C’è un punto dell’intervento alla conferenza sulla sicurezza di Monaco svolto da J.D. Vance (14 febbraio 2025), ch’è di straordinaria importanza, per quanto sia stato accennato come en passant: l’annuncio che l’Unione Europea avrebbe dovuto cominciare a occuparsi per proprio conto della difesa del vecchio continente, ché gli USA saranno sempre più impegnati sul versante asiatico per contrastare la Cina. Nulla di nuovo beninteso, visto che di proiezione preferenziale statunitense verso l’Asia da molti anni si va discutendo anche da parte di amministrazioni democratiche quali quella di Obama.
La novità sta nella rapidità con cui la nuova amministrazione USA si muove in un rinnovato impegno imperialista. Già ne parlammo analizzando il discorso di insediamento di Trump (v. https://www.frontiere.info/alcune-osservazioni-su-trump2-mckinley-revival/ ), in cui questi annunciò che avrebbe ripreso l’eredità di Theodore Roosevelt, l’ultimo Presidente statunitense a seguire la visione ottocentesca di impero fondato su conquiste territoriali dirette – a differenza della successiva evoluzione del concetto imperiale fondato sul dominio finanziario esercitato attraverso il dollaro e il controllo del debito estero di altri paesi, che ha trovato la sua più recente fioritura negli anni ‘70 con l’ideologia dei Chicago Boys.
Neoimperialismo ottocentesco
Una volta riesumato l’imperialismo territoriale diretto che, come molti hanno notato, è connaturato in Trump, cresciuto quale speculatore immobiliare più che come speculatore finanziario, risulta ovvio per la sua amministrazione cercare l’accordo con la Russia, cioè con l’altra potenza militare che non ha mai abbandonato la modalità del controllo territoriale diretto per esercitare il proprio dominio.
In questo momento storico, in cui le pretese egemoniche russe e statunitensi sbattono contro il terzo incomodo, la Cina, la loro tendenza a rappacificarsi si consolida, dopo il lungo periodo della guerra fredda e dopo quella che pareva una possibile ripresa di questa a conseguenza dell’invasione in Ucraina. Perché, a fronte della Cina, sia Russia sia USA si trovano in posizione di relativa debolezza. Sul piano militare il paese del sol levante dipendeva fino a non molti anni fa dal suo vicino settentrionale, ma ormai si è reso totalmente indipendente e grazie ai suoi enormi progressi in campo scientifico potrebbe surclassare anche gli Stati Uniti. Sul piano economico da tempo, grazie all’ignavia liberista-finanziaria statunitense, è diventata la più forte potenza industriale che il mondo abbia mai conosciuto.
I passi di Putin per ingraziarsi la Cina di Xi, compiuti recentemente, al di là delle apparenze e delle dichiarazioni verbali non sono altro che un tentativo di sentirsi le spalle protette, o di evitare di doversi preoccupare troppo di potenziali minacce provenienti dal fianco sud del territorio russo, a seguito dei fallimenti nella guerra in Ucraina (la Russia contava di concluderla in breve, come aveva fatto in Ungheria e Cecoslovacchia negli anni ‘50 e ‘60, ma c’è rimasta impantanata e ha dovuto ricorrere al soccorso di ceceni e nordcoreani per portarla avanti). Si ricordi che la Cina non è amica della Russia: dalla metà dell’800 ha avuto vaste porzioni del proprio territorio erose da quest’ultima e anche quando ne ha condiviso l’ideologia comunista non ha mai gradito le sue ingerenze, tanto che Mao nel ‘71 accolse le proposte di intesa con Nixon proprio in funzione antisovietica.
La geopolitica che anima il gruppo dirigente russo del momento è espressa sul piano dell’ideologia nazional-imperialista da personaggi come Dugin, Medvedev, Karaganov, e con l’invasione in Ucraina Putin, secondo tale visione, mirava a ottenere l’egemonia nella vasta zona eurasiatica (la “heartland” di Mackinder). Ma tale pretesa egemonica s’è vista tarpata le ali nel momento in cui le forze militari russe si sono rivelate incapaci di piegare persino un paese immensamente più piccolo e meno armato del loro.
