Italo Rota: l’architettura e il culto. Alla ricerca di spazi per la persona

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A cura di Oliviero Martini
Con l’Arch. Italo Rota approfondiamo il sistema di relazioni tra le comunità religiose e i luoghi di culto della città contemporanea. Intervistare Rota significa intraprendere un viaggio entusiasmante attorno ai rituali e agli spazi della vita culturale e spirituale dei fedeli, più in generale delle persone. Nella sua carriera, l’architetto si è occupato della realizzazione della Chiesa di Santa Margherita Maria Alacoque a Roma e del Tempio Indù di Lord Hanuman a Dolvy, Mumbai, oltre al progetto della Moschea al QT8 di Milano, maturando esperienza nella progettazione di architetture ufficiali per il culto. Secondo Rota, questi mesi legati alla pandemia ci insegnano a conoscere meglio le nostre menti e i nostri corpi; possiamo dire lo stesso della spiritualità?
In Cosmologia portatile (1) raccoglie testi, disegni al tratto e immagini per riferirsi ai diversi mondi dai quali eredita la sua riflessione di teorico e progettista. In particolare, nel quarto capitolo del libro (2) il progetto è posto in relazione al cosmo, alla dimensione spirituale. Qual è la sua idea del rapporto tra culti religiosi e città?
Possiedo da sempre una visione essenziale di tale rapporto. La città che non riesce a esprimere la nascita e la morte, è una città morta. Una città può essere morta anche quando ha degli abitanti; non è questo a determinarne la vitalità. Includere la vita e la morte significa raccogliere un’insieme sia temporale sia geografico della vita degli umani, oltre alla loro esistenza assieme alle altre forme viventi, che ho sempre considerato una parte dell’Uomo e viceversa. Questo ragionamento va al di là del sentirsi religiosi o atei. La Terra si è trasformata in una nave spaziale, non più un pianeta ma una macchina che vola nello spazio e che imbarca tutte le forme di vita. Ne nasce una relazione sempre più intensa tra tutte queste forme; quello che molte religioni chiamano il “Creato” e che ormai è diventato un’entità unica.
Nella città è molto più facile, che nella natura e nella campagna, ritrovare temi spirituali; proprio perché non si lascia spazio alla contemplazione. Molte religioni nascono legate alla geografia. Come dice sempre il Dalai Lama: è molto difficile pensare come un buddista tibetano quando sei in riva al mare o in una pianura. Come anche l’Islam che nasce nel deserto, a differenza della Cristianità che appartiene storicamente alle città. Questo influenza molto la relazione individuale con la spiritualità, che non passa più attraverso i luoghi organizzati.
Qual è oggi il ruolo dei luoghi di culto all’interno della città consolidata?
Proseguendo quanto detto prima, i luoghi di culto come modelli architettonici e punti di riferimento dello sviluppo urbano sono venuti a mancare. Tra l’altro, molti progettisti che si occupano di edilizia per il culto sono atei, non sono persone spirituali. Oltretutto, la CEI commissiona chiese non narrative, ma astratte, dove potremmo fare tutto al di dentro: una moschea, un centro commerciale, un museo di provincia. Tutto ciò che appartiene all’iconografia, come per il dolore del Cristo, è negato, si trasforma in un simbolo.
Su questo problema mi sono spesso confrontato con il cardinale Ravasi. Come è accaduto per la chiesa di Roma, anche di un mio progetto in Calabria, poi non realizzato, venne criticato l’apparato narrativo e mi dissero che era troppo “caravaggiesco”. Questo rifiuto per la propria storia figurativa è un tema attuale e ricorrente nel Cristianesimo. Tutto ciò si scontra con il valore per me fondamentale: il dolore.
Diversamente, in Oriente la vita è ancora permeata di dolore e non viene esorcizzata. La pandemia ha riacceso questa condizione, ma sotto forma di morte, come atto terminale.

La chiesa di Santa Margherita Maria Alacoque a Roma è sempre stata immaginata come un luogo di pronto soccorso dello spirito, con la grande croce sulla facciata. Fonte immagine: beweb.chiesacattolica.it

Questi sono temi vasti, ai quali le discipline difficilmente possono trovare risposta. Sarebbe come chiedersi in che modo l’architettura possa fronteggiare la pandemia. Probabilmente può solamente migliorare l’ambiente nel quale nasce un evento di questa portata. Così anche per l’architettura ecclesiastica, venendo a mancare il potere centralizzato e significativo dello spirito.
In una sua recente intervista per il Corriere della Sera (3), ha parlato di integrazione come di un “falso mito”. Dovremmo invece istituire regole certe per la compresenza delle architetture per il culto nei nostri territori. Quali interventi e attività dovrebbero affiancare il lavoro del progettista?
A mio parere il progetto per la Moschea di Milano e tutte le occasioni di confronto con la comunità musulmana per la sua stesura, sono eventi significativi in questo senso. Tutti i partecipanti sono stati chiamati a non rinunciare all’essenza, lavorando assieme e condividendo la spiritualità. L’architettura si è così immaginata totalmente trasparente, nel tentativo di accogliere e aprirsi alla collettività. A tal fine, si è deciso di non dividere gli uomini dalle donne, condizione per me irrinunciabile, vista la mia cultura.

