In vista della Giornata Europea della Cultura Ebraica (10 settembre), che nel 2023 è dedicata al tema della bellezza, pubblichiamo questo testo di David Palterer, intitolato
Bellezza è architettura [ebraica]
di David Palterer
Nonostante la bellezza sia un concetto astratto e di significato sfuggente, tutti ci sentiamo a nostro agio quando esprimiamo un’opinione in merito, elaborando poi una valutazione qualitativa che può esprimersi anche negativamente (si parla di “brutto”, “sgradevole”, ecc.). Questo avviene per tutto ciò che ci circonda, dalla musica ai colori, per la letteratura e i film, dal vestiario al cibo, al comportamento, per il tempo, la natura, le persone… e l’architettura, ignorando che esprimere un giudizio su quest’ultima sia tra i meno opportuni.
Qualsiasi costruzione è una somma di elementi, identificati da Marco Vitruvio Pollione nel suo trattato “De Architettura” del 15 a.e.v. come una triade: la firmitas, la utilitas e la venustas, cioè la solidità tecnica/tecnologica, la corrispondenza al funzionale e la bellezza. Va però chiarito se la bellezza alla quale Vitruvio fa riferimento risieda nel giusto equilibrio, ovvero nell’integrazione tra questi tre elementi, o se la proporzione e il decoro siano da considerarsi autonomi rispetto alla valutazione estetica.
Nell’ebraismo il concetto di “bellezza” è multiforme e si esprime con numerosi sinonimi e aggettivi sovente attinenti al sacro e alla ritualità in senso lato, al Signore, alle sue creazioni e alle sue azioni. Se esiste un consenso sul termine, è attinente alla “bellezza” della sua dimora terrena, l’architettura per eccellenza: il Tempio di Gerusalemme.
La minuziosa descrizione biblica della costruzione del Tempio è anticipata dall’individuazione (per poi acquisirlo) del terreno da parte di Re David (Samuel II 24:21), una cima rocciosa dell’Har Ha-Moria, “bello” perché elevato e solido. La tradizione aggiunge che si tratti dello stesso luogo dove è avvenuto il sacrificio d’Isacco, un nesso tra insegnamento etico e “bellezza”.
Sull’azione fondativa del sommo edificio, il racconto biblico non considera la parte “invisibile” della costruzione, cioè le proprie fondazioni. A riguardo Rashi (Rabbi Shlomo Yitzhaqi) propose una suggestione che vedeva il Tempio scendere dal cielo, dando spazio a un’esegesi, poiché nelle Scritture veniva invece indicato che la costruzione doveva esser fatta da uomini. La questione fu poi superata sostenendo che solo lo “Spirito divino” era sceso dal Cielo per stabilire in quell’edificio la propria dimora. Nella narrazione della costruzione del Tempio assistiamo perciò a una dicotomia tra il Gashemi (il tangibile) e la componente trascendentale, concettuale e spirituale, che è ispiratrice dell’iniziazione di quello spazio alla sua elevata funzione. La descrizione (Re I 5) prosegue indicando le proporzioni che sono funzionali alla percezione di equilibrio e stabilità, le dimensioni che assicurano la maestosità, i materiali adoperati, che sono di provato pregio per glorificare lo spazio, il tutto per acclamare la magnificenza dell’insieme, tutte qualità difficilmente misurabili per la loro bellezza.
L’approccio dell’ebraismo alla bellezza è ambivalente: ammirazione per un verso e dubbio, incertezza per un altro. Riguardo “la magnificenza e la bellezza del Tempio”, Rav Abraham Isaac Kook fa notare, nel suo “Orot” (Le luci) del 1929, l’esistenza di una stretta relazione della bellezza alla “verità delle cose”, per cui sostiene che a una “maggior verità” dovrebbe corrispondere una maggiore bellezza. Kook ritiene che questo concetto sia a monte della restrizione biblica di creare delle statue (e precisa “statue votive”), proibendo l’abbellimento del culto mediante idoli, idoli la cui “verità è oscura e limitata”, mentre considera la bellezza del Tempio la “bellezza di un re”, non per la sua apparenza bensì per le sue azioni (Isaia 33:17). Rav Jonathan Sacks a riguardo precisa che per l’Hadrat kodesh, (mirabile maestà del sacro) s’intende la bellezza della santità, e da qui si apprende come nell’ebraismo esista un nesso tra “la bellezza” e “la verità”.
