA
Nel cercare una casa per un figlio che si sposa ho visitato molte case sfitte e vuote. Case di vecchi che se ne sono andati. Ma sono rimasti, immobili testimoni, i letti matrimoniali di una volta, scuri e alti come troni; e l’immagine di papa Giovanni sul muro e le foto dei padroni di casa, giovani, nelle cornici d’argento. Mio figlio, penso, abiterà con sua moglie una di queste case; imbiancata, fresca, irriconoscibile. E metteranno anche loro, in cornice, la foto del matrimonio.
(M. Corradi, La ruota, Avvenire 18 dicembre 2018)
La mia esperienza professionale di architetto mi ha portato a riflettere, con gli anni, sugli aspetti qualitativi dell’abitare. Assai spesso ho constatato che a parte taluni – pochi – che desiderano case alla moda per questioni di status, dove la firma di un architetto “alla moda” garantisce il symbol, tutti gli altri desiderano una casa che sia simile a quella nella quale sono cresciuti: la casa dei genitori, che è diversa da quella dei nonni, che per i nostri genitori era quella dei loro genitori; che era diversa da quella dei bisnonni e ancora e ancora, rincorrendo le passate generazioni; case ciascuna diversa da quelle che le avevano precedute ma tutte uguali, come avrebbe detto Wim Wenders.
La quale considerazione apre lo spazio a due domande.
La prima: cosa fa di una casa sempre diversa una casa sempre uguale?
La seconda: se i muri sono gli stessi, cos’è che cambia? E cosa permane?
Per rispondere a queste domande ho provato a mettere insieme argomenti diversi, provenienti da diverse discipline, senza mai scivolare nel sincretismo, giacché le diverse discipline – tutte insieme – dimostrano una fonte unica e pertanto non sono conflittuali, semmai specialistiche. Il presente saggio va letto dunque come una “collana di perle di vetro”1 oppure come una “ghirlanda brillante”2; altri direbbero come un “ipertesto”, mancanti le figure.
La risposta alle domande, oltre che relativo paragrafo, sarà rinvenibile dunque, dalla somma delle singole suggestioni, che tutte insieme provano a dare una risposta a quei quesiti che da un po’ di tempo mi assillano; e che tutte insieme reclamano una visione dell’abitare assai diversa da quella che ci offrono oggidì le riviste e in senso più ampio i media: un Abitare che faccia dei suoi archetipi il ricettacolo delle infinite immagini che ad essi rimandano e che tutti insieme compongono l’immaginario collettivo delle nostre vite. Vorrei dire l’Immaginale.
Poche note alle conclusioni per il lettore frettoloso che non avesse il tempo di leggere il testo dall’inizio alla fine o -se preferite- i singoli testi, che comunque possono essere letti separatamente, giacché ciascuno dotato del suo senso compiuto.
INTRODUZIONE
Per la fantasticheria la casa non è mai muro, facciata o pinnacolo, tanto meno edificio, bensì dimora, ed è solo a causa dell’estetica architettonica che si perverte in allineamenti di muri e in torre di babele.
(Durand G., Le strutture antropologiche dell’immaginario)
Pare acclarato che la casa in quanto tale non esista.
Se dimora, è domus, luogo ove si indugia3; se magione è luogo ove si permane4; se casa -per l’appunto- non è altro che luogo coperto5.
Pare dunque che dal punto di vista della sua solidità muraria, la casa sia piuttosto edificio che dimora. Quando fu che l’estetica architettonica demolì il mito della caverna? Per paradosso: nel ‘900 crebbe l’interesse per l’interiorità psichica e diminuì parimenti quello per l’interiorità architettonica quasi che l’uno esorcizzasse l’altro. Gli interni bianchi smisero di essere rifugio, per trasformarsi in “manifesto della coscienza pulita” a dispetto della “sporcizia” dell’inconscio.
Eppure, parlando di manifesti, il ‘900 si era aperto all’insegna dell’utopia, che da sempre pesca a piene mani dal Mito, che a sua volta attinge alle fonti archetipiche.
Da dove proviene dunque questa “ansia da pulito”, fosse anche il pulito dei travertini, dei pilastri cromati e degli intonaci bianchi, di Mies e del primo Corbù? Possibilmente dalla necessità di chiudere i conti con un passato fatto di salotti borghesi -tendaggi, velluti, damascati- per dare corso all’estetica del proletariato che al massimo -e mai lo fece- poteva ambire al muralnomad 6 all’existenzminimum 7 o alla “cucina di Francoforte”8.
Come questa distanza si sia resa possibile, è presto detto: che qualunque dimora, residenza, riparo primordiale, era esente da una poetica dell’esterno che nasce invece prepotente nelle civiltà solari, siano esse quella mesopotamica, quella mediterranea quanto -soprattutto- quella greca.
La domus romana di contro (come pure certe architetture mediterranee, va pur detto: lammioni, trulli, dammusi, ecc.) per la sua introversione, con al centro l’impluvium, pare in linea di successione diretta con la dimora archetipica della quale condivide l’idea di riposo e -come vedremo- l’idea di spazio “sacralizzato”, giacché cintato.
