Il conflitto in Palestina non è iniziato il 7 ottobre 2023 e neppure nel 1948, con la proclamazione dello Stato di Israele. Le sue radici risalgono al 1882, quando arrivarono i primi coloni ebrei in quell’area che faceva parte dell’Impero ottomano. Nel 1917 l’Impero britannico promise un “focolare” agli ebrei per garantire i propri interessi strategici, decenni prima dell’avvento del nazismo e della Shoah. La storiella del “popolo senza terra” che si stabilisce in una “terra senza popolo” è una falsità crudele perché in Palestina un popolo c’era ma, nel corso dei decenni, è stato espulso o decimato con una feroce pulizia etnica. Un noto storico ricapitola in modo sintetico ma efficace questi sviluppi, dai primi insediamenti ebraici fino alla guerra ancora in corso.
Ilan Pappé è un docente israeliano nato a Haifa nel 1954. Prima di analizzare il suo ultimo libro è necessario fornire alcuni dettagli biografici sull’autore, uno dei più brillanti “new historians” e con una visione esplicitamente antisionista della colonizzazione della Palestina. Di formazione marxista, Pappé fu arruolato nell’esercito (chiamato con tragica ironia IDF, Forze di Difesa di Israele) a 18 anni e combatté sulle Alture del Golan nella guerra dello Yom Kippur del 1973. Si è laureato alla Hebrew University di Gerusalemme per poi prendere un dottorato in storia a Oxford. Tra il 1984 e il 2006 ha insegnato presso il Dipartimento di Storia del Medio Oriente dell’Università di Haifa. Ma dopo un suo appello per il boicottaggio di Israele si vide costretto a dare le dimissioni e, ritenendo di non poter più vivere nella sua terra natale (aveva ricevuto diverse minacce di morte), emigrò nel Regno Unito e da allora è professore di Storia all’Istituto di studi arabi e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter.
I genitori di Pappé erano ebrei aschenaziti rifugiati in Palestina per sfuggire alle persecuzioni della Germania nazista negli anni Trenta del secolo scorso. Queste informazioni sono necessarie perché le critiche radicali alla politica di Israele sono oggi immediatamente bollate come “antisemite” cosa che, ovviamente, non è possibile fare con le tesi di Pappé. Benny Morris, uno dei più noti storici israeliani, che non conosce l’arabo e rifiuta di usare fonti palestinesi, ha definito “sciatte” le pubblicazioni di Pappé. Quest’ultimo ha replicato che basarsi soltanto sui dati forniti dall’esercito israeliano porta soltanto a una visione molto parziale del conflitto. Il lettore può capire perfettamente questo aspetto prendendo in considerazione il numero delle vittime palestinesi a Gaza che ha purtroppo superato le 42.000. Il portavoce dell’esercito israeliano nega questi dati, sostenendo che sono forniti da Hamas che ha tutto l’interesse a gonfiare le cifre, ma tutti gli specialisti dell’area li ritengono invece attendibili. D’altronde, le terribili immagini della distruzione di Gaza non possono essere censurate dalla propaganda israeliana che spaccia i crimini di guerra come diritto alla difesa. I fatti possono essere interpretati, ma è difficile negarli in un mondo strettamente interconnesso e la Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina è piena di fatti.
Il doppio gioco dell’Impero britannico
Gli insediamenti ebraici in Palestina iniziarono nel 1882, dopo che una riforma del diritto fondiario ottomano aveva reso possibile l’acquisto individuale delle terre. Il saggio ricorda la figura di Theodor Herzl, un ebreo austriaco che divenne la figura guida del Sionismo, quell’ideologia che propugnava il ritorno di tutti gli ebrei nella Terra promessa. Herzl riteneva che un pachiderma arretrato e indebolito come l’Impero ottomano avrebbe accettato di cedere la Palestina al movimento sionista ma si trovò di fronte a un rifiuto. Cambiò quindi rotta e propose al governo britannico di far sorgere uno stato ebraico non in Palestina ma in Uganda, allora controllata dagli inglesi. Londra si dimostrò interessata ma la proposta fu bocciata dal Congresso sionista del 1903 in seguito a una durissima discussione che rischiò di spaccare il movimento. Dopo la morte di Herzl emersero figure come David Ben Gurion e Menachem Ussishkin che, a differenza del fondatore del sionismo, non erano interessati all’approvazione degli inglesi o dei turchi ma puntavano invece sulla politica del fatto compiuto e ritenevano che tutto il resto sarebbe venuto di conseguenza.