La “reale” configurazione del tempio si è persa nel tempo, tuttavia non risulta sia mai stata univoca in quanto una trascrizione letteraria, inclusa quella biblica, potrebbe essere raffigurata in diverse modi; sappiamo dalle fonti che il secondo tempio era diverso dal primo e ancora più dalla sua trasformazione erodiana, in merito alla quale, nel trattato Baba Batra del Talmud babilonese è scritto “Chi non ha visto l’edificio di Erode non ha mai visto un bell’edificio in vita sua”. Considerando le origini greche di Erode non si può non supporre che abbia avuto come riferimento anche la “bellezza classica”. Nonostante i Betei ha-Mikdàsh, i Santuari di Gerusalemme, fossero diversi l’uno dall’altro, il concetto di bellezza, nel senso di equilibrio, stabilità, maestosità, magnificenza, e sopratutto per l’espressione simbolica, è invece una costante.
La bellezza del Tempio di Gerusalemme va dunque considerata intrinseca alle caratteristiche che erano capaci di condizionare le percezioni spaziali, sensoriali ed esaltare lo stato d’animo di chi lo avvicinava. Dopo la distruzione, la frequentazione del tempio è divenuta esclusivamente virtuale attraverso le preghiere e lo studio, che hanno trasformato “l’assenza fisica” in una “presenza tangibile”. Una presenza e un riferimento sublime che si è radicato oltre che nella cultura giudaica anche in quella occidentale, seducendo quella laica, e consolidando il ruolo del Tempio come un archetipo ideale per ogni costruzione edificabile dagli uomini.
La ricostruzione del Tempio immaginata da Juan Bautista Villalpanda e Jeronimo Prado, gesuiti al servizio di Felipe II di Spagna, traeva origine dalle visioni del profeta Ezechiele, raccolte nell’”Explanationes” del 1604, pubblicazione che ha avuto una notevole fortuna ispirando illustratori e architetti, e raggiunta anche dal mondo ebraico con la mediazione di Jacob Judah Leon. Villalpanda ha conciliato l’ordine biblico fondato sulla rivelazione, inscindibile perciò dal “bello universale”, con il “bello” maturato dalle esperienze e dalle tradizioni culturali umane, facendo riferimento a Vitruvio e alle testimonianze di Giuseppe Flavio e Yosef ben Matitiahu, scrittore e storico, sopravvissuto alla distruzione del tempio erodiano avvenuta sei anni dopo terminata la sua lunga costruzione.
Dalla Galut, la diaspora all’emancipazione, il rapporto della cultura ebraica con l’architettura e la bellezza riflette le tradizioni delle località nelle quali gli ebrei vivevano ma, nonostante le diversità, una costante comunque li univa: i riferimenti ideali con Gerusalemme e il Tempio. La parentesi dell’Illuminismo e la nascita dell’estetica come disciplina “razionale” non ha coinvolto la gran parte della popolazione ebraica che risiedeva fuori dai centri urbani, lontano dalle sedi del dibattito e del loro mondo culturale, e quindi manteneva il rapporto con la bellezza in modo spontaneo, eclettico, locale, popolare.