Se la casa della contemporaneità è più edificio che spazio da vivere, mi proverò a dimostrare che la dimora è spazio “immaginale”. Questo il compito.
L’ARCHITETTURA NON ESISTE PIÙ
Il sogno è un luogo? E qual è il luogo dei sogni?
L’architettura semplicemente non esiste più.
Esistono una architettura-dei-luoghi, che taluni sapientemente interpretano, e una architettura urbana sotto tutela dei <barbari> vissuta all’insegna del “vale tutto” e del “facciamone di tutti i colori”, quando invece il colore -che pure era caro ai maestri, penso a Bruno Taut9 e a Corbù10– è negletto o lasciato alla qualità dei materiali; operazione corretta in presenza di pietra e laterizio (vi piacciano indifferentemente Piacentini, Saarinen o Luis Kahn, non fa differenza); assai discutibile per i prodotti industriali.
Non avendo l’autorevolezza per parlare delle città, dominio assoluto delle lobbies, proverò a parlare invece dei luoghi: dei luoghi primordiali e di quelli immateriali, che pure esistono11; come esistono le immagini per le quali è difficile trovare un habitat che non sia immateriale. Qual è il luogo dei sogni?
LE DIMORE NON SONO CASE
Mi bastano dieci minuti per giungere a casa, la nostra la chiave l’hai messa senz’altro li’… li’ sulla finestra
(Mogol-Battisti, 1970)
Stasera me sparo la tris: divano, telecomando e copertina
(Dice compiaciuta Francesca, rinnovando, senza saperlo, il mito di Saturno).
Affrontare la questione <casa> dal punto di vista psicologico, offre una serie di spunti nuovi, e chiarisce una serie di equivoci recenti.
Se una casa è rifugio, deve proteggermi dal caldo d’estate, dal freddo dal vento e dalla neve d’inverno.
Deve certamente coprire, evacuare, schermare, isolare; riscaldare e raffrescare, come a dire che la cosiddetta bio-architettura, l’architettura sostenibile e l’attenzione all’ambiente, non sono né nuove né ineludibili questioni, giacché da sempre affrontate.
Vedremo più avanti come le dimore prima ancora che luoghi fisici, siano luoghi immateriali, luoghi dell’assenza di indugio, e quindi luoghi di certezza.
Parafrasando Battisti: sono finalmente giunto a casa: la nostra!
GLI ARCHETIPI FONDANTI
Le parole sono luoghi
Lo spazio comincia così, solo con delle parole, segni tracciati sulla pagina bianca
(Perec G., Specie di spazi)
L’abitare è la modalità secondo la quale l’uomo è al mondo. L’abitare è archetipo che precede il costruire; è necessità di dimorare.
“Non abitiamo in forza del nostro costruire ma costruiamo in forza del nostro abitare.”12
La domus -in questo saggio più semplicemente “dimora”- è il luogo ove si esplicano le qualità archetipiche dell’abitare: lo stare nelle due posture; il venire, l’andare: la porta.
L’abitare induce la possibilità di collocare la “quadratura delle cose” e in questo senso è un costruire. L’abitare produce i luoghi, nel senso che li rende manifesti. I luoghi producono lo spazio. Lo spazio dà accesso al costruire.
Costruire pertanto non è disciplina architettonica: è agire nell’ordine dell’assegnare un luogo agli archetipi, alle “cose”: consentire ai luoghi di corrispondere agli archetipi.13
L’uomo si situa nel mondo come se fosse venuto verso di esso partendo da una sua proprietà (l’abitare, direbbe Heidegger), da una casa sua dalla quale può, in ogni istante, ritirarsi. (…) ma non è brutalmente gettato e abbandonato nel mondo. Contemporaneamente fuori e dentro, si pone all’esterno partendo da un’intimità. (…) Il soggetto che contempla un mondo, presuppone dunque il fatto della dimora, il ritiro a partire dagli elementi, il raccoglimento nell’intimità della casa. (…) Poiché l’io esiste raccogliendosi, esso si rifugia empiricamente nella casa. L’edificio assume significato di dimora, solo a partire da questo raccoglimento. Il raccoglimento [dunque] si riferisce ad una accoglienza. (…) Esistere significa allora dimorare.14
Per inciso: gioco infantile, noto anche a chi scrive, è il costruirsi un rifugio a misura di bimbi. Un divano e una coperta; oppure un tavolo con una tovaglia sufficientemente lunga e subito si apre lo spazio dell’immaginazione. Il divano di casa e una coperta tesa al di sopra furono il mio rifugio infantile, nel quale mi nascondevo al mondo adulto, sognando che quella fosse la mia casa. La mia e di nessun altro. A ribadire che la necessità dell’abitare è archetipica e il costruire con sedie e divani, non è surrogato del costruire in pietra e mattoni ma ha pari dignità del costruire “adulto”.
Ricapitolando: il logos raduna, accoglie, raccoglie.
Il logos è luogo, loka.15
Se il luogo raduna, il luogo esiste da prima che lo facessimo nostro; talvolta in quel luogo edifichiamo le nostre dimore; talvolta su quel luogo qualcuno ha già edificato una dimora e allora la ereditiamo -la acquistiamo o semplicemente la noleggiamo- e con essa ereditiamo il lascito di coloro che ci hanno preceduti.
