La clemenza saggia e ragionata come alternativa alla barbarie

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L’ultimo, brillante libro della filosofa e saggista Francesca Rigotti affronta con acume e argomentazioni rigorose il tema della clemenza, virtù “gerarchica” per eccellenza, con una disamina meticolosa che confronta la posizione dei pensatori classici e di quelli più vicini ai nostri giorni. Quest’aureo libretto fa parte di una collana chiamata Parole controtempo e, dato il drammatico scenario internazionale, mai parola è stata più lontana dallo spirito di questi tempi insanguinati e crudeli.

Francesca Rigotti ha insegnato nelle Università di Göttingen e della Svizzera italiana ed è molto presente nel dibattito filosofico nazionale con articoli, partecipazioni a festival e interventi televisivi e radiofonici. Tra i suoi libri Partorire con il corpo e con la mente (2010), De senectute (2018), Buio (2020), L’era del singolo (2021). Nell’introduzione, la filosofa spiega che la clemenza “verrà esaminata nella sua valenza storico-concettuale e definita attraverso immagini, metafore e coordinate antiche e moderne. L’ambizione è quella di creare un ponte tra il presente e il passato che permetta di traghettarci meglio verso il futuro, proprio grazie all’ausilio di concetti intesi come mattoni del pensiero, che si esprimono anche con parole controtempo”. A mio parere, questo testo ha una rilevanza specifica per l’Italia, costantemente preda di grandi pulsioni emotive, legate soprattutto al “particulare” e alla famiglia, agitata dalla lotta tra i cinici disincantati e quelli che sono stati grossolanamente definiti “buonisti”.

La sottile arte della politica

Rigotti chiarisce correttamente che la clemenza è la dote di chi agisce secondo equità e rettitudine e perdona, ma senza rinunciare alla giustizia. Il concetto, quindi, non equivale a

Giulio Cesare usò la clemenza come strategia politica per ottenere consenso popolare (la foto riproduce una testa-ritratto di Cesare conservata nei Musei Vaticani).

misericordia o pietà, perché non ha nulla di emotivo o passionale ma è una scelta basata sulla razionalità, da qui deriva la sua profonda valenza politica. Il testo spiega chiaramente che la clemenza non è un atteggiamento benevolo da parte del singolo, ma è un attributo e una virtù del potere e di chi lo detiene. La discussione sulla clemenza nasce prevalentemente nel mondo romano, con Cicerone che descrive nel De officiis il comportamento da tenere verso i nemici. Giulio Cesare, condottiero militare ma anche raffinato politico, pratica la clemenza non tanto per una disposizione d’animo ma come strategia tramite la quale ottenere il consenso popolare. “La politica di Cesare per uscire dalla guerra civile –scrive l’autrice- non si basa infatti sulla vendetta come nel caso delle proscrizioni di Silla: la sua strategia si ispira invece all’amnistia, alla grazia, alla clemenza”.

Anche il filosofo e politico romano Seneca, precettore del giovane imperatore Nerone, redige il De clementia, che è un esempio di speculum principis, uno specchio in cui il sovrano perfetto vede riflessa la propria immagine che, ovviamente, non potrà che essere clemente. Nell’affrontare il caso in cui il forte risparmi il debole, Seneca introduce esplicitamente il collegamento tra clemenza, sicurezza e popolarità. La clemenza “rende più sicuri”, sostiene il filosofo romano, “dimostrando che anche allora la sicurezza era una condizione assai ricercata, anche se non tanto quanto ai nostri tempi bizzarri, che sembrano disposti a sacrificarle ogni altro valore e diritto”. L’autrice ci ricorda che secondo Seneca esercitando la clemenza, “si concilia l’utile con l’onesto, l’opportuno con il buono, che è poi la tesi del De officiis di Cicerone. La clemenza eleva chi la esercita al livello degli dei, che sono benevolenti; la ferocia irosa del tiranno lo abbassa invece al livello delle belve”.

Un’analisi molto interessante riportata nel testo riguarda l’opera di Wolfgang Amadeus Mozart La clemenza di Tito, terminata pochi mesi prima della scomparsa dell’autore. L’attitudine al perdono esemplificata dall’imperatore Tito, che non persegue due cortigiani che cospiravano contro di lui, dovrebbe riflettersi quindi anche sulla dinastia degli Asburgo, illuminati riformisti e protettori delle arti. Ma Rigotti osserva che, di fatto, “la clemenza imperiale degli Asburgo rimase quella degli imperatori della dinastia giulio-claudia: una fredda e ragionata sospensione del diritto di punire il reo; una virtù esercitata per il valore della propaganda più che per una vittoria del cuore e degli intenti umanitari”. In realtà, si tratta di un’astuzia del tiranno per ingraziarsi sudditi che, presto o tardi, potrebbero ribellarsi contro il suo potere assoluto. Un atteggiamento non molto diverso da certi notissimi influencer che, pur vivendo nel lusso (molto pacchiano, d’altronde) e disprezzando le masse degli emarginati, pubblicizzano vistosamente le proprie raccolte fondi per iniziative benefiche che rafforzano la loro immagine di semidei benevoli.