Con l’emancipazione, a partire dal XVIII secolo, agli ebrei è concesso l’esercizio delle libere professioni tra le quali l’architettura. Il loro contributo comincia a emergere, come quello di Marco Treves, progettista del Tempio Maggiore di Firenze, con l’intenzione di individuare la peculiarità ebraica da considerare nell’architettura sinagogale. Treves, con una certa abilità, riesce a “costringere” una convivenza tra l’espressività architettonica del suo tempo a Firenze e i “contenuti ebraici”, adottando lo style neo-moresco “in memoria” e associazione con il periodo d’oro della cultura ebraica della Spagna prima della cacciata degli ebrei nel 1492, proponendo simbologie e iscrizioni in ebraico. La “bellezza” dei contenuti è ancora chiaramente affidata, com’era consuetudine, alla retorica dell’ornamento e allo stile. Anche il movimento sionista, negli stessi anni, ha ritenuto opportuno adottare lo stesso stile volendo dichiarare in primis la propria affinità con “l’ebreo emancipato” e trova la sua espressione nell’Art-Nouveau – lo Jugendstil, cioè l’arte nuova, rigenerata, come pareva giusto per esplicitare il concetto di rinsaldamento del legame alla Terra degli Avi; la “bellezza” della Terra Promessa viene rappresentata secondo l’immaginario del romanticismo e simbolismo, resa affascinante dall’artista incisore Ephraim Lilien che ha sedotto, avvicinando al movimento uno vasto pubblico.
Con il Novecento matura un distacco dell’Architettura Moderna dall’attitudine di seguire, nella progettazione, dei canoni formali, ordini e modelli, venendo meno il ruolo dell’ornamento e il suo essere un corredo inscindibile della bellezza. Il nuovo corso non poteva essere espresso in modo più esplicito da quanto ha dichiarato Adolf Loos intitolando il suo saggio “Ornament und Verbrchen”, (Ornamento e Delitto) del 1908. I concetti di bellezza nell’architettura vengono, di conseguenza, riferiti al “volume”, alle “proporzioni”, allo “spazio”, alla “funzione”, alla “struttura”, aggiornando gli aggettivi di riferimento alle loro qualifiche: “dinamico”, “affollato” “libero” “arioso”, il concetto della bellezza si estende alle relazioni tra forma e funzione, interno/esterno, valori concettuali già affrontati, in relazione al Tempio, nel costatare la difficoltà nel descriverli o misurarli, e che si esprimono attraverso le impressioni.
Bruno Zevi, nei saggi raccolti in ”Ebraismo e Architettura (Giuntina 1993) – e, tra gli altri, di rilievo è stato anche un convegno sullo stesso tema nel 2014, svolto al Technion di Haifa e presieduto dalla Dr. Marina Epstein Pliouchtch – ha indagato, anche se non direttamente, sulla possibilità che esista una “peculiarità ebraica” nell’architettura di professionisti che abbiano radici ebraiche, presumendo che il loro atteggiamento poetico-linguistico derivasse o fosse legato alla propria comune origine. Alla domanda se esista un’architettura ebraica, la risposta rimane aperta e probabilmente sarebbe giusto desistere da riformulare la questione nuovamente. Invece questi studi hanno evidenziato il notevole ruolo di professionisti e operatori nel settore immobiliare, di estrazione ebraica, nello sviluppo della cultura architettonica moderna e contemporanea, che hanno applicato nell’operare i nuovi criteri di “bellezza”.
Credo sia privo di ragionevolezza attribuire la fortuna dell’architettura alla quale assistiamo nell’ultimo secolo alla provenienza ebraica seppur numericamente consistente; Zevi a tal proposito parla di “incidenza ebraica nell’architettura contemporanea”. Invece, emerge chiaro che gli ebrei, che per secoli sono stati ritenuti “un popolo senza radici territoriali”, abbiano scoperto che possono considerare come proprio il territorio e i luoghi laddove operano. La maledizione della diaspora e la dispersione del popolo in paesi e continenti, con le conseguenti assimilazioni, non hanno annientato il senso di appartenenza e d’identità, non circoscritto solo alla religione ma a una “territorialità culturale” e identitaria che continuava a risiedere, come vaga memoria, nell’antica terra di riferimento e con, al centro, il Tempio. Non solo, seppur costretto all’immigrazione, con famiglie disseminate in diversi paesi, il popolo ebraico ha saputo convivere con le più disparate tradizioni e lingue, di fatto vivendo il mondo come la realtà che Marshall McLuhan ha definito, nel 1964, un “villaggio globale”. Il “cruccio” di convivere con luoghi diversi gli ha così dato un’apertura mentale senza temere le contaminazioni (che qualche regime ha considerato “devianti”) e in quel terreno ha germogliato il “genio”.