Il grande spazio aperto per la preghiera islamica, nucleo dell’edificio leggero e trasparente della Moschea per Milano. Fonte immagine: sito web dello Studio Rota.

Il progetto si è poi fermato per motivi politici. Le amministrazioni comunali e regionali hanno preferito mantenere la Moschea nel sottoscala. Sicuramente non sarebbe stato possibile spostare il progetto altrove, poiché credo che gli edifici religiosi appartengano a una data comunità e territorio. La forma è un derivato, non un punto di partenza.
Immaginiamoci nel 2005: lei ha appena concluso il cantiere della chiesa di Santa Margherita Maria Alacoque a Roma. Vorrei soffermami sul volume “astratto e metafisico” della chiesa e sulle scelte che ha adoperato per lo spazio interno.
Lo spazio interno è un grande quadrato con una luce centrale zenitale e quattro colonne che non sorreggono nulla. È un po’ il sovrapporsi degli elementi delle prime chiese cristiane, dove avviene tutto in uno spazio molto raccolto. Il pavimento è in discesa, verso l’altare, quasi come il procedere dei fedeli. Prima, aveva una lanterna al centro, ottica, che proiettava sulle pareti delle mani che si abbracciavano. Questo è stato il primo elemento iconografico a essere soppresso; così poi anche il crocifisso, la rappresentazione di una via crucis e il campanile all’esterno, dove avrebbe dovuto esserci anche un giardino con una palma e un ulivo, di richiamo alla Palestina.

S. Margherita Maria Alacoque. Dal sito beweb.chiesacattolica.it

Nel progetto per la chiesa in Calabria avevo pensato lo spazio attorno alle necessità delle persone che si recano a pregare in ore diverse della giornata, svincolandosi dai tempi del rito. Tramite la mia esperienza personale, ho identificato nella preghiera l’atto più importante, non tanto il grande rito. Tantissime persone e fedeli trovano nella preghiera un momento fondamentale della propria giornata. Molte religioni organizzate non hanno saputo comprendere questo bisogno delle persone, soprattutto la loro spiritualità al di là dei riti.
Scorriamo nel tempo e arriviamo al 2012 quando viene realizzato il suo tempio Indù a Dolvy. Come nasce questo progetto?
All’epoca lavoravo a Mumbai per Mittal, i più grandi impianti siderurgici del mondo. Mi occupavo di un progetto di recupero biologico delle aree inquinate dall’industria. Un giorno ricevetti una lettera per la costruzione del Tempio (4); da qui prese avvio questa vicenda, un po’ sofisticata. Diventare architetto del Tempio significava diventare il dio al quale ci si rivolge durante la sua costruzione. Il primo compito riguarda l’utilizzo della terra sul pianeta, poi si è giudicati dai bramini, che potrebbero anche maledire il tuo operato. Il lavoro può interrompersi spesso a causa degli oroscopi, delle posizioni dei pianeti, oltre alla necessità a inizio del cantiere di trasferire tutti gli esseri viventi, gli insetti, le piante. Ricorre quindi una serie di ritualità simili a quelle dell’antichità: ciò che era denominato atto di fondazione.
L’origine dell’architettura consiste proprio in questo; nel recintare un luogo per entrare in contatto con lo spirito. Ci sono due luoghi primordiali che vengono recintati; uno è quello relativo all’agricoltura, per selezionare alcune piante da frutto, da cui nasce il giardino con l’hortus conclusus, identificabile con il Paradiso, l’altro è il recinto sacro, spazio complesso di simboli, percorsi, rituali.
Oggi questo atto è assente nell’edificazione delle chiese. Ad esempio, non avviene una scelta adeguata del luogo dove costruire una chiesa. La periferia è sempre un “resto” del piano urbanistico; non è più consentita la scelta di un luogo che abbia senso. In questo modo, la nuova edificazione è sempre espressione di una quantità urbanistica. Si tratta di uno dei rari casi in cui l’urbanistica entra negli interni. L’attività progettuale dovrebbe essere più espressione delle attività dei fedeli che delle regole tra Chiesa e Stato.

Dall’esterno del Tempio emerge un unico volume blu, con un tetto piatto aggettante e quattro enorme colonne plastiche. Sulla copertura si innesta il pinnacolo, vera e propria torre del santuario. Fonte immagine: divisare.com


È ricorrente il suo invito a ripensare l’architettura e l’atto del costruire, anche tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie (5). Si è mai confrontato con la possibilità di creare uno spazio sacro anche nel digitale?