Noi ci prendiamo cura della nostra dimora, perché la nostra dimora si prende cura di noi. Il logos raduna nel senso che chiama, ci aduna, come la Chiesa, Ekklesia Kuriake. In realtà è il luogo che raduna; senza il luogo non c’è raduno:
“Amò, è un’ora che giochi in cortile! sali subito che è pronto a tavola”.
Non è la madre che raduna è la tavola che raduna; aduna – ad uno.
Il luogo riunisce – il luogo è dimora – l’architettura un lusso.
Non ho bisogno di lusso per vivere, di quel <qualcosa in più> che qualificherebbe la mia casa; la dimora raduna, il lusso attribuisce valore immobiliare. L’immobile è una invenzione della finanza.
Riassumendo: abbiamo un logos che chiama e un luogo che aduna, un tempo per l’adunare e un tempio per l’adunata.
La casa è tempio non architettura; già che tempio, essa è realizzata secondo un modello che diciamo “archetipo” e mediante una procedura che diciamo “rito”.16
Se è tempio crea il tempo. Se luogo crea parola.17
L’architettura è nel regno del modello, è archetipica; la dimora è architettura nel suo aspetto immaginale, è luogo nel suo aspetto temporale.
Sacralità domestica
Non è nelle nostre intenzioni scrivere la storia della lenta desacralizzazione dell’abitazione umana. Questo processo fa parte integrante della gigantesca trasformazione del Mondo prodotta dalle società industriali e resa possibile dalla desacralizzazione del Cosmo.
(Eliade M.)
Un territorio abitato, un Tempio, una casa, un corpo sono, come s’è visto, dei Cosmi.
(Eliade M.)
La casa è il tempio domestico.
La dimora -secondo Eliade- è il Centro del Mondo18. L’essere Centro, secondo la cultura tradizionale, assegna alla dimora l’attributo della “vera esistenza”, giacché -sempre secondo Eliade- lo spazio sacro è spazio reale per eccellenza.
“Al desiderio di trovarsi perpetuamente e spontaneamente in uno spazio sacro” corrispondeva, nelle culture pre-moderne, “il desiderio di vivere in perpetuo, grazie alla ripetizione dei gesti archetipali, nell’eternità.”19
L’uomo delle società pre-moderne aspira il più possibile a vivere vicino al Centro del Mondo (…) pretende che la sua stessa casa sia collocata al Centro e sia una imago mundi. Essendo la dimora una imago mundi essa è simbolicamente situata al centro del mondo.
Se la dimora è templum, in che modo la sua sacralità agisce – interviene nelle questioni domestiche? Se la casa è <tempio domestico> condivide gli aspetti materiali e immateriali dello spazio sacro. Ha un centro20 nel quale passa l’Axis Mundi che la collega all’Altrove, al luogo cioè, al quale la Domus appartiene.21 E’ orientata, disponendosi sui quattro orizzonti. E’ Ming Tang22, quadrato magico, luogo che prefigura la Gerusalemme Celeste e nel quale agiscono gli archetipi. E’ spazio rituale, nel quale pertanto si riproducono le condizioni dell’illo tempore e dei singoli fatti ad essa relativi che compongono la sua mitologia, ad immagine e somiglianza dei gesti e degli eroi che li compirono in origine. Saturno riposa in una caverna, dalla quale continua a dare le misure all’universo. Il letto di Ulisse, ben piantato sul tronco di un olivo23, è logos, giacché raduna intorno a sé l’intera dimora: il letto di Ulisse è Archetipo e in quanto letto archetipico, giaciglio.
L’idea archetipale di “centro”, implica a sua volta quella di “confine”.
“L’esistenza di uno stretto legame tra centro e confini sembra essere semanticamente implicito ad esempio nel ceppo linguistico indoeuropeo nell’idea di “spazio concluso” propria del vedico lokah24, termine che assume diversi significati connessi all’idea di luogo e di centro, ma il cui sèma fondamentale per Crevatin è quello di <area limitata>. Molte operazioni tradizionali di fondazione di un luogo, prevedono la contemporanea fissazione di un centro e di confini, che possono assumere le forme più svariate.”25
Operazioni analoghe si riscontrano nella fondazione della casa tradizionale e -poste le debite differenze- nella casa contemporanea, anche se non consapevolmente. In senso metaforico, dunque, qualunque dimora consta di un centro e di una periferia, anche se ai termini non assegnamo valore letterale. Sarà centro di volta in volta la camera da letto, il tinello, la cucina. Più facilmente si rintracciava il centro nella casa agricola, o in quella unifamiliare, nelle quali il camino, con le sue complesse simbologie, determinava con certezza l’asse della casa, riconducibile all’axis mundi, e la porta, unica e dotata di soglia26 in pietra, determinava con altrettanta chiarezza la periferia.
