di Axel Famiglini
“Per gli uomini saggi”, egli disse, “vincere è sufficiente:
desiderare di stravincere può anche condurre
a qualche conseguenza spiacevole”.
Procopio di Cesarea, “La guerra gotica”
Ad ormai un anno dall’attacco di Hamas contro Israele la situazione in Medio Oriente appare sempre più complessa e priva di una reale via d’uscita. I tentativi di mediazione che si sono via via susseguiti nel corso del tempo sono tutti miseramente naufragati a fronte del mancato reale desiderio delle parti di pervenire ad una conclusione pacifica del conflitto. Se da un lato il governo di Netanyahu non sembra al momento disponibile ad alcun reale accomodamento, ben conscio di quanto il proseguimento della guerra vada di pari passo con la sopravvivenza dell’attuale esecutivo e la serenità del primo ministro in campo giudiziario, dall’altro i Palestinesi mantengono una linea altrettanto intransigente a fronte di uno scenario internazionale che forse fa loro reputare di poter tentare questa volta il tutto per tutto, presumibilmente ritenendosi, in tale frangente, sostenuti seriamente da potenze politico-militari di peso. L’opera di mediazione offerta da Egitto e Qatar si è rivelata del tutto inefficace e ciò per il semplice fatto che questi, come altri soggetti internazionali intervenuti sul piano diplomatico nel corso del tempo, fra cui la Turchia, non rappresentano una parte terza nello scontro in atto ma meri attori geopolitici che, in varia misura, traggono potere, profitto e prestigio internazionale dall’influenza che questi sono in grado di dimostrare di poter esercitare nei confronti dei movimenti armati della Palestina. Gli Stati Uniti, per quanto chiedano moderazione sia agli Israeliani che ai Palestinesi, sanno bene quanto la presenza israeliana nella regione risulti fondamentale per gli interessi americani colà presenti e sono altrettanto ben consci che la politica estera di Tel Aviv in Medio Oriente coincida per la gran parte con la propria, in particolare a fronte della minaccia rappresentata dall’espansionismo iraniano e dal programma nucleare promosso dagli ayatollah. In tale ottica neppure gli Stati Uniti rappresentano una parte terza ma piuttosto un attore interessato a far sì che Israele continui ad essere in grado di tenere a bada sia Hamas che gli altri gruppi armati regionali facenti capo all’Iran.
Inoltre il ruolo di “luogotenente” ricoperto dallo stato ebraico in Medio Oriente è essenziale per lo schema strategico di Washington nell’area, soprattutto in un momento in cui Russia e Cina vorrebbero soppiantare gli Usa come potenza egemone. Appare pertanto chiaro che i cosiddetti colloqui di pace che si sono svolti nel corso dell’ultimo anno abbiano tentato di ricomporre lo scontro in atto coinvolgendo, in verità, non dei reali mediatori ma alcune parti attive, a vario modo e titolo, nel conflitto, per le quali, escludendo ovviamente il governo americano, il denominatore comune altro non era che la relazione in essere con gli Stati Uniti. Dal canto loro gli apparati diplomatici e di intelligence di Russia, Cina ed Iran sono rimasti in contatto “dal di fuori” con i Paesi arabi più direttamente coinvolti nelle trattative, probabilmente concordando con essi alcune linee d’azione ed assumendosi l’onere di mettere i bastoni fra le ruote all’occorrenza, di fatto replicando periodicamente il muro contro muro presente sul piano militare all’interno di quello dialettico e viceversa, una pratica che ha impiegato lo stesso governo israeliano ogni volta che i colloqui non andavano nella direzione voluta. E’ inoltre da rilevare che sia Israele che Hamas, nel momento in cui il negoziato tendeva a volgere verso una soluzione positiva, abbiano sempre posto condizioni talmente radicali ed irremovibili da rendere inevitabile il naufragio di un qualunque tentativo di ricomposizione pacifica dei rapporti fra Israeliani e Palestinesi, i quali, perlomeno a livello apicale, non sono mai stati interessati ad un accordo che non prevedesse una totale sconfitta strategica per l’avversario, una proposta di intesa sicuramente irricevibile per chiunque e che garantisce per chi non ritiene conveniente la pace in questa fase il tracollo di qualunque azione diplomatica. Fatte queste considerazioni, gli ultimi eventi che hanno prodotto un ulteriore aggravamento della situazione di estrema tensione che vive la regione ormai da tempo hanno posto sotto i riflettori aspetti che appare indispensabile mettere in evidenza se si intende intravedere l’evoluzione delle dinamiche in corso. Già l’attacco iraniano contro Israele dell’aprile scorso ha posto in luce le carenze belliche del regime degli ayatollah, il quale non appare in grado di competere con l’arsenale militare e le capacità logistiche a disposizione di Israele. La morte del segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha rappresentato solo l’ultima di una lunga teoria di uccisioni eccellenti che hanno decimato i vertici politico-militari di Hamas, Hezbollah e delle forze iraniane presenti fra Siria e Libano.