Penso che possa derivarne un rischio legato ai telepredicatori. Il vero risultato del digitale è spingerci a capire l’importanza dell’etica. Essa deve entrare in ogni momento della nostra vita come un’esigenza fondamentale, fino a diventare un pilastro di tutto ciò che facciamo, soprattutto quando lavoriamo con le high tech, con la biologia e la fisica. La maggior parte delle nuove tecnologie serve a incontrarsi, non a instaurare una relazione individuale. Anche nel lockdown, le tecnologie servivano a farci incontrare; in questo, scoprirsi digitali, cambierà tante cose. È un’accelerazione su un processo, non è una novità provocatoria del covid. La pandemia ha accelerato tantissimi cambiamenti che erano in corso. Ci sarà una grande riduzione dei consumi, una liberazione di economie, di energie, di tempo, che troveranno canali molto diversi da quelli che avevamo previsto.
Come possiamo rimediare al problema dell’abbandono dei luoghi, servendoci delle opportunità che ne derivano?
Considero il vuoto lo strumento principe della discontinuità, di cui noi abbiamo bisogno. Demolire è più interessante che costruire in moltissime situazioni, visto che siamo in sovrabbondanza di spazio. Con lo smartworking moltissimi edifici non ci serviranno più, così anche per i capannoni della periferia e molti altri manufatti del passato. Ognuno di questi divora energia per essere conservata e non utilizzata. Invece, le città meglio conservate, come quelle antiche, coprono enormi archi temporali di sovrapposizioni, mutazioni, metamorfosi e completamenti, di innesti, e ancora oggi sono le città che funzionano meglio.
Del resto, anche Manhattan è una continua sostituzione, dove vengono scelti i pezzi da conservare, senza museificarli, ma consentendo quei margini essenziali perché la vita continui a esercitarsi all’interno degli spazi. In ogni caso è bene non essere assoluti, un museo esiste anche senza un visitatore poiché conserva delle opere. Così anche una chiesa può esistere senza fedeli, poi tornerà ad avere un senso.
A quali progetti sta lavorando adesso? Desidera tornare a occuparsi di architettura sacra?
Quello che mi interessa molto oggi è lo spazio minimo, identificabile nella religione musulmana con il tappeto. L’artificio minimo che ti suggerisce che in quel momento ti stai occupando dello spirito. Si tratta di un territorio che mi interessa molto, anche perché ha molto a che fare con la nostra introspezione psicanalitica. Quando si prega sul tappeto non esiste nient’altro; è il tramite per avere una relazione individuale diretta con il divino. Anche se sono diecimila i fedeli a pregare nello stesso luogo e nello stesso momento, ognuno mantiene una relazione individuale.
Noto che tanti luoghi dove le persone vivono o lavorano si configurano per la spiritualità, anche se non dichiarata. In questo senso, tanti luoghi stanno uscendo dall’architettura, così anche la casa, che ormai è un’espressione della nostra mente per organizzare uno spazio necessario non tanto per sopravvivere ma per vivere. Non si hanno più divisioni funzionali; si lavora, si cucina, si accudiscono i figli e i nostri corpi. Lo spazio che è intorno a noi è quindi “ad personam”, conservando in questo modo la biodiversità biologica e culturale degli individui.
Note
(1) Rota, I., Cosmologia portatile. Scritti, disegni, mappe, visioni, Quodlibet, Macerata, 2012
(2) In Cosmologia portatile, capitolo Costruire in accordo con il Cosmo, pgg. 83-93.
(3) Panza, P., Italo Rota: “Culto nelle regole, l’integrazione è un falso mito”, articolo per il Corriere della Sera, cronaca di Milano, 22 luglio 2016.
(4) Si veda il riferimento a questo particolare evento in Cosmologia portatile, pg. 87; “Una sera all’aeroporto di Mumbai un signore mi ha consegnato una busta gialla con queste parole: – se le può interessare la apra quando arriverà a Milano, arrivederci -. […] Una volta arrivato a Milano ho aperto la busta gialla, conteneva un laconico messaggio: – Vuole costruire un tempio? -”.
(5) La domanda si riferisce in particolare alla frase “Come liberare l’architettura? Le nuove tecnologie forse, non è necessario costruire per creare spazio e del resto non possiamo più permettercelo” contenuta nell’intervista di Artribune all’arch. Rota, dal titolo Design Lieve. Intervista con Italo Rota, a cura di Mario Enrico Giacomelli, 30 settembre 2013.
Fonte: https://architetturasacra.org/italo-rota-larchitettura-e-il-culto-alla-ricerca-di-spazi-per-la-persona/
 

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