La sconfitta del nazi-fascismo durante la Seconda guerra mondiale fu determinata dall’enorme superiorità dell’apparato produttivo degli USA. Dopo decenni di liberalismo sfrenato e finanziarizzazione dell’economia le infrastrutture industriali americane sono in condizioni disastrose mentre quelle cinesi continuano a consolidarsi e rappresentano la base di un riarmo di dimensioni colossali. Pechino sta anche facendo enormi progressi in tutti i settori degli armamenti, in particolar modo nella marina militare che ha superato quella statunitense ed è diventata la più grande al mondo. In questo contesto ci sarebbe bisogno della massima coesione dell’Occidente ma Trump, oltre a essere totalmente divisivo per gli USA, si è schierato con Mosca sulla questione ucraina e sta attaccando pesantemente tutti gli alleati della NATO. Non sembra essere la strategia più efficace per contrastare il riarmo cinese.
Gli studiosi e gli analisti di questioni strategiche non hanno una visione univoca su quali siano le vere finalità della Cina. Qualcuno ritiene che Pechino abbia ambizioni globali, mentre altri sostengono che agisca soprattutto a livello regionale. Secondo alcuni il Dragone ha un piano coordinato di cento anni, mentre altri lo ritengono opportunista e soggetto a commettere gravi errori. Ma non dobbiamo dimenticare che chi governa è il Partito comunista cinese (PCC), una struttura nazionalista impegnata nel ricollocare la Cina nella posizione che le spetta nell’ordine globale. Come istituzione leninista con una struttura centralizzata, il partito possiede la capacità di mettere in atto un piano strategico a lungo termine, e riesce a far prevalere gli interessi nazionali su quelli locali. Molti osservatori fanno inoltre notare che, dopo il prodigioso sviluppo cinese, lo stesso partito che accettava obtorto collo l’alleanza con l’Unione Sovietica durante la Guerra fredda, tollererà molto difficilmente un ruolo subordinato all’interno di un ordine americano.

Tra coloro che ritengono che la Cina stia apertamente puntando all’egemonia globale c’è il giornalista e saggista Evan Osnos che il 13 gennaio 2020 ha scritto sul New Yorker che la Cina «si sta preparando a plasmare il XXI secolo nello stesso modo in cui gli Stati Uniti hanno plasmato il XX». Ma, forse, è ancora più importante l’intervista che Lee Kuan Yew, il leader visionario che diede vita a quella che è la moderna Singapore, concesse alla rivista The Atlantic il 5 marzo 2013. Alla domanda esplicita se Pechino avesse intenzione di spodestare gli USA dalla loro posizione in Asia e nel mondo, il padre-padrone di Singapore rispose: «Certamente, perché no? Grazie a un miracolo economico una società povera è riuscita a diventare la seconda economia del mondo … ed è sulla strada per diventare la prima». Il padre-padrone di Singapore continuò poi dicendo che la Cina vanta «una cultura di 4000 anni e ha una popolazione di un miliardo e 300 milioni di persone, una base vastissima da cui trarre i migliori talenti. Come potrebbe non aspirare al primato in Asia e nel mondo?». Se non vogliamo prestare fede alle parole di Lee Kuan Yew (un personaggio che conosceva personalmente i massimi leader cinesi), basta analizzare l’espansionismo di Pechino nei mari su cui si affacciano sia la Cina che molti altri Paesi per dedurre che c’è una differenza abissale tra gli slogan pacifisti ufficiali e la politica fatta sul campo.
