Sembra che il nostro continente sia una barca scossa da flutti che rischiano di sommergerla e farla scomparire, se non ritrova una sua rotta e una sua unità d’intenti. Paolo Rumiz compone un libro-poema in cui dei moderni Argonauti compiono un viaggio antico su un vascello secolare, nelle profondità dei miti che hanno dato origine all’Europa, ormai immemore di quello che è stata e dovrebbe tornare ad essere.
Chi siamo?
Evropa è una splendida giovane in fuga dall’orrore e dalla morte, ma anche l’incarnazione della fanciulla amata da Zeus che, sotto le spoglie di un toro, la rapirà e feconderà, e che infine darà il proprio nome al continente ad ovest della Grecia. Il viaggio parte dal Libano e termina in Italia dove la fanciulla, cambiato il suo nome in Europa, fa perdere le proprie tracce per dare origine a una nuova stirpe che popolerà il continente, sottolineando come la nostra civiltà nasca dalla fusione di culture diverse. Il viaggio del Moya non è soltanto mitologico ma si sovrappone a quello reale di chi fugge dai conflitti e, dopo aver perso tutto, sogna di approdare in una terra ospitale che gli offra un futuro degno di un essere umano. Il paradiso agognato dai fuggiaschi viene però descritto in termini crudi (e realistici) come molto diverso dalle aspettative. “La politica era un letamaio e la guerra non era solo morte, ma morte provocata da un sondaggio, da uno sbalzo dei tassi, da notizie false propalate con furbizia. Eguaglianza, fraternità, progresso, libertà, gioventù: solo parole”. La terra della speranza è protetta da “cavalli di Frisia, alzati in nome della fede” per crocifiggere “i poveri Cristi”. Un chiaro riferimento alle politiche anti-immigrati di nazioni europee come Polonia e Ungheria.
Mentre solca le acque chiare dell’Egeo, uno dei marinai osserva che sul fondo del mare si
disegna un “arcipelago d’ombre” che, all’inizio, sembrano immondizie alla deriva ma sono i corpi dei bambini naufragati che vagano “in un banco taciturno come stracci buttati alla rinfusa erano ‘oltre’, e già ci guardavano con occhi come bolle di sapone”. A questa immagine che, purtroppo, appare spesso nei nostri notiziari, si affianca quella di un “caicco affollato di stranieri che risero vedendoci armeggiare sporchi di olio nel vano motore. La bocca piena di sandwich, la massa abbaiava sguaiati monosillabi. Sun, Eat, Drink, Fun. L’agitarsi di culi metteva in scena il requiem per la Grecia sopra la bara dei bimbi caduti”. L’autore commenta poi questo orrore dicendo: “Occidente, che sai pagar salato governi innominabili e camorre purché gli ultimi restino nel fango! Vecchio Occidente, e il tuo onore perduto già a Kabul, a Srebrenica e sul mare! E tu, alleanza stellata, zimbello che oggi hai preso il nome del disprezzo!”. La Grecia, culla della civiltà occidentale, sembra aver dimenticato la sua grandezza passata e si accorge di essere corrosa da un demone che le ha profanato l’anima. “Il vecchio dio del Pireo era il Caos era un formicolare di termiti, la sua acropoli laidi magazzini ma i ‘ragazzi’ cantati da Melina più non c’erano. Tutto era cambiato. Ora regnavano scritte in cinese e polizie in giubbotto anti-proiettile. Nessuno più contestava il potere”.
Paolo Rumiz
Canto per l’Europa
Feltrinelli, pag. 256, euro 17
Galliano Maria Speri