“Nella sua analisi della cosmologia Kabyla, e del sistema classificatorio ad essa connesso, Bourdieu individua una logica simbolica che agisce per mezzo di opposizioni binarie. In tal modo la casa si organizza in una serie di opposizioni omologhe: secco – umido; alto – basso; luce – ombra; giorno – notte; maschile – femminile (…). Le stesse opposizioni si stabiliscono tra la casa nel suo insieme e il resto dell’universo,”27 giacché, come rammenta ancora Eliade, “il corpo umano, associato ritualmente al Cosmo, è anche associato a una casa. (…) L’identificazione casa-corpo-cosmo s’impone immediatamente. Avere un corpo e stabilirsi in una casa, equivale ad assumere una situazione esistenziale nel Cosmo.”28
L’aver fatto tabula rasa della cultura tradizionale della casa, durante la stagione del modernismo, ha disinnescato col tempo, i meccanismi di riconoscimento delle qualità simboliche della dimora. Ulteriore modificazione della percezione dei fenomeni di cui sopra, si riscontra con la progressiva implementazione dei sistemi di riscaldamento-raffreddamento che agiscono sui meccanismi di caldo-freddo e ancor più si riscontrerà con la domotica, che ulteriormente ci separa dalle sensazioni reali per sopperire in forma automatica alle necessità fisiologiche. Effetto ancor più grave della secolarizzazione domestica, è l’aver perso cognizione di certi valori, “luoghi privilegiati, qualitativamente differenti da altri: il paese natale, il luogo dei primi amori, oppure una strada o una città straniera visitata in gioventù. Tutti luoghi che, anche per l’uomo prettamente non-religioso, conservano una qualità eccezionale, unica: sono luoghi santi del suo universo privato, come se quest’essere non-religioso avesse avuto la rivelazione di una realtà diversa da quella alla quale partecipa quotidianamente.”29
Gli archetipi dominanti: verticale ed orizzontale
La dimora è un luogo di compassione e di conforto
Come l’architettura degli esterni riferisce agli archetipi della verticalità30 e della luminosità, così l’architettura degli interni riferisce agli archetipi della discesa, della caduta, della digestione, del contenitore, della coppa, del ventre materno: del divano.
Tutti i tipi in quanto azioni, sono riconducibili a due archetipi:
– la stazione eretta, azione dominante;
– lo stato di riposo, il giacersi, la culla.
Di seguito un semplice schema che riassume il senso di quanto detto pocanzi.
ESTERNI | INTERNI | ||
estetica | si | no | |
archetipi | tipo | diurni | notturni |
elenco | verticalità | discesa | |
luminosità | caduta | ||
asse del mondo | digestione | ||
colonna | ruota coppa |
Luogo per eccellenza della dominante orizzontale è la dimora. Luogo designato al riposo, al sonno, al sogno, è il giaciglio. Il giaciglio è luogo archetipico, lo trovi uguale in tutto il mondo: sia esso materasso, pagliericcio, telaio di canapi intrecciati. Sia esso luogo nascosto, alcova, che sito all’aperto, come rammentava Le Corbusier, durante il suo viaggio in India31.
Vera unità di abitazione orizzontale, non è quella di Libera al Tuscolano, ma la camerata, il dormitorio. Chi non ha vissuto l’esperienza della caserma o dell’ospedale non potrà mai intendere. Popolazioni dormienti o dolenti, che giacciono. Luogo ultimo della postura orizzontale, il cimitero. Non si muore in piedi, salvo smentita. “Dona loro l’eterno riposo”.32
Si torna a casa per riposare. Dopo una giornata di intensa attività lavorativa, quale che sia, con la colonna eretta a schiacciarne i dischi, arriva l’ora del giusto riposo. Perché il riposo è giusto. Donde se ne deduce che lo stare in piedi o seduti, è ingiusto. E se è vero che è giusto “ciò che è conforme alle leggi divine ed umane e quindi segue la norma di dare e riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto”, lo stare sdraiati ci è dovuto.33
E ancora: pur se vale il luogo comune che taluni -sciocchi, ingenui o soltanto dotati di estrema fantasia- sognino ad occhi aperti, il luogo dei sogni è ancora una volta il giaciglio.
“Il letto dunque è lo spazio individuale per eccellenza, lo spazio elementare del corpo, quello che perfino l’uomo più oberato di debiti ha il diritto di salvare: gli ufficiali giudiziari non hanno il potere di pignorare il vostro letto; ciò significa anche -ed è facilmente verificabile nella prassi- che abbiamo soltanto un letto, il nostro letto; (…) non si dorme bene, a quanto pare, che nel proprio letto.”34
E a proposito di letti, quante fantasie, quanti racconti, quante fiabe: Principesse insonni sul pisello, Principesse addormentate in attesa del Principe azzurro e infine, star assoluta del paese del dormiveglia “il più bel fumetto di tutti i tempi”, Little Nemo che corre fra i grattacieli a cavallo del suo letto.35
Il letto, nei sogni di Perec, “diventava la capanna di cacciatori di pellicce, o il canotto di salvataggio sull’oceano infuriato, o il baobab minacciato dall’incendio; la tenda piantata nel deserto, l’anfratto propizio a qualche centimetro dal quale passavano i nemici con le pive nel sacco. Ho fatto molti viaggi in fondo al letto. (…) Mi piace il mio letto. Mi piace restare disteso sul mio letto e guardare il soffitto. (…) Mi piacciono i soffitti, gli stucchi e i rosoni: e il groviglio di fronzoli di stucco mi rimanda spontaneamente ad altri labirinti tessuti dai fantasmi, dalle ide e dalle parole. Ma nessuno si interessa più ai soffitti. E vengono fatti disperatamente dritti.”36
CASE D’ABITAZIONE
In passato l’Architettura si riservava solo ai monumenti e ai palazzi. La semplice casa di abitazione ne raccoglieva appena qualche vago riflesso. Da pochi lustri (…) la casa bandisce via via la sua schietta semplicità originale e, anelante alla sontuosità del palazzo (..) riveste la sua massa di una pretenziosa ed assurda maschera architettonica.
