In pochi decenni, la Cina è riuscita a realizzare uno sviluppo economico prodigioso, trasformando quello che, formalmente, è ancora un “Paese in via di sviluppo”, nella seconda potenza economica mondiale. Il Partito comunista cinese, sotto il fermo comando di Xi Jinping, detiene tutte le leve del potere politico, economico e culturale, e usa con grandissima abilità le nuove tecnologie e l’Intelligenza artificiale per controllare capillarmente la società. Pechino sta rapidamente accrescendo anche la sua proiezione internazionale e dichiara che la sua “Nuova via della seta” è inclusiva e non è contro nessuno. Un nuovo libro, scritto da Michelangelo Cocco, giornalista del Messaggero con una vasta e approfondita conoscenza della Cina, analizza anche aspetti solitamente trascurati dagli studiosi ma, alla fine, evita di porre alcune domande cruciali.
Tutto il potere a Xi
Con la sua politica di basso profilo Deng Xiaoping, la vera mente della liberalizzazione economica, seppe mettere in moto un processo che trasformò in profondità la società e innescò una crescita economica che non si è più interrotta. Tra i tanti successi della Cina post-Mao, quello conseguito nella lotta alla povertà è uno dei più straordinari. Cocco riferisce che “secondo la Banca mondiale, tra il 1981 e il 2015, 850 milioni di cinesi si sono affrancati dalla ‘povertà estrema’, crollata in questo intervallo di tempo dall’88% allo 0,7% della popolazione. Nel 2018, il reddito pro capite equivaleva a 9.770 dollari (18.236 dollari a parità di potere d’acquisto)”. Questa crescita tumultuosa è stata realizzata grazie a un processo di decentralizzazione che ha saputo stimolare al meglio le energie locali, che si sono sfidate in una competizione virtuosa. Nel 2012, però, con il passaggio del potere nelle mani di Xi Jinping, questa tendenza ha subìto un arresto perché il neoeletto segretario del PCC ha riportato di nuovo il pendolo del potere verso il centro e, poco a poco, ha iniziato a cumulare nelle sue mani tutte le cariche di un qualche rilievo.
Xi Jinping si è dimostrato molto diverso dai suoi predecessori arrivando a formulare, in modo sempre più netto, una linea strategica che rivendica esplicitamente un ruolo centrale della Cina nella politica mondiale, mostrando anche un grandissimo attivismo diplomatico visto che, tra gennaio 2013 e giugno 2019, ha effettuato 86 visite di Stato all’estero (circa una al mese), più di qualsiasi suo predecessore. Ovunque sia sbarcato, il presidente ha battuto sul chiodo della cooperazione “win-win”, quella in cui entrambi i contraenti dell’accordo guadagnano. Dopo che la crisi del 2008 ha ridotto in pezzi il sogno americano di un mondo unipolare, Pechino ha intravisto la possibilità di proporre una globalizzazione in un’ottica più egualitaria e rispettosa delle differenze, giocando ovviamente un ruolo centrale nel processo. Lo strumento con il quale riportare la Cina al centro degli interessi globali è stato denominato “Nuova via della seta”.
Per realizzare questa strategia, Xi Jinping si è reso conto che era fondamentale aumentare il
suo potere all’interno del partito, per cui ha lanciato una durissima campagna contro la corruzione, riuscendo a colpire non solo funzionari di medio livello ma anche personaggi al vertice del potere, come Zhou Yongkang, politico e imprenditore, ex ministro della pubblica sicurezza e membro del comitato permanente del politburo. La sua caduta ha lanciato un chiaro segnale per indicare che la macchina messa in moto da Xi non si sarebbe fermata di fronte a nulla. “Nei primi cinque anni di campagna –scrive Cocco-, la Commissione centrale di vigilanza sanzionò 1.537 milioni di persone, tra cui centinaia di funzionari del governo centrale. Innumerevoli sono stati i casi di suicidio di indagati. Dall’inizio del 2014 a metà 2019, i tribunali hanno giudicato 194.000 casi di corruzione, con 207.000 funzionari coinvolti. Se la storia del PCC è stata segnata da numerose ondate di repressione di un fenomeno che, evidentemente, è sistemico, quella voluta da Xi appare senza precedenti per intensità, ed è intesa come permanente”.