Scrive Pappé che dai loro diari «risulta evidente che anche nella prima fase della colonizzazione sionista della Palestina (1882-1918) già immaginavano una Palestina senza i palestinesi e dibattevano esplicitamente di come realizzarla». Per mettere in atto questo progetto Chaim Weizmann, il successore di Herzl, capì immediatamente che era necessario creare una forza lobbistica che «convincesse la Gran Bretagna a ignorare le istanze dei palestinesi autoctoni e a contribuire alla creazione di uno Stato ebraico nel territorio. Questo sarebbe stato venduto agli inglesi come un baluardo contro l’Impero ottomano, un avamposto europeo nel Medio Oriente». Weizman portò a termine una brillante operazione nel dar vita a una lobby filosionista in Gran Bretagna composta da «cristiani devoti che credevano nel “ritorno degli ebrei” in Palestina come adempimento della volontà di Dio, da antisemiti che volevano gli ebrei fuori dalla Gran Bretagna e da aristocratici anglo-ebrei che, pur essendo riluttanti a emigrare in Palestina, la ritenevano una destinazione adatta per gli ebrei della classe operaia dell’Europa orientale, che consideravano dei piantagrane comunisti. In altre parole, l’unica cosa che queste persone avevano in comune era il desiderio di fondare uno Stato ebraico».
Sul disegno strategico del sionismo il saggio opera una interessante distinzione tra il “colonialismo classico”, in cui le terre occupate erano governate dai territori metropolitani, come faceva la Gran Bretagna in India o il Portogallo in Africa, e il “colonialismo insediativo”. «Nel colonialismo insediativo –spiega Pappé-, il colonizzatore punta a sostituire completamente la società nativa con la propria. I coloni sono spesso degli emarginati nei loro territori metropolitani: il Nord America, dopotutto, fu colonizzato da persone in fuga dalle persecuzioni religiose in Europa […] i coloni cancellano la storia delle società native, datandola a partire dal loro primo arrivo. Le vecchie usanze svaniscono e il cibo autoctono viene assimilato a quello dei coloni. In parole povere, la terra non è vuota. Sono i coloni che la svuotano».
Nel corso della Prima guerra mondiale, quando era ormai chiaro che l’Impero ottomano, alleato di tedeschi e austriaci, sarebbe crollato la Gran Bretagna preparò un piano di spartizione del Medio Oriente con la Francia e prese atto che la Palestina (sotto controllo ebraico) avrebbe potuto svolgere un ruolo fondamentale nella difesa del canale di Suez in Egitto. «Un regime governativo amico a quel punto era vitale. Insomma, gli imperialisti volevano la Palestina per ragioni strategiche, i cristiani evangelici la volevano perché avrebbe contribuito a realizzare la fine dei tempi e i leader ebraici la volevano come rifugio sicuro per gli ebrei di Russia, nonché come mezzo per modernizzare energicamente l’ebraismo. Per sopravvivere alla nuova epoca, pensavano, l’ebraicità doveva essere una nazionalità, non una religione».
Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour scrisse una lettera ufficiale a Lord Walter Rothschild, il più importante rappresentante della comunità ebraica britannica, promettendo una “national home” per gli ebrei in Palestina. L’anno prima lo stesso governo aveva però promesso agli Ashemiti, una dinastia araba locale, di riconoscere l’Hegiaz, lo stato indipendente da essi proclamato. Come contropartita gli arabi si sarebbero dovuti sollevare contro i turchi. Inoltre, gli inglesi avevano lasciato intendere agli Hashemiti che essi avrebbero potuto fondare nuove case reali nei territori che sarebbero diventati la Siria e l’Iraq, guidate dagli eredi di al-Husayn ibn Ali, che era sceriffo della Mecca e re dell’Hegiaz. Lo strumento utilizzato dal Foreign Office fu il famosissimo Lawrence d’Arabia, come racconta con correttezza storica l’omonimo film di David Lean del 1962. Inizialmente gli inglesi avevano promesso il regno dell’Iraq al figlio maggiore di al-Husayn, Abdullah, e il regno di Siria al figlio minore, Faisal. Ma, nel frattempo, avevano anche concordato che la Siria sarebbe stata sotto il controllo della Francia con l’accordo Sykes-Picot, quindi non spettava più a loro cederla. Un doppio gioco smaccato, non molto diverso da quello del presidente Biden che si dice affranto per le decine di migliaia di donne e bambini massacrati a Gaza ma continua imperterrito a fornire a Tel Aviv le bombe con cui sono bombardate le vittime.