(Griffini E., Costruzione razionale della casa – i nuovi materiali)
È per questo che nel pensiero tradizionale lo spazio, al contrario della geometria euclidea, è rappresentato e percepito come disomogeneo, costituito da parti di valore differente secondo un principio affettivo.
(Caputo B., Usi e rappresentazioni dello spazio negli studi etno-antropologici)
La nostra generazione si è resa colpevole degli orrori di quartieri edilizi costruiti in serie, tutti su base ‘artigianale’, che possono facilmente competere, per la loro mortale uniformità, con quegli insensati sistemi di prefabbricazione che moltiplicano il modello della casa intera, anziché i modelli delle sue parti componenti.”
(W. Gropius, Architettura integrata)
Inizierò la seconda parte di questo breve scritto sulle qualità immaginali della dimora, proprio da quest’ultima frase di Walter Gropius, erroneamente passato alla storia come uno dei padri del funzionalismo, insieme a Le Corbusier, forse per un malinteso approccio dei Maestri verso la prefabbricazione, che in un caso proveniva dalla cultura della casa unifamiliare giapponese37, nell’altro da quella delle macchine38 e che generarono -in entrambi i casi e in altri ancora- una vera avversione da parte di certa critica contemporanea, verso l’intera stagione del Modernismo.39
“Le mie idee” scrive Gropius, in questa lungo brano che riporto per intero, “sono state spesso interpretate come l’apice della razionalizzazione e della meccanicizzazione. Ciò dà un quadro assolutamente errato di tutti i miei sforzi. Ho sempre insistito sul fatto che la soddisfazione dell’anima umana è importante quanto il benessere materiale e che il raggiungimento di una nuova visione spaziale è più significativo dell’economia strutturale e della perfezione funzionale. Lo slogan funzionalità uguale bellezza è vero solo a metà. (…) Deliberatamente il Bauhaus concentrò anzitutto la propria azione (…) ad evitare la riduzione in schiavitù dell’uomo da parte della macchina, salvando sia il prodotto di massa, sia il focolare umano dal’anarchia meccanicistica e loro restituendo scopo, senso e vita. (…) Tendevamo a realizzare moduli d’eccellenza, non a creare novità passeggere. (…) La nostra concezione della fondamentale unità cui ogni progetto si riconduce in rapporto alla vita, era diametralmente opposta a quella dell'<arte per l’arte> e della filosofia assai più pericolosa donde essa scaturiva, quella degli affari per gli affari, fini a se stessi. Ciò spiega perché ci concentrammo sulla progettazione di prodotti tecnici e sull’organica catena dei loro processi di fabbricazione, il che originò l’erroneo convincimento che il Bauhaus si ponesse come l’apoteosi del razionalismo.”40
Paradossale, per tutti noi che abbiamo studiato negli anni ’70, cresciuti nel mito del razionalismo-funzionalismo, scoprire che il focus dell’attenzione del Bauhaus fosse “il focolare umano” e ancora che lo stesso Gropius scrivesse: “considero i problemi psicologici basilari e primari, mentre le componenti tecniche della composizione costituiscono mezzi ausiliari intellettuali di cui disponiamo per realizzare l’intangibile per mezzo del tangibile.” E infine: “ Frasi spurie come <funzionalismo> e <funzionalità uguale bellezza> hanno deviato in canali minori e puramente esteriori la valutazione dell’architettura moderna. Questa caratterizzazione unilaterale si riflette nell’ignoranza che frequentemente si riscontra dei motivi veri che animavano i suoi fondatori, e sbocca in una sciagurata ossessione modernista. (…) L’idea della razionalità, che molti affermano essere la caratteristica preminente dell’architettura nuova, è soltanto la sua funzione purificatrice. L’altro aspetto, la soddisfazione dell’anima umana, è altrettanto importante di quello materiale. Ambedue trovano la propria contropartita in quell’unità che è la vita stessa. (…) l’intima natura dell’architettura ne fa una funzione della padronanza dello spazio.”41
Case d’affitto
Che importa sapere in quale palazzo abiti e da quale portone sei uscito? Una volta uscito non importa più niente a nessuno, salvo che a te.
