La storia dell’arte visiva, non meno di quella della letteratura, della musica, e delle “arti” tutte, è fatta di canoni. Chi non venga inserito in essi, vuoi perché i loro estensori uniscono – come sempre accade – l’arroganza e l’ignoranza (le quali, proverbialmente, “vanno a braccetto e non a distanza”), vuoi perché le ideologie che tali canoni impongono sbarrano ex ante ad alcuni l’inclusione in essi, viene, di solito, etichettato con l’odioso stimma di “minore”.
Ogni tanto, però – e occorre dire sempre più spesso, e soprattutto per l’arte contemporanea – critici e curatori audaci, còlti e intelligenti, ripropongono all’attenzione figure di artisti che hanno sofferto, magari, di diecine di anni di oblio. Periodi così lunghi sono prodromici, di solito, all’oblio sempiterno. Di solito, non sempre.
Felicemente, la piccola Collesalvetti, modesta collina come da nome appollaiata presso Livorno, da cui si domina, però, gran parte della Toscana “nobile”, quella superba di cipressi, vette, ville, olivi e piane (borgo d’inquietante, di difficile bellezza, di maestosi e misteriosi edifici abbandonati) dedica ad un fiorentino, Raoul Dal Molin Ferenzona, una mostra discreta, ma pienamente centrata e godibilissima.
“Enchiridion Notturno. Un sognatore decadente verso l’occultismo e la teosofia” (fino al 15 marzo 2025 a Villa Carmignani, via Garibaldi, 79, ingresso gratuito tutti i giovedì, sabato e domenica ore 15.30 – Catalogo Silvana).
Francesca Cagianelli, che insieme a Emanuele Bardazzi ha realizzato l’evento, si distingue, tra i curatori italiani, per l’originalità delle scelte e degli allestimenti, nonché per la conoscenza di figure, per l’appunto, solo apparentemente “minori”, sia di artisti sia di curatori, si pensi al solo Francesco Grubicy, che fece conoscere al mondo, con attività instancabile il Divisionismo italiano, esaltato in un celebre Salon des Peintres Divisionnistes Italiens, nel 1907, appendice sorprendente del Salon d’Automne.

Quattro sale, ottanta opere, una prima sala dedicata agli “anticipatori” dell’arte mistico-erotica, sensuale, notturna di Raoul, tra i cui spicca, a parere di chi scrive, il belga Felicien Rops, morto nel 1898, figura centrale non solo del mondo parigino, ma del decadentismo e simbolismo europei (movimenti che interessarono anche, ampiamente, il mondo dell’Europa orientale).
Raoul fu protagonista della stagione successiva a quella di Rops, da cui lo divideva una generazione, o quasi. Dedito ad alcol, forse alle droghe, debolissimo di nervi, visse, da errante, un’esistenza “against all odds” alquanto lunga, che s’aprì a Firenze nel 1879 e si chiuse a Milano del 1946. Venti anni dopo, dramma nel dramma di una vita, molte sue carte sparirono nell’alluvione fiorentina. Fu figlio dei tempi suoi, conquistato da D’Annunzio – l’”accaparrante” per eccellenza, secondo la cacofonica ma efficace definizione di Gianfranco Contini – nato sotto il segno della tragedia, e vissuto di conseguenza.
Il padre fu un monarchico accesso, acerrimo nemico di Garibaldi, assassinato l’anno della sua nascita, anzi, tristemente, qualche mese prima che Raoul vedesse la luce. Una vita fatta di malessere, scarso successo, amori falliti, spostamenti: i viaggi per l’Europa, gli incontri, la tensione verso una fama che gli arrise ben poco, sia nella letteratura, ove iniziò a cimentarsi con una novella pubblicata a poco più di venti anni da un piccolo editore di Palermo, seguita, nel 1907, dalle prose artistiche di Sensuali e sensitive, sia – con qualche spiraglio di luce nei tardi anni Venti – nella carriera pittorica. Certamente le opere letterarie non lasciarono il segno. Forse lievemente più incisivo fu, del 1912, La Ghirlanda di Stelle, una combinazione di poesia e prosa e disegni, con donne estremamente inquietanti, davvero d’annunziane, ammaliatrici e con pretesa di santità, splendidamente rese, come poi sempre nell’artista, nella loro duplice, conturbante natura. La Madonna e la Prostituta, un estremo e l’altro. Come nella sua personalità, con sottili punte erotiche, e profonde ascesi spirituali, e non comuni nozioni di misticismo (d’ogni mistica, perfino quelle arcaiche). Una su tutte spicca, delineandone la profonda religiosità “tradizionale”: la Vita di Maria: Opera mistica in dieci acqueforti originali a colori, pubblicata a Roma, nel 1921.
A Livorno – e forse si spiega così la scelta di Collesalvetti –, egli frequentò il celebre Caffè Bardi, quello di Modigliani. Si formò negli anni in cui spesso la follia accompagnava la poesia, e le arti: e soprattutto in Toscana (ma non solo in essa, naturalmente). Si pensi a Dino Campana – che fatica anche per il poeta dei “Canti orfici” sia ottenere l’apprezzamento dei contemporanei, sia vedersi concessa l’entrata, assai tardiva, nei canoni, e perfino dunque nei manuali scolastici –; e si pensi, in ambito pittorico, a ad una personalità assai singolare con cui Raoul entrò in contatto, Giuseppe Viner, nativo di Serravezza, fotografo, disegnatore, sodale di quel geniale (dimenticato) compositore che fu Edgardo del Valle del Paz. Viner fu forse il maggior cantore, col pennello, della marmorea, tragicamente grave, talora greve poesia delle Apuane. Ricorre quest’anno il primo centenario della sua morte. Per suicidio.