Militarizzazione del Mar Cinese Meridionale
Il Mar Cinese Meridionale (MCM) è una via marittima di primaria importanza. La Conferenza sul commercio e lo sviluppo dell’ONU ha stimato che nel 2016 oltre il 21 per cento del commercio globale ha solcato quelle acque. Il MCM ha un’importanza vitale per la Cina visto che vi transita il 64 per cento del suo commercio via mare. L’area è ricca di petrolio e gas ma anche di pesce, tanto che circa la metà dei pescherecci del mondo opera in quel mare. Oltre alla Cina il MCM bagna Taiwan, Filippine, Malaysia, Brunei e Vietnam. I numerosi isolotti dell’area hanno un notevole valore strategico e da decenni ci sono aspri contenziosi sul loro possesso. La Cina reclama la porzione più vasta di questo territorio grazie a una mappa redatta nel 1947 e chiamata “dei nove tratti”. Questi tratti delimitano la quasi totalità dell’area, anche a centinaia di miglia dalle coste cinesi, e Pechino sostiene che le sue rivendicazioni siano sostenute da ragioni storiche, cosa negata categoricamente dal Vietnam e dalle Filippine.
Nel 2013 le Filippine hanno presentato un ricorso alla Corte Permanente Arbitrale dell’Aja, denunciando la totale inconsistenza delle argomentazioni cinesi. Nel 2016 la Corte ha sentenziato che la Cina non ha alcun diritto storico sulle isole del Mar Cinese Meridionale e che gran parte delle aree rivendicate da Pechino sono in realtà acque internazionali. Di fronte a questa sentenza Lu Kang, portavoce del Ministero degli Esteri cinese, ha dichiarato che l’arbitrato non è valido. «Non riconosciamo questa sovranità fin dall’inizio – ha detto il portavoce- e non la riconosceremo ora. Non daremo nessun seguito a questa decisione della Corte Permanente Arbitrale che per noi non ha alcun tipo di valore legale o vincolante». La sentenza è inappellabile ma i giudici non hanno alcun mezzo per farla rispettare.
Il Vietnam contesta le argomentazioni storiche della Cina sostenendo che le pretese di sovranità non sono mai state formulate prima degli anni ’40 del secolo scorso mentre rivendica che le isole Spratly e Paracel sono state governate dal Vietnam dal XVII secolo. Gli Stati Uniti hanno dichiarato di essere neutrali rispetto alle varie dispute ma continuano a solcare quelle che ritengono acque internazionali per difendere il principio della “libertà di navigazione”. Il vero problema è che Pechino, una volta sconfessato dalla corte dell’Aja, è passato alla politica del fatto compiuto e ha intensificato la sua campagna di militarizzazione degli isolotti contesi, a volte solo dei grandi scogli. La Cina si è impossessata di diversi isolotti, ha realizzato piste di atterraggio e moli per l’attracco di navi militari e civili dotando le aree occupate di sistemi missilistici antinave e antiaereo, laser e apparecchiature di disturbo delle comunicazioni. Ha inoltre dichiarato le acque intorno agli isolotti occupati abusivamente come territorio cinese, intimando a tutti i Paesi dell’area di non avvicinarsi per evitare di essere attaccati.
Scontri sempre più frequenti
Il 21 marzo 2022 l’ammiraglio John C. Aquilino, allora comandante della flotta statunitense dell’Indo-Pacifico, dichiarava all’Associated Press che le azioni ostili erano in contrasto con le affermazioni di Xi Jinping che si era impegnato a non trasformare in basi militari le isole artificiali che si trovano in acque contestate. «Negli ultimi vent’anni -ha detto l’ammiraglio- abbiamo assistito al più grande riarmo dalla Seconda guerra mondiale da parte della Repubblica popolare cinese e questa massiccia militarizzazione destabilizza la regione». Le azioni cinesi dimostrano chiaramente che Pechino intende trasformare il Mar Cinese Meridionale in un lago cinese, soggetto alla sua “indisputabile sovranità”. Ma l’interesse principale non è rivolto alle ricche risorse energetiche o alle riserve ittiche: quest’area sta diventando una zona difensiva chiave per Pechino come è dimostrato dalle attività sempre più intense di “pescatori militarizzati” chiamati anche “omini blu” che operano in quelle acque, a volte col sostegno della marina militare cinese, e affrontano con grande aggressività le imbarcazioni degli altri Paesi rivieraschi.