L’incredibile vicenda dei cercapersone esplosi, un’operazione dai tratti cinematografici, appare altresì indicativa del fatto che Hezbollah fosse stato da tempo pesantemente infiltrato dai servizi segreti israeliani e che a livello di intelligence vi sia un abisso tra quanto possa concretamente architettare Israele e quanto potrà mai tentare di organizzare la zoppicante teocrazia iraniana. Indubbiamente la tentacolare rete informativa realizzata dai servizi segreti israeliani deve aver giocato un ruolo fondamentale nell’individuazione e sistematica eliminazione degli esponenti del cosiddetto “asse della resistenza” e gli stessi ayatollah, con Ali Khamenei in testa (per giorni addirittura nascosto in una località segreta a seguito dell’assassinio di Nasrallah), probabilmente già da qualche tempo non stanno più dormendo sonni tranquilli, in particolare da quando il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, è stato ucciso letteralmente a pochi passi dalle loro sedi istituzionali.
La stessa morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi, attribuita ad un incidente, oggi produce non irragionevoli riletture alla luce di quanto accaduto in area libanese. Le milizie filoiraniane che costellano l’attuale scenario mediorientale appaiono complessivamente poco efficaci sul piano militare. Hamas non è riuscita a trasformare Gaza in una nuova Mogadiscio anche se occorre ricordare che tale organizzazione continua tuttora ad opporre resistenza grazie ad una fitta rete di cunicoli scavata nel sottosuolo della striscia nel corso del tempo anche con il beneplacito del vicino egiziano. Hezbollah è pressato da continui bombardamenti e non sembra in grado di rispondere al fuoco dell’aviazione israeliana, per quanto rimanga ancora non chiaro quali potranno essere le capacità difensive del gruppo sciita sul terreno nel corso dello scontro con le truppe israeliane, le quali hanno appena dato inizio all’operazione di terra in Libano.
Le milizie filo-iraniane che operano in Siria ed Iraq stanno anch’esse già da tempo inviando con una certa frequenza razzi e droni sia contro Israele che nella direzione delle forze Usa dislocate nell’area, senza però causare ingenti danni. E’ invece degno di nota il fatto che gli Houthi, pur non costituendo, al momento attuale, una seria minaccia per lo stato israeliano, abbiano potuto lanciare un missile ipersonico dallo Yemen, il che potrebbe rappresentare una fonte di preoccupazione per Usa ed Israele qualora tale evento si ripetesse con frequenza. In ogni caso tale situazione mostra, complessivamente, come l’Iran ed i suoi alleati regionali siano stati messi in scacco dalla macchina bellica israeliana, naturalmente coadiuvata dagli Stati Uniti, esponendo al mondo le debolezze di un regime, quello di Teheran, che alimenta una retorica che si è dimostrata incapace di tramutarsi in realtà, ovvero trasformandosi nella classica montagna che finisce per partorire un ridicolo topolino ad ogni disperato “giro di giostra”, con crescenti ricadute negative che vanno progressivamente a logorare il prestigio del governo iraniano sia sul piano interno che su quello internazionale. Appare evidente che ogni volta che il regime di Teheran si è sentito costretto, per non perdere del tutto la faccia sia con i propri alleati che con i Paesi nemici, a rispondere militarmente in maniera diretta ad Israele, tale atto non ha fatto altro che porre in evidenza una volta di più la propria incapacità di essere all’altezza della situazione e di poter competere con Tel Aviv, gli Usa e l’intero Occidente, andando a danneggiare per l’ennesima volta quel residuo di credibilità che qualcuno a Teheran pensava invano di salvaguardare “mostrando muscoli” che in realtà non ci sono.