La memoria e il ricordo devono valere per tutti
I vari accordi seguiti alla Prima guerra mondiale portano al mandato britannico sulla Palestina che sarebbe terminato il 14 maggio 1948. Lo schieramento di forze sul versante palestinese non poteva competere con i tre gruppi paramilitari sionisti: la Haganah, l’Irgun e la Banda Stern. Queste formazioni erano meglio equipaggiate, avevano prestato servizio nell’esercito britannico e, soprattutto, erano almeno dieci volte più numerose. Durante la Seconda guerra mondiale il movimento sionista si era fortemente radicalizzato e non aveva nessuna intenzione di farsi intralciare dal governo britannico. Gruppi militanti sionisti avevano compiuto attacchi terroristici per fare pressione sugli inglesi. Nel luglio del 1946, l’organizzazione clandestina sionista Irgun fece saltare in aria gli uffici centrali del mandato britannico presso il King David Hotel di Gerusalemme, uccidendo novantuno persone. Il governo guidato dal laburista Clement Attlee riteneva che l’Impero britannico fosse ormai troppo costoso da mantenere e passò quindi la patata bollente dello status della Palestina alle Nazioni Unite.
Il 29 novembre 1947 l’Assemblea generale dell’ONU approvò con una maggioranza risicata la risoluzione 181 che prevedeva la partizione della Palestina in due Stati. Pappé scrive che «i vertici palestinesi credevano, con grande ingenuità, che, essendo loro la popolazione nativa e maggioritaria, le Nazioni Unite avrebbero fatto della Palestina uno Stato per i palestinesi. I leader sionisti pensavano invece che le azioni contassero più delle parole. Avevano giustamente calcolato che la comunità internazionale non avrebbe aiutato i palestinesi a riprendersi ciò che i sionisti avevano preso con la forza fin dall’inizio. Pianificarono quindi di conquistare tutti i posti strategici non appena le truppe britanniche li avessero lasciati liberi: radio, servizi postali, telecomunicazioni, ferrovie, spazio aereo, trasporti pubblici, banche e, naturalmente, la terra». Quando i palestinesi attaccarono gli insediamenti ebraici, i sionisti risposero con le punizioni collettive. Usarono la violenza palestinese come pretesto per cominciare a epurare le aree arabe palestinesi da quello che sarebbe stato lo Stato ebraico: in altre parole, pulizia etnica.
Nel febbraio del 1948, ebbe luogo il caso più spudorato di questo tipo di operazione in tre villaggi attorno all’antica città romana di Cesarea. Questi tre villaggi furono sottoposti a un’epurazione talmente violenta e forzosa che quasi nessun edificio rimase in piedi. Impossibile trovare tracce, oggi, delle fiorenti comunità di un tempo. Gli abitanti arabi dei villaggi dovettero andarsene in massa per poter sopravvivere. Tutto questo fu fatto mentre gli inglesi erano ancora responsabili dell’ordine pubblico. «Tra marzo, aprile e inizio maggio –scrive Pappé-, le forze sioniste presero di mira i centri urbani della Palestina. Alla fine, furono tutti completamente distrutti, in quello che oggi possiamo solo definire un urbicidio. In quel periodo, la popolazione palestinese fu espulsa da Haifa, Bisan, Giaffa, Acri, Tiberiade e Safed, così come dai villaggi circostanti. In molti casi un massacro in un villaggio precedeva l’operazione militare in città: le forze sioniste speravano che questo avrebbe accelerato la fuga e indebolito la resistenza».
Il 9 aprile 1948, gruppi paramilitari di destra, l’Irgun e la Banda Stern (per dare un’idea della ferocia e del fanatismo di questa organizzazione bisogna ricordare che durante la Seconda guerra mondiale la Banda Stern aveva preso contatto con la Germanai nazista per operazioni comuni contro la Gran Bretagna) fecero irruzione nel villaggio di Deir Yassin e uccisero i residenti casa per casa, senza risparmiare nemmeno donne e bambini. Morirono oltre cento abitanti del villaggio. I palestinesi recepirono il messaggio e molti nelle aree circostanti fuggirono, temendo che con l’avanzata delle forze ebraiche lo stesso sarebbe successo nei loro villaggi e quartieri. Numerosi membri di questi gruppi paramilitari sarebbero stati integrati nell’esercito israeliano dopo l’indipendenza, guidati dalla Haganah. Nel maggio del 1948 l’ONU aveva nominato come mediatore il conte Folke Bernadotte, un diplomatico svedese che si era distinto per aver salvato 15.000 prigionieri dai campi di concentramento negoziando abilmente con i tedeschi verso la fine della Seconda guerra mondiale. Bernadotte voleva adattare la partizione alla demografia e pensava di concedere più territorio allo Stato arabo e permettere ai palestinesi di rientrare nelle proprie case. Gerusalemme, come nel piano originale delle Nazioni Unite, sarebbe stata un’enclave internazionale.