Ci sono stati scontri ripetuti con i vietnamiti e con i filippini. Nel 1974 la Cina occupò le Isole Paracel, controllate dal Vietnam, uccidendo 70 militari vietnamiti. Nel 1988 ci furono altri incidenti alle Isole Spratly che causarono la morte di circa 60 marinai di Hanoi. Nel giugno del 2019 Manila denunciò che un peschereccio cinese aveva speronato e affondato una nave da pesca filippina con 22 marinai a bordo. I marinai filippini furono soccorsi da imbarcazioni del Vietnam. Un incidente simile si è verificato il 20 agosto 2024 nei pressi di Sabina Shoal, un atollo nel nord-est delle Isole Spratly rivendicato dai filippini sulla base del diritto internazionale e della vicinanza alle loro coste. Questa minacciosa politica navale è sostenuta dal potenziamento e modernizzazione della Guardia costiera cinese, cresciuta fino a diventare la più grande al mondo. Oltre alle funzioni classiche, la guardia costiera affianca spesso i pescherecci cinesi che diventano sempre più aggressivi.
Il 4 gennaio 2025 Pechino ha inviato sul Second Thomas Schoal, un attollo appartenente alle Filippine ma rivendicato anche dalla Cina, una mastodontica unità della propria guardia costiera, più grande di qualsiasi cacciatorpediniere della marina statunitense, armata di cannoni e con capacità di stoccaggio di carburante che le consentono missioni prolungate. L’unità cinese, la più grande di quelle in dotazione a Pechino, è lunga 160 metri ed è indicata con la sigla Ccg-5901. L’imbarcazione ha manovrato nell’area compresa all’interno della Zona Economica Esclusiva di Manila, seguita attentamente dalla guardia costiera filippina che però non può fare affidamento su mezzi così grandi e potenti. Con questa mossa Pechino non fa altro che segnalare ancora una volta la sua intenzione di rivendicare il 90 per cento dell’area. Una politica così aggressiva da parte del Dragone ha però avuto come conseguenza il riavvicinamento di Manila a Washington. Nell’aprile 2023 il presidente Ferdinand Marcos ha concesso alle forze statunitensi l’accesso ad altre quattro basi in territorio filippino, suscitando le vibrate proteste di Pechino.
La più grande marina militare del mondo
Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979, la CIA addestrò, finanziò e armò

diversi gruppi di fanatici islamisti per usarli contro i militari di Mosca. Tra di loro si distinse un certo Osama bin Laden e, con il senno di poi, possiamo affermare che quella operazione della CIA si ritorse drammaticamente contro gli Stati Uniti e l’intero Occidente. Anche l’apertura verso la Cina, condotta dal presidente Richard Nixon e dal suo segretario di Stato Henry Kissinger, aveva una valenza antisovietica e diede un contributo fondamentale per innescare quel complesso processo che ha trasformato la Cina da Paese arretrato a grande potenza mondiale che sfida apertamente gli Stati Uniti. Nel novembre 2011 l’amministrazione Obama annunciò la sua strategia denominata “Pivot to East Asia” che privilegiava quell’area che, per motivi demografici, economici e geostrategici stava diventando trainante nella realtà globale. L’attuale amministrazione Trump ha fatto un ulteriore passo in quella direzione decidendo di schierarsi addirittura con Mosca sull’invasione dell’Ucraina e chiudere quanto prima la guerra in Europa, in modo da potersi concentrare sulla minaccia rappresentata dalla Cina.
Lost Decade: The US Pivot to Asia, un libro del 2024 di Robert Blackwill e Richard Fontaine, sostiene che per un decennio quella linea politica sia rimasta lettera morta ma è un dato di fatto che da diversi anni molti centri studi pubblicano analisi preoccupate sul pericolo rappresentato dalla crescente potenza militare cinese. Alcuni saggi elaborano uno scenario preoccupante in cui il gap tra il potenziale militare statunitense e quello cinese si riduce sempre di più e fa scorgere, in prospettiva, una vittoria militare di Pechino. Sorge però il sospetto che la finalità sia quella di impaurire l’opinione pubblica americana e ottenere forti aumenti negli investimenti della difesa. I dati dimostrano però che negli ultimi vent’anni la base produttiva statunitense si è fortemente ridotta e gran parte della produzione è stata esternalizzata, soprattutto in Cina. Oggi si sta correndo ai ripari ma la tendenza non può essere invertita nel breve periodo, considerando anche che la presidenza Trump è estremamente divisiva e riesce a mobilitare soltanto i propri sostenitori.