Il passo successivo è stato quello di mettere a tacere anche tutte le voci fuori dal coro che potevano suonare contrastanti rispetto alla linea ufficiale del partito. L’autore riferisce che “quando Xi arrivò al potere, nel paese c’erano oltre un milione di associazioni, molte delle quali non registrate, attive negli ambiti più diversi. Con una campagna senza sosta fatta di arresti di attivisti, chiusura di sedi, processi e relative condanne detentive, quelle che hanno osato criticare il governo su temi sensibili sono state tutte ridotte al silenzio. Parallelamente, il PCC ha messo in moto un progetto per inquadrare le società civile all’interno di strutture controllate dal Partito”.
Nello stesso tempo, coerente con la sua visione verticistica e accentratrice, nel febbraio del 2014 Xi ha creato l’Amministrazione del cyber-spazio che, nel giro di pochi anni, è riuscita a mettere sotto controllo l’intera rete internet in Cina. L’ex presidente USA Bill Clinton aveva profetizzato che internet avrebbe favorito la progressiva democratizzazione della società cinese, visto che il tentativo di metterlo sotto tutela equivaleva a inchiodare la gelatina al muro. Il PCC non solo ha messo il guinzaglio a internet, ma è riuscito ad attivare un numerosissimo gruppo di giovani patrioti della rete che si mobilitano ogniqualvolta qualcuno osi criticare la politica cinese, mettendo alla gogna mediatica chiunque non segua fedelmente le direttive del partito. D’altronde, gli Stati Uniti non hanno il diritto di lamentarsi, visto che “la Cina è riuscita nel duplice obiettivo di mettere la rete sotto il rigido controllo politico del Partito e, nello stesso tempo, di dar vita a un’internet ricca e in continua espansione. E ci è riuscita anche grazie alle componenti e ai software che le hanno venduto a questo scopo grandi corporation USA quali Cisco, Microsoft, Google, Skype, Yahoo”.
La grande sfida con gli Stati Uniti
Pechino è ormai lanciato in un nuovo corso, quello dell’edificazione del socialismo con caratteristiche cinesi ma che, grazie ai suoi progressi nel campo economico e tecnologico, ha tutti i numeri per porsi come riferimento alternativo agli USA. Xi Jinping è stato abilissimo nel rivalutare il tradizionale pensiero confuciano, riuscendo così a collegarsi con le radici profonde della Cina tradizionale, e mettendo a punto una nuova teoria politica in cui il marxismo viene innestato nel confucianesimo. Avendo consolidato un efficace strumento teorico, Xi Jinping ha iniziato una strategia diplomatica molto più aggressiva e ha puntato a superare il ruolo tradizionale che vedeva la Cina come officina del mondo e semplice mercato di sbocco. Oggi Pechino è in grado di sfidare Washington in molti settori avanzati come la tecnologia 5G, i supercomputer, il settore missilistico, la produzione di auto elettriche, l’Intelligenza artificiale, il riconoscimento facciale e vocale. Pechino ha segnalato chiaramente la sua volontà di partecipare in maniera sempre più attiva alla governance internazionale, ufficialmente sulla base di una politica non egemonica, basata su interessi e non coercitiva.
