di Axel Famiglini
A più di sette mesi dall’inizio dell’invasione russa, la possibile evoluzione della guerra in corso nel sud e nell’est dell’Ucraina appare sempre più incerta e drammatica.
Contrariamente a quanto preventivato inizialmente dal Cremlino, l’esercito ucraino ha saputo opporre una tenace resistenza alla prima offensiva delle truppe di Mosca, trasformando un conflitto che, secondo Putin, sarebbe dovuto durare pochi giorni in uno scontro che vede ora le forze di Kiev avanzare sul terreno mentre quelle russe si stanno dimostrando sempre più in affanno ed in difficoltà.
Appare evidente che accanto all’indiscutibile eroismo che l’esercito ucraino ha coraggiosamente dimostrato sul campo di battaglia, il crescente sostegno economico e militare offerto dall’Occidente e dai paesi della Nato ha saputo fare la differenza, nei fatti riducendo notevolmente il divario in essere tra le capacità belliche dell’esercito russo e quelle delle forze armate ucraine.
Inoltre le truppe russe presenti sul teatro delle operazioni soffrono di una grave carenza di soldati, fatto che non permette a Mosca di controllare in modo adeguato una lunghissima linea del fronte, costringendo di fatto i comandi miliari ad abbandonare porzioni di territorio precedentemente conquistato a caro prezzo per cercare di puntellare con miglior efficacia altre aree classificate con un livello di priorità più elevato.
La recente decisione del Cremlino di richiamare in servizio trecentomila riservisti va proprio nella direzione di tentare di ridurre questo insostenibile deficit di effettivi al fronte, oltreché di colmare in parte le ingenti perdite finora subite e di creare quelle riserve di cui in questo momento l’esercito russo ha disperatamente bisogno. L’annessione formale che la Russia ha intrapreso nei confronti di territori ucraini al momento sotto il suo controllo sta costituendo la principale base legale disponibile per Mosca per giustificare un possibile cambio di passo nella gestione dell’intero conflitto.
Trasformare le aree dell’Ucraina occupata in nuovo territorio nazionale della Russia sta infatti mettendo il governo di Putin nelle condizioni di poter potenzialmente mobilitare tutte le risorse del Paese al fine di conservare il controllo di quelle che il Cremlino oggi considera in tutto e per tutto come nuove porzioni di suolo russo da difendere ad ogni costo. Occorre in tal senso essere consapevoli che, per quanto tutto il fantomatico processo democratico ed istituzionale che sta portando all’immissione, integrale o parziale, delle regioni di Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson nella Federazione Russa rappresenti una mera farsa, sul piano formale questo costituisce per il Cremlino un indispensabile strumento finalizzato ad edificare una piattaforma legale, apparentemente solida ed ineccepibile, volta a giustificare sia sul piano interno che internazionale le future strategie belliche che Mosca riterrà utile o indispensabile utilizzare sia in Ucraina che altrove.
In tale ottica la Russia, in questo momento di grave difficoltà sul piano militare, sta innalzando fortemente il livello dello scontro, creando le premesse formali per una mobilitazione generale e per l’utilizzo delle armi nucleari. Parimenti il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 costituisce il chiaro segnale che la Russia sia pronta ad attaccare le infrastrutture dei Paesi occidentali, mettendo in pericolo in primis gli approvvigionamenti e tutto il mondo delle telecomunicazioni via cavo e via satellite.
All’inizio del conflitto la Russia, nonostante le prime evidenti difficoltà, sperava ancora di portare a termine la cosiddetta “operazione militare speciale” a buon mercato ed in un tempo ragionevole e quindi poteva tollerare che i Paesi occidentali aiutassero a vari livelli l’Ucraina, soprattutto a fronte del fatto che la stessa Mosca aveva in ogni caso il pieno interesse a mantenere in essere, pur con il limite rappresentato dalle sanzioni, i legami commerciali con l’Europa, in particolare sul fronte della vendita degli idrocarburi e, in ogni caso, in previsione di un futuro dopoguerra. Ora che l’Ucraina sembra aver acquistato un’inaspettata forza sul piano bellico grazie all’aiuto occidentale e che la stessa Europa sta via via affrancandosi dalla dipendenza dal gas russo, le carte che in precedenza erano in mano al Cremlino stanno a poco a poco venendo meno, di fatto ponendo Mosca nelle condizioni di non poter più fare finta che l’aiuto offerto a Kiev da Nato ed Europa non stia progressivamente volgendo il conflitto a proprio sfavore.