Ma qualunque proposta di modifica era considerata inaccettabile dai dirigenti sionisti. La carriera dell’abile diplomatico svedese si interrompe bruscamente: il 17 settembre 1948 Bernadotte viene assassinato dalla Banda Stern. Secondo Pappé «l’omicidio fu spacciato come un atto di terrorismo dei militanti. Ma alcuni storici sospettano che la leadership sionista fosse complice, sebbene non sia mai stato accertato fino a che punto». Nel dicembre del 1948, le Nazioni Unite approvano, a larga maggioranza, la risoluzione 194. In essa si reclama il diritto al ritorno dei rifugiati, una Gerusalemme internazionale e negoziati per una soluzione a due Stati sulla base dei confini stabiliti nella risoluzione sulla partizione del 1947. Per attuare quest’altra risoluzione, l’ONU istituisce un nuovo organismo che convoca una conferenza a Losanna in Svizzera nell’aprile del 1949. Israele vi partecipa perché questa è la conditio sine qua non per la sua entrata all’ONU. Il 12 maggio 1949 viene firmato il Protocollo di Losanna in cui si ribadisce l’accordo per proseguire i negoziati sulla base di tre principi: il ritorno dei profughi palestinesi, il piano di partizione del 1947 e l’internazionalizzazione di Gerusalemme.
Israele smentisce subito di aver accettato i termini del protocollo così come erano stati intesi da tutti gli altri e dichiara di non essere più disposto a limitare i propri confini a quelli delineati nel piano di partizione del 1947. Nonostante le pressioni americane (una storia che conosciamo), Israele riesce a farla franca e i negoziati si fermano. Siamo ancora a quel punto, con l’aggiunta dei nuovi territori conquistati dopo la guerra del 1967. Oggi le truppe israeliane sparano sulle postazioni Unifil per farle sloggiare dal sud del Libano, in modo da portare a termine senza testimoni scomodi le proprie operazioni militari nel Paese dei cedri. Si preparano ad attaccare l’Iran e non escludono la Siria e l’Iraq come bersagli, senza che ci sia nessuna reazione significativa che vada al di là delle semplici proteste, sia nel mondo arabo che in Occidente.
Dopo la proclamazione dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948, furono 700.000 i palestinesi costretti ad abbandonare case e terre dove i loro antenati erano vissuti per secoli diventando profughi a vita. Oggi i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana sono quasi cinque milioni e il primo ministro Netanyahu non ha mai elaborato una strategia che indicasse come intende risolvere il problema. La legge internazionale prescrive che l’esercito occupante si faccia carico della sussistenza dei civili e gestisca le infrastrutture necessarie alla loro sopravvivenza. Invece di prendersi le proprie responsabilità, l’esercito di Tel Aviv continua a bombardare senza sosta edifici residenziali, scuole e ospedali di Gaza infischiandosene della legge internazionale. Le milizie dei coloni sono state assorbite dall’IDF e fanno continue incursioni nella Cisgiordania occupata dove uccidono, bruciano ed espellono quanti più palestinesi possibile in una brutale operazione di pulizia etnica.
Tutti i giorni varie televisioni ci informano di quanto sta succedendo a Gaza, pagando un prezzo altissimo per il loro lavoro. Secondo l’International Federation of Journalists, al 7 ottobre 2024, oltre 130 persone hanno perso la vita a Gaza, tra reporter e lavoratori dei media. Questa guerra senza fine è di fronte ai nostri occhi e non possiamo far finta di non vederla. Tra le varie considerazioni finali Pappé ritiene che «la soluzione dei due Stati, ovvero l’idea principale alla base del cosiddetto processo di pace, è fallita miseramente. Di fatto non è più praticabile, data la presenza di 700.000 coloni ebrei in Cisgiordania e lo spostamento dell’intero sistema politico israeliano a destra, che non farà che intensificarsi dopo i fatti del 7 ottobre 2023. Non può funzionare anche perché le sue premesse logiche e morali sono errate. Si applica solo a una piccola porzione della Palestina (22 per cento) e solo a una parte del popolo palestinese. Una vera soluzione deve affrontare i problemi dei rifugiati palestinesi e della minoranza palestinese all’interno di Israele. Questo si può fare solo nell’ambito di una soluzione democratica a uno Stato in cui tutti, palestinesi o israeliani, godano di pari diritti e abbiano libertà di movimento in tutta la Palestina storica».
Ilan Pappé
Brevissima storia del
conflitto tra Israele e
Palestina
dal 1882 a oggi
Fazi Editore, p. 140, euro 15.