Si narra che furono i cavatori con cui era in costante contatto ed amicizia, a trasportare a braccia il cadavere fino a Seravezza. Li aveva eternati in opere che meriterebbero anch’esse una riscoperta.
Dal Molin Ferenzona ci conduce nei labirinti di una mente instabile, ma attivissima, nei meandri della pittura “rosacruciana”, nelle anfibolie e nei culti teosofici, che rende in pittura e prosa, in costruzioni arditissime, geometriche. Si addentra in essi ben più di quanto non facciano i suoi modelli letterari, D’Annunzio compreso. Le sue pitture maggiori sono selve di simboli. Che poi magari entrano nella dimensione “pratica” degli ex-libris, di cui fu maestro. L’Ottocento dei Preraffaelliti, ma anche di quel genio precoce, e dalla vita brevissima, che fu Aubrey Vincent Beardsley, fu, come si è detto, il suo punto di partenza. Prodigiosa la produzione di quest’ultimo, se consideriamo che si spense a neanche ventisei anni, in luogo apparentemente solare, Mentone, tra Francia e Liguria, di una delle malattie più tipiche del tempo, la tubercolosi. Ma non prima di essersi convertito al cattolicesimo.
I mistici, alla fine, sembrano tutti confluire nella “Mater Ecclesiae”.
Raoul è molto attento a tracciare una propria genealogia artistica, che arriva, tra quelli che sorprendentemente egli chiama ad un certo punto “contemporanei”, a William Blake, quasi naturalmente (Blake morì nel 1827). Per poi toccare D. G. Rossetti. Ma alla fine egli intende collocarsi in una tradizione per eccellenza italiana, e allora risale a Raffaello, punto di arrivo e partenza proprio, esplicitamente, per i Preraffaelliti. In piena decadenza, Raoul si sente erede del pieno Rinascimento. E il suo tratto lo mostra bene, tra mascheramenti quasi di rito, allusioni alle arti europee più varie (tra cui naturalmente Klimt). Qualche storico dell’arte di professione potrebbe anche rintracciare altri influssi, di primo acchito, “en amateur”, penserei a Lawrence Alma Tadema. Nessuno di costoro però possedeva una conoscenza dell’Esoterico qual fu quella di Raoul.
Nella storia anche letteraria, e non solo artistica, del proprio Paese, Raoul trovava ampi punti di riferimento, forse prima di recarsi altrove. In piena guerra – mondiale e civile, per noi –, ovvero nel 1944, illustra l’edizione Giannini degli “Idilli” di Leopardi. Lo spirito dell’infelice genio di Recanati è còlto molto meglio da Raoul, rispetto – a tacer d’altri –, a quanto abbia fatto un Ernesto Treccani, che si cimentò più tardi, con scopi eminentemente commerciali, con la medesima impresa.
Alcuni dei libri scritti o anche soltanto illustrati dal Ferenzona sono esposti qui. Poco dopo Leopardi, in data incerta. aveva felicemente illustrato altra anima alla propria affine, Paul Verlaine (L’amour et le bonheur, Milano, Giovene, preziosa edizione in 500 copie numerate).
In tempi di globalizzazione – per concludere con un accenno d’apertura prospettica – vedere e guardare Ferenzona ci conduce in mondi altri, non solo della psiche, più o meno turbata che sia, propria e dei suoi Maestri. Se in Europa aveva saputo anticipare mode tendenze (ad esempio la riscoperta di Bruges, ben degna di apparire in un “addendum” ideale alle città del silenzio dannunziane – e qui ispiratore è il suo contemporaneo, non meno introverso James Ensor) – egli s’era anche, con la fantasia, recato assao spesso in Estremo Oriente. Splendido il piccolo libro d’arte Motivi indiani: sette punte d’argento colorate (Bern, Rudolf Suter Buch Binderei, 1918). Ed anche il rarissimo volumetto successivo, Zodiacale: opera religiosa: orazioni, acqueforti, aure (Roma, Ausonia, 1919), che ha attirato recentemente l’attenzione di Andrea Scarabelli, giovane studioso di Evola. Il quale mise approfonditamente in luce il rapporto di Ferenzona con Evola stesso, con i rosacruciani, ed in generale si interessò alla personalità del Ferenzona, auspicandone, già nel 2016, una riscoperta.
Il saggio di Scarabelli si trova online:
https://www.bietti.it/lo-zodiaco-ermetico-di-raoul-dal-molin-ferenzona/
Questa bella, preziosa mostra è destinata a rimanere dunque punto fermo negli studi e nella valorizzazione del personaggio. L’immenso réservoir del Novecento italiano – quando si metta il naso fuori di mesti e triti canoni – ci offre, di continuo, folgoranti sorprese.
E ci apre a mondi complessi, i misteri eleusini di un secolo irrisolto.
Un ringraziamento a Maria Chiara De Martino, che mi è stata guida nella visita.
Le foto sono tutte di P. L. Bernardini
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