Una parentesi drammatica ha colpito gli architetti ebrei nei territori sotto le dittature fasciste e naziste: la negazione dell’esercizio della professione e la migrazione coatta dei più fortunati (tanti sono stati invece assassinati), per la maggiore parte nel nord America e in Palestina. Negli USA, dove oltre agli ebrei arrivarono anche i dissidenti di regimi che condividevano la ricerca della libertà d’espressione culturale e creativa, il baricentro della cultura e i criteri di bellezza locali si sono spostati verso i canoni dell’Architettura Internazionale. L’influsso della cultura architettonica europea su quella americana, il prestigio e il nuovo ruolo sociale che questa immigrazione ha fatto guadagnare alla professione dell’architetto in America, ha sollevato un dibattito finito nel libro “From Bauhaus to Our House” di Tom Wolfe, del 1981. Il titolo si può leggere come “Dalla casa degli europei [Bauhaus è una scuola di architettura d’avanguardia, culla del Movimento Moderno, inaugurata nel 1919 a Weimar] a casa nostra [degli americani]”. La traduzione italiana del libro, intitolato “Maledetti Architetti”, esplicita maggiormente il disprezzo dell’autore verso quegli immigranti e il loro concetto di bellezza.
Una residuale parte della stessa emigrazione, però di soli ebrei, che ha preferito trasferirsi in Palestina, ha trovato un luogo in forte fermento e sviluppo nel quale, per affinità culturale con l’Europa, e per una scelta ideologica e di opportunità sociale ed economica, ha già adottato come proprio quello stile sobrio, teso tra il Razionalismo e l’espressività dello stile internazionale. Quel linguaggio moderno, oltre al Bauhaus, risentiva di altre influssi paralleli provenienti da Belgio, Austria, Cecoslovacchia e, non ultima, dell’Italia, e corrispondeva all’espressione di una bellezza nuova, che si era consolidata poiché in discontinuità con il passato, di seguito divenuta immaginario del nuovo Stato d’Israele. La fortuna di quella parte insediativa di Tel Aviv denominata Città Bianca (Ir Levanah), con il censimento di oltre 3000 fabbricati, nel 2003 è stata inserita nella lista UNESCO come eredità culturale mondiale.
L’espressionismo di Erich Mendelshon, che per un periodo, dopo aver lasciato la Germania e prima di aver scelto di emigrare definitivamente in America, ha tentato la sua fortuna in Palestina, il decostruttivismo di Daniel Libeskind e di Peter Eisenman, che hanno raggiunto la loro massima notorietà costruendo a Berlino, a seguita della caduta del Muro, il modernismo di Richard Meier, fautore di un revival dello stile espresso nella Weissenhfsiedlung di Stoccarda e del Razionalismo italiano del ventennio, gli italiani Morpurgo, Di Castro, Belgiojoso, Nathan Rogers, Neutra, Breuer, Kahn, Safdie, Rogers, Hecker, Gehry… sono solo alcune delle correnti e degli architetti che spesso sono chiamati in causa e portati come “prova provata” di un comune denominatore, che qualcuno insinua “etnico” di reminiscenze della loro origine ebraica, ma, se ce n’è uno, è il disparato modo con cui ognuno di loro considera e interpreta il concetto sfuggente di Bellezza.
David Palterer, architetto
Firenze
Fonte: https://www.ucei.it/