Le insidie della clemenza

È ovvio che il beneficiario di un atto di clemenza non potrà che essere grato e riconoscente al potere che lo ha graziato. Ma ci sono persone che, per coerenza e amore della libertà, rifiutano un gesto di perdono che li renderebbe debitori verso un potere ritenuto ingiusto, come fece Catone l’Uticense, che preferì la morte al perdono imperiale. L’idea che un sovrano fosse il padrone della vita e della morte dei propri sudditi irritava profondamente Immanuel Kant, secondo il quale il sovrano non ha alcun diritto di perdonare crimini o offese commessi nei riguardi di altre persone. Gli stessi illuministi furono molto critici verso l’istituto della grazia. Nel suo Esprit des lois, Montesquieu aveva affermato che la clemenza è la qualità distintiva della monarchia, animata dal principio dell’onore, mentre è meno necessaria in una repubblica, il cui principio è la virtù.

Cesare Beccaria (1738-1794), riteneva che un codice adeguato, un sistema giudiziario efficiente e pene miti avrebbero reso inutile la clemenza (Il ritratto, opera di Eliseo Sala, è conservato alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano).

Cesare Beccaria ha una posizione radicale nel criticare il potere “grazioso” perché “a misura che le pene divengono più dolci, la clemenza e il perdono divengono meno necessari”. Beccaria prosegue affermando che “la clemenza dunque, quella virtù che è stata talvolta per un sovrano il supplemento di tutt’i doveri del trono, dovrebbe essere esclusa in una perfetta legislazione dove le pene fossero dolci e il metodo di giudicare regolare e spedito”. Beccaria sognava un codice preciso e onnicomprensivo che avrebbe potuto consentire, oltre alla mitezza delle pene, l’abolizione delle misure straordinarie di grazia e clemenza. Se pensiamo alla situazione delle carceri in Italia, ad esempio, ciclicamente vengono invocate amnistie che possano lenire il costante sovraffollamento che, a dire il vero, persiste da decenni senza che nessun governo abbia mai preso misure adeguate. La risposta al malessere non può essere la sola clemenza ma la buona politica.

Certamente l’atto del perdono e della remissione è positivo ma Rigotti ci ricorda che “affinché esista la clemenza, occorrono alcune condizioni: che ci siano un superiore e un inferiore, dal momento che la clemenza è asimmetrica, va dall’alto al basso, ma anche che ci siano un crimine o almeno una mancanza, e poi un colpevole, un reo più o meno assodato”. Esiste poi il caso terribile di coloro che invocano clemenza e ricevono invece una risposta brutale da parte del potere. Domenica 9 gennaio 1905 un’immensa fola di operai spinti dalla miseria e guidati da un prete raggiunsero il palazzo dello zar Nicola II a San Pietroburgo per chiedere condizioni di lavoro e di vita più decenti: la risposta fu una carneficina. Ci furono migliaia di morti e feriti, tanto che quella giornata passò alla storia come la “domenica rossa”.

Il saggio si conclude tracciando un parallelo con la situazione presente quando afferma che “l’idea e la pratica della clemenza si intrecciano con il dramma della guerra e della migrazione, spingendosi nel nostro presente. Profughi di guerra, migranti da paesi tormentati dalla miseria, dalla siccità, da governi corrotti e dispotici, che cosa sono se non hikétides, viandanti supplici in cerca di hikesía, ovvero clemenza quale accoglienza e cittadinanza?”. Nel momento in cui scrivo, in risposta all’offensiva terroristica di Hamas, gli alti comandi militari di Israele stanno organizzando ondate successive di bombardamenti sulla striscia di Gaza che hanno già fatto migliaia di morti, miliziani fanatici ma anche cittadini innocenti. A me fa piacere pensare che tra un ordine di bombardamento e l’altro, tra una rivendicazione di vendetta e un urlo di guerra, il primo ministro Netanyahu ascolti qualche scena della Clemenza di Tito e scorra questo libro per decidere se la violenza brutale e spietata, che scatenerà altra violenza brutale e spietata, sia l’unica risposta possibile. Nel Mercante di Venezia, ampiamente citato da Rigotti, Shakespeare ci ricorda che:

Lo scettro mostra la forza del potere temporale,
è l’attributo della soggezione e della maestà,
sede del timore che incutono i regnanti;
ma la clemenza sta sopra al dominio dello scettro
ha il suo trono nel cuore dei re,
è un attributo di Dio stesso;
e il potere terreno si mostra più simile al divino,
quando la dolcezza mitiga la giustizia
.

Francesca Rigotti
Clemenza
136 pag. 12 euro
il Mulino

 

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