Il libro riporta uno studio condotto da Robert Blackwill e Jennifer M. Harris, un diplomatico e un’accademica statunitensi, in cui si evidenzia che “la Cina è il principale operatore mondiale di geoeconomia, ed è stata anche il fattore principale nel riportare la proiezione di potenza – regionale o globale – a un esercizio essenzialmente economico (anziché politico-militare)”. Significa che le finalità della crescita economica non sono soltanto quelle di creare una prospera classe media ma anche che commercio, investimenti, aiuti allo sviluppo, boicottaggi economici, politica monetaria e finanziaria, energia, materie prime, cyber-politica rappresentano un potente arsenale geoeconomico che Pechino può utilizzare per risolvere controversie e stringere alleanze. Nell’Arte della guerra Sun Tzu sosteneva che “ottenere cento vittorie in cento battaglie non è dimostrazione di grandissima abilità. Soggiogare il nemico senza combattere rappresenta la vera vetta dell’arte militare”. È esattamente quello che sta facendo la Cina, dopo essere diventata il primo partner commerciale di oltre 130 paesi, più della metà dei membri delle Nazioni Unite. Al punto che l’Asia Power Index, elaborato da un autorevole centro studi australiano, sottolinea che – a parte la guerra – gli Stati Uniti non hanno strumenti per frenare l’aumento dell’influenza economica e diplomatica della Cina in Asia.
Conclusioni
Alla fine di un saggio che analizza dettagliatamente gli enormi progressi compiuti dalle imprese cinesi nel campo della sorveglianza della popolazione (per garantire la sicurezza e la tranquillità dei cittadini) tramite sofisticate tecnologie, il ruolo di Pechino nel concedere crediti per lo sviluppo che hanno superato quelli del Fondo Monetario Internazionale o della Banca mondiale, o gli enormi passi avanti compiuti nell’elaborare una politica che concili economia e difesa dell’ambiente, ci si aspetterebbe anche un atteggiamento più critico nel valutare le implicazioni potenziali di una centralità cinese negli affari globali. Nell’introduzione scritta da Guido Samarani si afferma che “lo sviluppo della Cina rappresenta oggettivamente un’opportunità per tutti ed è sbagliato e dannoso guardare allo sviluppo economico cinese come una minaccia o una sfida”, aggiungendo inoltre che “non è obiettivo della Cina la ricerca di un’egemonia mondiale: benché la storia insegni che in passato i paesi diventati forti hanno poi ambìto all’egemonia, questa non va considerata una legge storica. Se si giudica la Cina ponendo la sua esperienza a confronto con quella di alcune potenze occidentali e si applica la loro logica alla Cina, si giungerà a trarre conclusioni assurde e distorte”.
In linea di principio, la Cina ha tutti i diritti di rivendicare una sua via specifica per il proprio futuro, tenendo conto delle sue peculiarità storiche e culturali, ma non può strillare all’ingerenza negli affari interni ogniqualvolta qualcuno osi criticare i metodi brutali che vengono utilizzati per tacitare ogni forma di dissenso politico. Firmando il trattato con la Gran Bretagna per il ritorno alla madrepatria di Hong Kong, Pechino si era impegnata a rispettare per 50 anni il principio “un Paese due sistemi”, mentre con le disposizioni approvate di recente Pechino ha semplicemente imposto la propria volontà e quindi soltanto coloro considerati “patrioti” (a giudizio insindacabile della Cina) potranno partecipare alle elezioni nell’ex colonia britannica. Cocco non accenna minimamente al fatto che nell’ultimo decennio Pechino ha fatto una politica di militarizzazione del Mar cinese meridionale, espandendo a dismisura le proprie acque territoriali (senza il riconoscimento internazionale) grazie all’occupazione di scogli sperduti e alla cementificazione di poche rocce sparse, diventate ben presto basi navali cinesi. La minaccia diretta a Paesi come il Vietnam, le Filippine, la Malesia, l’Indonesia, non sembra troppo in linea con il concetto confuciano di armonia. Escludere nel modo più assoluto che un Paese diventato forte non mirerà mai all’egemonia è un’idea che farebbe inorridire Machiavelli.
Michelangelo Cocco
Una Cina “perfetta”
La nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale
Carocci, pp. 204, 21 euro
di Galliano Maria Speri