Appare in tal senso evidente che la minaccia dell’utilizzo dell’arma nucleare non costituisca più un mero spauracchio da agitare per impaurire il mondo occidentale, ma che inizi a rappresentare un elemento concreto che potrebbe materializzarsi al nostro orizzonte in relazione al progressivo deteriorarsi dei rapporti tra Russia ed Occidente e all’acuirsi della crisi militare moscovita sul terreno. Ciò che rende particolarmente preoccupante l’attuale situazione è che in Russia è in corso un processo politico-strategico ed istituzionale il cui esito finale è chiaramente rappresentato dalla legittimazione dell’uso della bomba atomica.
Il recente riferimento del presidente Putin al precedente storico rappresentato dalle bombe atomiche sganciate dagli Usa su Hiroshima e Nagasaki potrebbe essere utilizzato per giustificare un atto similare che i Russi potrebbero un giorno accingersi a compiere in Ucraina, adducendo la volontà di evitare lo spargimento di ulteriore sangue russo in quel Paese per far finire vittoriosamente la guerra. In questa fase del conflitto, con una Russia sempre più isolata rispetto ad alleati di comodo che ne notano le crescenti difficoltà, il fattore tempo gioca indubbiamente a svantaggio del Cremlino e su questo elemento l’Occidente e la Nato sperano di poter fare leva confidando che presto o tardi il regime di Putin crolli sotto il peso dei rovesci militari, delle sanzioni e di una crescente impopolarità.
Vi è in tal senso una generale convinzione in campo Nato che occorra sostenere l’Ucraina fino alla sua vittoria finale, nei fatti legittimando la politica oltranzista delle componenti nazionalistiche del governo di Zelensky che intendono pervicacemente continuare la guerra fino alla riconquista completa del territorio ucraino, Crimea inclusa.
Ai vertici del sostegno occidentale all’Ucraina sono storicamente da porsi il Regno Unito, il quale, in tale frangente, vede nel conflitto ucraino un modo per rilanciare il Paese quale attore primario sullo scenario internazionale dopo la Brexit e un mezzo per riguadagnare prestigio dopo i fallimenti patiti in Libia ed in Siria anche a causa della Russia di Putin (la cui presenza in quei Paesi non era e non è del tutto scollegata a quanto già accaduto in Ucraina con la rivoluzione del 2014) e, ovviamente, gli Stati Uniti d’America, ora desiderosi di recuperare il tempo perduto sullo scenario mondiale dopo le catastrofiche presidenze Obama e Trump e più di un decennio di declino politico e militare. Probabilmente non sapremo mai se Osama bin Laden avesse già previsto quali forze e quali mutamenti avrebbe generato l’attentato dell’undici settembre.
Sta di fatto che le sconsiderate politiche americane in Afghanistan ed in Iraq, la crisi economica del 2007-2008 e le presidenze isolazionistiche di Obama e di Trump hanno reso possibile l’ascesa di altri attori geopolitici quali la Russia di Putin proprio a seguito dei vuoti lasciati sul piano globale da un’America sempre più esausta e chiusa in se stessa. Essendo inoltre evidente che l’altrettanto irresponsabile caotico ritiro americano da Kabul ha costituito una sorta di incoraggiante luce verde per l’avvio delle operazioni russe in Ucraina, gli Americani, questa volta, sembrano intenzionati a resistere ad ogni costo mostrandosi irremovibili di fronte a qualunque ipotesi di negoziato che preveda un compromesso territoriale, essendo probabilmente dell’idea che ciò minerebbe in maniera grave ciò che rimane della loro credibilità politica, in particolare nei confronti dell’ormai nemico cinese ed in relazione alla questione di Taiwan che possiede importanti punti di contatto con la crisi ucraina.
Ci troviamo in una situazione nella quale da un lato la Russia sente di non potersi permettere una sconfitta che porterebbe alla fine del regime putiniano e a conseguenze imprevedibili per il Paese, mentre dall’altro l’Occidente e la Nato ritengono di non potersi più concedere il lusso di cedere nei confronti dell’avversario, nei fatti sposando le istanze più estreme del governo di Kiev e rendendo impossibile qualunque forma di diplomazia. La chiusura al dialogo di entrambe le parti sta pertanto accelerando le dinamiche sinistre di un conflitto che potrebbe tramutarsi in uno scontro di carattere nucleare.