Le quinte colonne ideologiche
Ecco dunque l’impegno russo a tener buona la Cina, mentre anche continua con sistematicità a riesumare quella capacità, emersa col comunismo, di influire sugli altri paesi tramite l’utilizzo di quinte colonne reperite nel mare magnum di coloro che dissentono dall’imperialismo dell’iperliberismo finanziario. Di qui, inoltre, che si ravvivi quell’intesa, che sul piano strettamente ideologico parrebbe innaturale, tra gruppi di tendenze opposte all’estrema destra e all’estrema sinistra: quelli che si potrebbero sbrigativamente chiamare nazi-comunisti. Intesa che nella Germania attuale, probabilmente a seguito del terrore causato dall’invasione russa in Ucraina, ha preso la forma delle vittorie elettorali ottenute il 23 febbraio da AfD (sulla destra) e da Bündnis Sahra Wagenknecht (sulla sinistra). Un tempo c’era chi diceva “meglio rossi che morti”, oggi probabilmente c’è chi pensa, meglio russofili che ingorgati in un conflitto militare con la Russia. Non sappiamo se la Russia abbia su di loro un influsso diretto di carattere economico, come avveniva col vecchio Partito Comunista Italiano, ma certo l’influsso ideologico è forte e per la Russia ben più vantaggioso in quanto meno costoso. Gli utili idioti di cui si dice parlasse Lenin tornano sempre molto comodi.
In tale situazione l’UE sta cercando di rimboccarsi le maniche e di reagire, ora che lo slittamento geopolitico statunitense con Trump piomba direttamente nell’intesa con l’ex avversario russo.
Ma il punto critico sta nel fatto che sinora la UE è a sua volta scivolata, sotto l’impulso dell’estremismo liberista di stampo americano, verso atteggiamenti autodistruttivi nella forma di estremismo ecologista, ideologia woke e iperliberismo economico. Questo ha provocato per reazione che tanti elettori si siano volti verso proposte politiche che si presentano come a difesa dei valori tradizionali. E il problema è appunto che, a fronte della lascivia impossessatasi di tante parti della UE, tali valori sono stati inalberati dai movimenti estremisti russofili nel momento stesso in cui hanno aperto le porte proprio all’influsso ideologico russo. Cosa che ha potuto avvenire perché Putin, dopo la debacle della caduta del comunismo, ha costruito la propria immagine di salvatore della patria proprio sulla riscoperta delle tradizioni e ha fatto della religione un suo punto di forza. Ma bisogna guardare attentamente: quale religione? Intesa come? Utilizzata in che modo?
I valori tradizionali difesi dal putinismo si rivelano in realtà opposti a quelli occidentali. Perché in Russia la religione è intesa come strumento ideologico per il controllo esercitato dal potere politico sulle masse ed esemplare di questo è il supporto dato dal patriarca Kirill all’invasione in Ucraina, da lui definita “guerra santa” per la “liberazione nazionale… nella Russia sud-occidentale” (Ansa, 31 marzo 2024). Non ha neppure usato il termine “Ucraina” evidentemente non riconoscendola come paese sovrano, bensì come una porzione riottosa dell’impero della Grande Russia. In questo Kirill, pur essendo un leader religioso che si richiama al cristianesimo, sostiene i massacri compiuti dalle truppe russe in Ucraina, gli stupri pubblici di massa compiuti su donne e uomini ucraini, le migrazioni forzate per sostituire gente russa a quella ucraina in regioni che ritiene russe ma che l’ONU riconosce come la parte orientale dell’Ucraina.
Se l’UE vorrà veramente contrastare questa ondata di violenza rovesciatasi in Ucraina, dovrà recuperare i fondamenti della tradizione sua propria, in cui netta è la distinzione tra quel che si dà a Cesare e quel che si dà a Dio. E in cui la morale pubblica non è indirizzata, con la scusa dell’ecologismo e del wokismo, a contrastare i principi e i valori che la cultura giudeo cristiana ha veicolato nei secoli.
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