“Per tutta l’età classica e fino al diciannovesimo secolo, non è mai esistita una trattatistica sistematica sull’alloggio, né una normativa di distribuzione spaziale dei luoghi di residenza.”42 La storia della casa per abitazione pare dunque essere invenzione sette-ottocentesca; secondo taluni sarebbe addirittura invenzione di “polizia” ed il risiedere, comporterebbe “una sorta di azione coatta” per la quale l’abitare verrebbe trasformato “in un domicilio regolarizzato e disciplinato, una istituzione: la residenza” a dispetto dell’idea per la quale il dimorare sarebbe invece “la manifestazione del nostro essere separati ma -anche- la felicità di questa condizione.” 43
Quasi a conferma del fatto che la parole “appartamento” deriverebbe dal verbo “appartare, nel senso di separare, dunque appartarsi, oppure distribuire in parti, onde appartamento varrebbe distribuzione della casa per renderne comode le parti.
Pare accertato che uno dei primi palazzi per case d’affitto del quale si abbiano notizie, senza dire delle case in locazione della Roma antica, fosse Palazzo Giannini in Piazza Capranica.44 Da allora un susseguirsi di edificazioni e di relativi studi tipologici, tendono a classificare gli edifici per abitazione -vera ossessione anatomopatologica- in “case in linea”, “a ballatoio”, “a torre” “a blocco”, oppure semplicemente “case isolate”, “palazzi” e “palazzine”, tipiche, queste ultime, del panorama urbanistico romano. Ciascuna tipologia, con buona pace degli addetti ai lavori, afferisce senza meno all’archetipo di riferimento.45
La dialettica del dentro e del fuori
La dialettica del dentro e fuori si basa su un geometrismo rafforzato in cui i limiti sono barriere. (…) Bisogna constatare che i due termini fuori e dentro pongono, in antropologia metafisica, problemi che non sono simmetrici.
(Bachelard G., La poetica dello spazio)
L’inabitabile: la glorietta mediocre dei grattacieli e degli edifici moderni (…)
(Perec G., Specie di spazi)
Se l’architettura contemporanea attribuisce tanta importanza all’esterno degli edifici, al punto che gli studenti delle nostre università non sono più in grado nemmeno di immaginare un interno -tantomeno i loro docenti, in particolare la generazione nata dopo i ’70- il vizio non è recente.
La questione dell’interno e dell’esterno di un edificio è mal posta. In realtà non esiste alcun esterno né alcun interno, dal punto di vista del rivestimento, la superficie che separa l’interno e l’esterno, essendo la medesima. La questione è tanto antica quanto attuale: quand’è che la facies esterna si separa da quella interna? E su quale tipologia architettonica agisce maggiormente questo scollamento? Certo non nel monumento, che essendo per lo più massa, ha solo la veste esterna. Qualcuno ricorda l’interno del vittoriano? La civile abitazione, a far data da un certo momento, diventa invece veicolo del fenomeno. Non è il caso dell’insula romana, che quanto promette di fuori tanto mantiene all’interno. Sono piuttosto lo scimmiottamento del tempio, da un lato, e l’ammodernamento del gusto secondo moda, anziché secondo tradizione, che accelerano il processo. Mentre l’esterno si traveste da passato, l’interno si evolve. Così si separano due facce della stessa entità, in un processo alchemico-psicologico al contrario. Il Novecento non sarà da meno, anzi vedrà accelerare il processo fintanto che l’architettura non diventerà anch’essa moderna, come prima si era modernizzato il costume.
Ma il vizio permane nonostante il tempo trascorra. Lo stesso Ghery, a Bilbao, come altrove, contrappone il titanio al cartongesso, segnalando il fatto che il valore dell’edificio -in un contesto urbanistico-finanziario come quello attuale- debba essere concentrato all’esterno, che dell’edificio è la veste pubblica e pertanto pubblicizzante l’edificio medesimo, se non addirittura la firma dell’archistar di turno, che a sua volta tenderà a specializzarsi in performance architettoniche, che possiamo chiamare architettura ma che architettura non è, giacché è operazione che dimentica l’interno. L’interno, salvo casi rari, è affidato alla grande distribuzione mobiliaria. Un unico grande interno, a fronte della molteplice entusiastica manifestazione degli esterni.
Muri
Dato un muro che cosa succede dietro?
(Tardieu J.)
“Metto un quadro su muro. Poi dimentico che c’è un muro. Non so più che cosa c’è dietro il muro, non so più che c’è un muro, non so più cos’è un muro. Non so più che nel mio appartamento ci sono dei muri e che se non ci fossero dei muri non ci sarebbe l’appartamento. Il muro non è più ciò che delimita e definisce il luogo in cui vivo, (…) non è più che un supporto per il quadro.(…). Ho messo il quadro sul muro per dimenticare che c’era un muro ma dimenticandomi il muro dimentico anche il quadro. (…) Bisogna poter dimenticare che ci sono dei muri e quindi non si è trovato niente di meglio che i quadri. I quadri cancellano i muri ma i muri uccidono i quadri”.46
Perché un certo giorno abbiamo deciso di dimenticare i muri? Per non scoprire che viviamo in un orrendo palazzo, magari bellissimo (signora, ci crederebbe? Ha pure la piscina sul tetto!) ma accanto ad altri dai quali in realtà vorremmo essere lontani ed invece, al massimo, possiamo essere separati.