Ci si potrebbe a questo punto domandare se giovi all’Europa uno scenario che rischi di condannare i suoi abitanti superstiti a vivere in un continente butterato di crateri generati da esplosioni atomiche e funestato da onnipresenti nubi radioattive. Parimenti gli Usa e la Nato si dovrebbero chiedere se un conflitto nucleare rappresenti un rischio che vale la pena correre per soddisfare appieno le proprie aspirazioni geostrategiche globali o se non sia meglio prendere atto che occorre porre un freno ad un allargamento ad est della propria sfera di influenza, limitandosi ad assicurarsi che “l’orso russo” non esca al di fuori del proprio naturale ambito d’azione. Appare evidente che la crisi ucraina necessiti di un’adeguata ponderazione indirizzata a non trasformare la guerra in corso in un disastro mondiale o, nella migliore delle ipotesi, in una mera vittoria di Pirro. Occorre in tal senso utilizzare la diplomazia e avviare una seria interlocuzione finalizzata a comprendere dove possano esserci punti di convergenza fra le parti, incoraggiando il dialogo fra coloro che sono effettivamente interessati alla pace e allontanando invece dal tavolo delle trattative le fazioni che aspirano solamente ad una prosecuzione dello scontro, traendone addirittura, in alcuni casi, profitto.
In quest’ottica, se da un lato occorrerebbe verificare se l’agenda territoriale di Kiev non sia in certa parte influenzata da una discutibile idea di “Grande Ucraina”, dall’altro risulterebbe opportuno che presso quella fetta di società russa che costituisce il nerbo del consenso al regime di Putin si diffondesse un messaggio ove fosse chiaro che una trattativa di pace non porterebbe in alcun modo allo smembramento della Russia legalmente riconosciuta a livello internazionale o ad una pesante umiliazione del Paese ma che ogni contatto diplomatico sarebbe innanzitutto guidato dal rispetto per le richieste avanzate da entrambe le parti. In tale ottica si rende opportuno instaurare un dialogo con quella parte di Russi che teme che una caduta del regime di Putin possa riportare la Russia verso la triste stagione di caos politico, istituzionale ed economico, accompagnata dal saccheggio generalizzato dei beni pubblici e delle risorse naturali, seguita al tracollo dell’URSS (la memoria corre, per alcuni, anche al più antico trattato di Brest-Litovsk), una situazione talmente critica da permettere a Putin, presentatosi alle elezioni quale novello salvatore della Patria, di diventare il nuovo “Zar di tutte le Russie”, un fatto che le potenze occidentali avrebbero dovuto tenere maggiormente in considerazione al tempo visto che da una miope e sconsiderata gestione della sconfitta dell’avversario possono nascere mostri come notoriamente accaduto nella Germania di Weimar. In conclusione ciò che si rende necessario fare, come recentemente affermato da Henry Kissinger, è tornare alla diplomazia ed evitare che il vortice della guerra trascini il mondo intero nel baratro del conflitto atomico. L’azione politica deve innanzitutto essere guidata da un sano realismo e per questo fine l’Europa dovrebbe innanzitutto chiedersi dove risieda il suo vero interesse, abbandonando certi toni bellicistici che, più che altro, appaiono surreali e ridicoli dal momento che non sono neppure supportati da forze militari sufficienti a sostanziare coi fatti il livello roboante della retorica utilizzata.
L’Europa deve assumere un ruolo di primo piano nel processo negoziale, evitando che l’obliquo regime di Erdogan possa intromettersi in seno ad un dialogo diplomatico che richiede chiarezza tra le parti e non ambiguità legate ad agende geopolitiche microbiche di ben scarso respiro.
L’Ucraina va aiutata nel concludere questo conflitto e va affiancata nella ridefinizione di un confine che in modo veramente democratico individui una linea di demarcazione che escluda dal territorio di un futuro membro dell’Unione Europea quale è l’Ucraina stessa qualunque germe che possa produrre negli anni a venire un nuovo scontro militare con la Russia.
A sua volta la Federazione Russa dovrà accettare il chiaro desiderio di libertà del popolo ucraino ed il suo allontanamento dalla sfera di influenza russa verso una condizione di sostanziale neutralità militare ma di adesione ideale ai valori del mondo occidentale.
La Russia, se saprà accettare una pace condivisa, potrà in ogni caso rivestire un ruolo di interposizione ed intermediazione fra Cina ed Europa in un contesto mondiale nel quale Pechino sta assumendo un crescente ruolo di stampo imperiale a livello globale, il che rappresenta una minaccia non solo per il mondo occidentale ma anche per la tenuta della Russia stessa sia dal punto di vista politico-economico che territoriale.