Ciononostante di fronte a noi rimangono numerose incognite dense di criticità. Innanzitutto ciò che l’Iran e le potenze ad esso collaterali sono in grado di continuare a promuovere ai danni di Israele è un’azione di guerriglia sul modello di quanto già organizzato a Gaza, accompagnata da un contestuale uso massiccio di missili e droni finalizzato a tenere sotto pressione le difese aeree israeliane. Non si può escludere che lo stato iraniano abbia intenzione di promuovere una serie di attacchi periodici dal cielo contro Israele sul modello di quanto già sperimentato nello scorso aprile ed il primo di ottobre. La rappresaglia promessa già da tempo da parte dell’Iran in risposta all’omicidio di Haniyeh è rimasta lettera morta fino a tempi recentissimi e ora è stata fatta convergere in un’operazione missilistica probabilmente più poderosa rispetto a quella inizialmente appena abbozzata, dimensionata in ragione del fatto che si è nel frattempo aggiunta al monte degli affronti subiti e dei caduti di rango la morte di Nasrallah. Non è inverosimile ritenere che una delle ragioni che hanno convinto gli Iraniani a lanciare il recente attacco missilistico contro Israele fosse la necessità di rispondere a chi diceva che l’Iran, dopo gli ultimi rovesci subiti, si era rivelato essere in realtà una mera “tigre di carta”. In uno scenario nel quale vige ormai indiscussa la legge del taglione, l’entità delle misure iraniane di attacco e difesa dipenderà altresì, oltreché dalle risorse a disposizione del regime, da quale anima prevarrà nell’intricato scenario politico di Teheran, ovvero se saprà imporsi la visione più moderata del presidente Pezeshkian o quella più bellicista di Khamenei. In questo senso, al di là delle dinamiche della politica interna israeliana e degli interessi privati legati al mantenimento del presente stato di guerra, risulta comprensibile che Tel Aviv abbia voluto rimarcare il rischio che Teheran, come già accaduto a Gaza, possa mettere le mani sulla Cisgiordania, un fatto che, se concretizzatosi, costituirebbe un serio pericolo per la sicurezza nazionale dello Stato di Israele, in particolare se ciò fosse accompagnato da un’unilaterale e sincronizzata proclamazione dello stato palestinese. Allo stesso modo la persistenza del gruppo sciita fondamentalista Hezbollah, da tempo presente a ridosso del confine israeliano, oltre a rappresentare una costante minaccia per lo stato ebraico e per i suoi cittadini, mina da decenni la stabilità regionale e la sovranità libanese, costituendo all’interno del Libano una sorta di corpo estraneo che la comunità internazionale non si è mai voluta seriamente impegnare ad estirpare. La pervicacia con la quale Israele ha sempre denunciato l’aberrazione insita nella stessa esistenza di Hezbollah risulta del tutto giustificata.
Oltretutto va riconosciuto allo stato ebraico il merito di essersi sempre impegnato nell’opera di contrasto alle mire egemoniche iraniane in Medio Oriente e ciò è risultato ancor più vero da quando la presidenza Obama lasciò colpevolmente campo libero a Teheran, contribuendo in maniera decisiva a porre le basi della presente situazione di crisi. Inoltre vi è un fatto che non va assolutamente sottovalutato. La Russia, benché impegnata in Ucraina, ha steso negli ultimi anni una rete di supporto militare e di intelligence nel Medio Oriente a favore, oltreché della propria strategia geopolitica, dell’Iran e dei suoi alleati. Già storicamente presenti in Siria, i Russi hanno inviato consiglieri militari in Yemen presso gli Houthi. Parimenti la Russia è entrata nel “Grande Gioco” attualmente in essere tra Libano, Hezbollah, Hamas e Gaza, sia in termini militari che di intelligence.
La già ben oliata macchina propagandistica russa sta da tempo lavorando alacremente in funzione anti-israeliana sui principali mezzi di informazione presenti sulla rete. La Russia ha tutto l’interesse che il conflitto in Medio Oriente continui ad alimentarsi e che si ricolleghi a quello in corso nell’Europa orientale. Le difficoltà che il fronte iraniano sta conoscendo in questi giorni potrebbero suggerire alla Russia un maggior coinvolgimento con il fine di riequilibrare le forze in lotta. Il rischio potrebbe pertanto risiedere in un possibile ultimatum russo finalizzato a porre un altolà alle operazioni israeliane, eventualmente rafforzato tramite l’estensione dell’ombrello nucleare moscovita sopra il territorio dell’Iran.
Nel caso in cui gli Americani scendessero in campo in modo diretto, all’offensiva a fianco di Israele, vi è il rischio che tale ultimatum venga esteso all’indirizzo di Washington con potenziali esiti calamitosi che possiamo ben immaginare. Il momento di crisi per Teheran si contrappone ad una fase di moderato ottimismo per Mosca, la quale vede avanzare le sue truppe nel Donbass ai danni di un esercito ucraino, già da tempo in difficoltà, che sembrerebbe aver fatto il passo più lungo della gamba, avventurandosi nel territorio di Kursk.