È possibile una riunificazione delle due facce? Non lo ritengo possibile fintanto che a determinare il valore del’immobile sarà l’estetica architettonica del foto-render. Dovendo vendere le case sulla carta, ed essendo inoltre più facile intendere una foto che un disegno tecnico (dell’impossibilità per la gente comune di leggere una pianta ad esempio, si parli una volta tanto!), accade che della qualità dello spazio interno, il vero ed unico spazio nonché vero ed unico valore dell’architettura, non importi più niente a nessuno. Non ci saranno più spazi indicibili, che certamente erano interni, giacché diversamente, il Maestro non avrebbe usato il verbo esplodere per spiegarne il fascino ed il mistero.47
Tutto ciò con grave danno per la disciplina medesima, che da anni non sviluppa tipologie nuove, né le desidera; e per l’utente, che non è più in grado di associare la propria esistenza ad uno spazio dell’emozione, che non può che essere spazio interno, privandoci del quale, depauperiamo le nostre esistenze della qualità del vivere. Io non dormo sulle lastre di titanio! Neanche dormo sul letto. Io possiedo un giaciglio. Un letto non è un giaciglio, come una chiesa non è un edificio. Letti e chiese sono entrambi luoghi del rito, del sogno e del sentimento. Ciascuno di noi, aggiungo, dovrebbe imparare a costruire mobili per vivere la meglio la propria dimora.
La dialettica del dentro e fuori è certamente asimmetrica; a saper leggere, lo dichiarano primariamente i termini che adoperiamo per designare le nostre discipline: l’interior design è palesemente disciplina di interni; l’architettura, di contro, designa genericamente il fuori, giacché l’architetto è il costruttore per antonomasia, nonché primigenio ove riferisse al Creatore.
“Il fuori e il dentro” come osserva Bachelard, “costituiscono una dialettica lacerante e la geometria evidente di tale dialettica ci acceca non appena l’applichiamo nel campo delle metafore. Essa possiede l’affilata nettezza della dialettica del si e del no che decide tutto.”
L’asimmetria permane comunque non appena ci si dispone all’esercizio dell’arte. Un architetto di interni sarà sempre un cialtrone, per lo più bizzarro, capriccioso, esperto di materiali quanto di pettegolezzi; più che progettare case ne estrapola l’inconscio. L’architetto tout court, invece, è sempre un logico, applica un rigore, un canone una norma; oggidì veste di nero (perché sfina?); agli albori del novecento e ancora fino a pochi anni orsono, portava il papillon su grisaglie o gessati impeccabili, anche in cantiere.
Ambedue disegnano: il primo su certi foglietti variegati colorati a pastello, il secondo rigorosamente al computer, dove una volta anch’egli consumava foglietti e pastelli. Un architetto che fosse consapevole, però, anziché le profondità del piano di fondazione e le altezze del lastrico solare in certi edifici che sfondano lo skyline (schegge, frecce “suppostoni” ed altre ossessioni altimetriche delle quali cent’anni orsono FLW aveva già chiara consapevolezza), conoscerebbe le profondità dello spirito e le altezze incommensurabili dell’animo umano.
E per rimanere coi piedi in terra, anziché volare, parliamo anche della apodittica orizzontalità, che relativamente agli esterni ed agli interni designa un fuori ed un dentro e pertanto un luogo, un punto una linea, un luogo, al-dil-à del quale siamo dentro, al-di-qua del quale siamo fuori e viceversa; giacché, l’al-di-qua e l’al-di-là ripetono sordamente la dialettica del dentro e del fuori. Quale che sia questo luogo, sia esso porta, o soglia, designando ancora una condizione di verticalità o di orizzontalità, grande è la differenza che se denota. Ove il dentro, come dicevamo, perde connotazione di architettura per acquisire quella di dimora, versione moderna della grotta; mentre il fuori, gioia di ogni architetto in grisaglia che si rispetti, ne definisce una estetica edilizia.
La vera qualità dello spazio la esprimono gli interni, che nascono assai prima degli esterni, che soggiacciono a logiche diverse, dovendo esprimere qualcosa pubblicamente, com’è il caso del Partenone.
Gli interni invece sono un mondo a parte, come quando nel montaggio cinematografico ci fanno credere che ad un certo portone corrisponda un certo interno che invece è altrove; la soglia cambia lo scenario, il pubblico diventa privato; luogo senza necessità di rappresentazioni che non siano le qualità degli abitanti.
Un teatro in cui cambiano le scene non necessita di tante altrettante facciate; un interno è sempre un interno, coi suoi tavoli e le sue sedie; un esterno -di contro- rimane sempre un esterno, senza sedie e tavoli salvo che in quella pubblicità di un noto aperitivo degli anni ’60 nella quale andava in scena l’uomo con la forza dei nervi distesi contro il logorio della vita moderna; o forse quella era la pubblicità di un’altra bevanda.
Un improvviso e drammatico rovesciamento di senso
Dov’è il peso maggiore dell’essere-là, nell’essere o nel là?