Uno studio che fa il punto sulla situazione è stato pubblicato nel marzo del 2024 dal Center for Strategic and International Studies (CSIS) di Washington ed è intitolato Rebuilding the Arsenal of Democracy. The U.S. and Chinese Defense Industrial Bases in an Era of Great Power Competition (Ricostruire l’arsenale della democrazia. Le basi industriali per la difesa di USA e Cina in un’era di competizione tra grandi potenze). Il rapporto ritiene che il settore industriale della difesa statunitense sia molto carente in termini di capacità produttiva, flessibilità e potenzialità di sviluppo ulteriore mentre il settore equivalente in Cina opera già in un’ottica di economia di guerra. Negli ultimi anni Pechino ha potenziato la propria industria bellica (anche con importanti ricadute nel settore civile) tanto che tra i primi dieci produttori di armamenti al mondo ci sono quattro imprese cinesi che, con la China North Industries Group Corporation Limited e la Aviation Industry Corporation of China occupano la prima e la seconda posizione e sono in grado di produrre armamenti avanzati nel settore terrestre, marittimo, aeronautico e spaziale.
È stato calcolato che negli ultimi trent’anni Pechino abbia indirizzato verso la difesa il 2 per cento del suo Pil, ma dobbiamo ricordare che sia il Pil che le spese per la difesa sono cresciute nove volte nel periodo indicato. Nel 2024 la Cina ha aumentato il proprio bilancio della difesa del 7,2 per cento e sta facendo imponenti investimenti nel settore delle munizioni e nei sistemi d’arma avanzati con una velocità superiore di quattro o cinque volte a quella degli USA. Il dato più impressionante (e su cui non ci sono discordanze tra le varie fonti) sono i grandi progressi nella cantieristica tanto che la Cina è ormai il più grande costruttore di navi del mondo, con una capacità che è grosso modo 230 volte superiore a quella americana. Secondo fonti della marina statunitense il solo cantiere di Jiangnan, uno dei più grandi nel Paese, ha una capacità produttiva maggiore di tutti i cantieri statunitensi messi insieme.
Uno studio del 5 giugno 2024 (Unpacking Chinas’s Naval Buildup, di Palmer, Carrol e Velazquez) riporta che la Cina possiede la più grande marina militare del mondo con 234 navi da guerra, rispetto alle 219 della Marina militare USA e la cifra non include 80 pattugliatori armati di missili. È vero che gli Stati Uniti hanno ancora una superiorità qualitativa perché possono contare su 11 portaerei e su 9 portaelicotteri mentre la Cina ne ha, rispettivamente, soltanto 2 e 3. Per quanto riguarda i sottomarini, entrambi i contendenti ne hanno 52, ma quelli statunitensi sono tutti nucleari mentre la Cina ne ha 46 diesel e soltanto 6 nucleari. Ma la superiorità quantitativa fornisce un vantaggio importante durante una guerra. Un saggio del 23 gennaio 2023 dell’U.S. Naval College firmato dal capitano Sam J. Tangredi afferma che le grandi flotte hanno vinto 23 battaglie storiche su 28. Al pari dei combattenti storici, la Cina ha i numeri per assorbire più perdite rispetto agli Stati Uniti e continuare la battaglia. In una recente simulazione di guerra navale Pechino ha perduto 52 grandi navi da combattimento rispetto a un numero tra 7 e 20 delle equivalenti unità americane. Ma anche dopo tali perdite catastrofiche la Cina aveva ancora più navi dell’avversario ed era in grado di proseguire la battaglia. (continua)
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