Sul piano interno, inoltre, il presidente Zelensky vive più di qualche inquietudine a causa sia di una crescente insofferenza esternata dai “malpancisti” locali per via di un potere che si sarebbe concentrato sempre più nelle sole mani del presidente che per una più generale stanchezza, emersa a livello popolare, per un conflitto di cui non si riesce ad intravedere la fine. Parimenti l’incertezza che grava sulle elezioni americane lascia spazio a pressanti dubbi su quale sarà l’attitudine degli Stati Uniti nei confronti del conflitto in Ucraina dopo le prossime elezioni presidenziali. Vi è altresì una Cina che conduce una sua agenda per il Medio Oriente, promuovendo azioni di mediazione che in realtà sono finalizzate a scalzare la presenza americana nella regione. Fra le ultime iniziative va segnalato il recente viaggio di Hamas, Al Fatah e di altri gruppi palestinesi a Pechino ove è stato firmato un accordo di unità nazionale sotto gli auspici del governo cinese. Ormai è chiaro a tutti che quanto sta accadendo in Medio Oriente vada ben oltre la semplice questione israelo-palestinese e ciò dal momento che si sta giocando una partita i cui esiti plasmeranno gli equilibri mondiali del prossimo futuro.
Si può tuttavia ritenere che allo stato attuale la Russia non spinga per un conflitto diretto tra Iran ed Israele e questo perché, oltreché risultare assai incerto l’esito per Teheran (con ovvie ripercussioni negative per Mosca nel caso di un tracollo iraniano), la Russia necessita di importare materiale bellico dall’Iran, a cominciare dai droni, per supportare la propria offensiva in Ucraina e non può tollerare che l’Iran dirotti le sue esportazioni a sostegno del proprio sforzo militare contro gli Israeliani.
Allo stesso modo non è chiaro come Russia e Cina intendano coesistere in Medio Oriente e se la Cina vorrà un giorno mettere militarmente piede nella regione in via ufficiale.
Rimane però il fatto che nel corso del tempo la potenziale saldatura tra il fronte ucraino e quello mediorientale si è fatta sempre meno evanescente. Da questo punto di vista, purtroppo, non si può affatto escludere che si giunga ad uno scontro complessivo fra Occidente e Russia più alleati che preveda l’uso di armi atomiche, un utilizzo nuovamente minacciato dal Cremlino pochi giorni or sono.
Alcuni mesi fa il presidente serbo Vučić ha rilasciato un’intervista nella quale ha dichiarato che reputava ormai imminente una grande guerra in Europa. Vučić rappresenta sicuramente una figura assai controversa, oltretutto considerato politicamente vicino a Putin. Tuttavia fra i concetti da questi espressi vi è qualcosa che comunque vale la pena di essere ponderato ovvero il fatto che nessuno parli di pace e che nessuna delle due parti reputi di potersi permettere di perdere. Egli ne conclude che lo scontro sarà inevitabile e che sarà catastrofico. E’ attualmente difficile dire chi nei fatti vincerà il presente conflitto che è iniziato ormai molti anni fa come una sorta di guerra mondiale “a pezzi” e che rischia effettivamente di saldarsi lungo una linea del fronte che dall’Europa orientale potrebbe giungere fino al Mar Rosso se non oltre in pieno Pacifico. In queste ore Netanyahu, galvanizzato dai successi ottenuti e dal conseguente crescente affanno politico dei governanti a Teheran, sta preconizzando la spallata finale contro la teocrazia iraniana e la caduta del regime degli ayatollah, di cui, nel caso, presumibilmente si vorrà assumere tutto il merito avendo questi subito ammiccato all’opposizione iraniana, sperando di pervenire ad una sorta di convergenza di interessi.
Nulla esclude, per la verità, che lo stesso regime di Putin possa, presto o tardi, cedere anche se vi è comunque un consenso interno che in Occidente spesso si tende a trascurare. E’ in ogni caso palese che nel campo occidentale la parola d’ordine, perlomeno a livello ufficiale, sia quella di sostenere l’Ucraina fino alla riconquista di tutti i territori perduti. Parimenti è altrettanto vero che la Russia abbia sempre dichiarato che il conflitto sarebbe proseguito fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi prefissati per la cosiddetta “operazione militare speciale” anche se, a tutt’oggi, non è chiaro in cosa essi realmente consistano e probabilmente questo aspetto, nel perenne divenire degli eventi, non è del tutto cristallino neppure per il Cremlino. Da parte sua il governo israeliano usa il medesimo linguaggio con riferimento alla propria campagna mediorientale. Vedremo pertanto a quali esiti condurrà questo approccio così universalmente condiviso e se il proseguimento ad oltranza delle operazioni militari negli attuali fronti caldi risulterà effettivamente essere la scelta giusta per quei soggetti che oggi si sono tramutati in convinti portabandiera della nuova stagione delle “decisioni irrevocabili”. E’ ad ogni modo evidente che qualora si intendesse un giorno parlare seriamente di pace, sarebbe in primo luogo necessario rendersi conto che per fermare i conflitti in corso non si può prescindere dal fatto che a tutti i contendenti debba essere data la possibilità di sedere al tavolo delle trattative, dato che una soluzione ricalcata sul modello di Jalta oggi rischierebbe di essere fuori dalla Storia oltreché inutile.
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