(Bachelard G., La poetica dello spazio)
Ma in un improvviso e drammatico rovesciamento di senso, potremmo anche scoprire l’esistenza di un dentro-fuori o di un fuori-dentro, quando il peso maggiore dell’essere-là fosse concentrato nell’essere che abita. Esiste (anche) una estetica dell’esterno che non ha a che fare con l’estetica; soddisfa altre esigenze. Nell’arte la questione estetica è secondaria, giacché connaturata. L’estetica architettonica non è una etichetta, un “ready-made”; non ha a che fare con lo stile, né coi tempi, se non col tempo della sua ideazione costruzione. Pensare ad una estetica quale disciplina, come vedremo più avanti, è implicitamente – e semplicemente una sciocchezza!
LA QUESTIONE DELL’ESTETICA IN ARCHITETTURA
Una casa costruita per durare nel tempo e che era durata nel tempo. Una casa costruita per essere più che un semplice edificio, più che una semplice costruzione per essere una vera casa, un nido e una patria a un tempo. Ed era ancora una casa … un luogo solido e sicuro che abbracciava coloro che vi entravano, che li teneva stretti e li riparava e dava loro calore, li cullava, quasi li faceva diventare parte di sé.
(Simak C. D., Anni senza fine)
Mettetevelo in testa una volta per tutte: la qualità dello spazio non ha a che fare con l’estetica
Mi piacerebbe ritrovare un certo scritto di Walter Gropius, nel quale il Maestro si compiaceva nel dire che la vera liberazione per l’umanità, sarebbe stata la casa in affitto. Mi piacerebbe trovarlo ma non lo trovo. Potrei dimostrare che la casa in affitto, pur con tutti i suoi vantaggi, sconosciuta agli italiani, è la disgrazia dell’umanità. Rende liberi ma proprio per questo toglie radici, ci trasforma in mongolfiere, liberi di cercare lavoro ovunque ma senza un posto dove tornare una volta che sopraggiungesse la stanchezza della vita, che sempre, prima o poi, giunge per tutti. La casa paterna, il lastrico avìto, la dimora.
Qualunque visione etno-antropologica o di tipo psicologico dell’architettura, da sempre, non prevede le categorie del bello e -conseguentemente- dell’estetica. Non le prevede l’architettura orientale, interessata piuttosto ai criteri di posizione e relazione, né quella delle origini, anch’essa interessata piuttosto a stabilire divisioni legate al cosmo ed alla suddivisione dello spazio in regioni categorizzanti.
Perché si parli di bello -in senso di manifestazione del vero- è necessario riferire alla cultura greca quindi a quella romana, Vitruvio innanzitutto.
Per arrivare al bello inteso quale disciplina, dovremo aspettare il ‘700, quando -inesorabile- interviene l’idea di artista anziché di produzione artistica.48 Totalmente scomparso, invece, dall’abitare, il complesso simbolico ad esso intimamente connesso e l’idea stessa di “sacro”, che come insegna Eliade, non aveva ancora a che fare con la religione.
CONCLUSIONI
Si disse in premessa relativamente alle case dei genitori, dei nonni, dei bisnonni e via dicendo, che la questione dell’abitare qualitativo apre lo spazio a due domande.
La prima: cosa fa di una casa sempre diversa una casa sempre uguale?
La seconda: se i muri sono gli stessi, cos’è che cambia? E cosa permane?
In chiara sintesi rispondo ora, giunti alle conclusioni di questo breve (lungo?) saggio sull’abitare.
Cosa fa di una casa sempre diversa una casa sempre uguale?
Il fatto di essere dimora, di condividere dunque con le altre dimore al mondo, gli archetipi fondanti l’idea stessa del dimorare. Si rammenti Heidegger: è l’abitare che costruisce, non si costruisce per abitare.
E infine.
Se i muri sono gli stessi, cos’è che cambia? E cosa permane?
Cambieranno gli arredi ma non le abitudini, sottoposte come sono, anch’esse, agli <archetipi posturali> che come vedemmo sono di due nature: la postura verticale, axis mundi, colonna portante del nostro corpo e dell’universo; la postura orizzontale, regno del sonno, del sogno e -mi duole dirlo- della morte.
Note:
Per la “questione” dell’existenzminimum, cfr. anche. Baffa Rivolta M. e Rossari A. (a cura di), Alexander Klein, lo studio delle piante e la progettazione degli spazi negli alloggi minimi, Milano, 1975.
(Chatwin B, Le vie dei canti, Adelphi, 1995)
(Omero, Odissea, XXIII, 233-245, traduzione di Ippolito Pindemonte)
(Eliade M., Il sacro e il profano, cit., p. 83).
(in: Wogenscky A., Le mani di Le Ccorbusier, cit. p. 85).
La casa giapponese è la migliore e più moderna che io conosca e autenticamente prefabbricata”.
(Così scriveva Walter Gropius a Le Corbusier nel 1954).
(in: Wogenscky A., Le mani di Le corbusier, p. 82).
(W. Gropius, Architettura integrata , Milano 1994, p. 86)