Iraq: febbraio 1991-febbraio 2021, trent’anni di guerra. Le lezioni che possiamo trarre dalla Prima guerra del Golfo (2)

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Il 15 gennaio 1991 gli Stati Uniti elaborarono la Direttiva di sicurezza nazionale 54, secondo la quale gli scopi dell’intervento militare erano quattro: completare il ritiro iracheno dal Kuwait, restaurare il governo autonomo dell’emirato, proteggere le vite americane (in particolare, liberare gli ostaggi caduti nella mani di Saddam Hussein) e “promuovere la sicurezza e la stabilità del Golfo persico”. I primi tre obiettivi furono raggiunti facilmente ma l’ultimo, il più importante da un punto di vista strategico, non solo è rimasto una chimera ma quella guerra iniziò un processo di sistematica distruzione delle strutture statali irachene, che vennero poi completamente spazzate via dall’invasione dell’Iraq del marzo 2003. Una strategia terribilmente miope aveva aperto le porte alla totale destabilizzazione del Medio Oriente.

In realtà, il vero scopo di questa enorme mobilitazione militare a guida statunitense aveva poco a che fare con il Kuwait e con tutte le ipocrite parole d’ordine sulla restaurazione del diritto internazionale violato. L’obiettivo era di insediarsi con una presenza militare diretta in Medio Oriente e lanciare un chiaro messaggio all’ex nemico sovietico: noi siamo l’unica superpotenza sul campo, toglietevi dalla testa di contrastare il nostro disegno egemonico. L’ultimo conflitto che aveva visto gli Stati Uniti impegnati in una guerra all’estero era stato quello con il Vietnam, una sconfitta disastrosa che aveva profondamente umiliato i militari americani e minato la fiducia che gli Stati Uniti nutrivano in se stessi. La rapida vittoria contro l’esercito iracheno mostrò l’enorme potenza dell’apparato militare statunitense e consentì al presidente George H.W. Bush di esclamare: “per dio, abbiamo sconfitto la sindrome del Vietnam una volta per tutte”.

La lezione della Prima guerra del Golfo

Estate 1990, Dick Cheney, segretario alla Difesa USA, incontra il principe Sultan, suo omologo saudita, per discutere i dettagli dell’intervento per liberare il Kuwait. Nel 2003, come vice presidente di George W. Bush, Cheney avrà un ruolo fondamentale nell’invasione dell’Iraq.

Una volta liberato il Kuwait, George H.W. Bush, nonostante le forti pressioni in tal senso, si guardò bene dall’invadere anche l’Iraq, perché si rendeva perfettamente conto che lo spietato regime del dittatore iracheno andava preservato per porre un freno a qualunque mira espansionistica iraniana. Le condizioni di pace prevedevano il riconoscimento iracheno della sovranità del Kuwait, l’eliminazione di qualunque tipo di armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche, biologiche) e il divieto di costruire missili con una gittata superiore ai 150 chilometri. In questo contesto, di fronte al chiaro indebolimento di Saddam Hussein, le popolazioni curde dell’Iraq settentrionale e quelle sciite del sud si sollevarono contro il governo, sperando anche in un aiuto esterno che non arrivò mai e furono massacrate con feroce brutalità. In risposta agli eccidi, le truppe alleate instaurarono in Iraq due fasce di interdizione al volo, a nord e a sud, in modo da impedire almeno i bombardamenti sui civili e stanziarono truppe sui confini.

Da un punto di vista tecnico, il breve conflitto aveva dato una dimostrazione lampante della potenza militare americana, la sua capacità logistica di spostare centinaia di migliaia di combattenti, di coordinare l’aviazione e le avanzate delle truppe corazzate. In realtà, le operazioni erano state favorite perché un piano di intervento era stato messo a punto già dal 1979, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, e mirava a contrastare qualunque mossa di Mosca verso il Golfo e i ricchi giacimenti petroliferi dell’area. Tutti i preparativi per rispondere alle mosse dei russi vennero rielaborati in funzione della minaccia irachena. L’operazione militare, in senso stretto, fu un brillante successo e sicuramente lanciò un messaggio chiaro al mondo e ai sovietici che, in ogni caso, si dibattevano in una crisi drammatica che avrebbe portato alla fine del 1991 alla dissoluzione dell’URSS. Il problema vero è che l’ebrezza della vittoria impedì agli Stati Uniti di elaborare una strategia globale di lungo termine e contribuì a convincere i potenziali nemici a cercare un approccio non convenzionale nei conflitti armati.

Mentre si crogiolavano nella loro superiorità militare, gli analisti statunitensi non si resero conto che gli avversari potenziali avrebbero sviluppato delle strategie asimmetriche per contrastare l’America. Superato lentamente il trauma del crollo dell’URSS, la Russia avrebbe sviluppato il concetto di guerra ibrida, mentre i cinesi avrebbero messo a punto l’idea di “guerra senza limiti”, che include una serie di mosse offensive e di attacchi che rimangono al di sotto del casus belli, con un’enfasi particolare sulle nuove tecnologie. Con il senno di poi, oggi è molto facile riconoscere l’impatto della guerra dell’informazione, degli attacchi cibernetici, l’uso della rete per manipolare le notizie e l’opinione pubblica, e diversi altri tipi di offensive non strettamente militari.

Vincere la pace? Questo è il problema

Una ripercussione a lungo termine della schiacciante vittoria contro l’Iraq fu la

Osama bin Laden, fondatore della rete terroristica di Al Qaeda, aveva iniziato la sua carriera combattendo i russi in Afghanistan con l’appoggio USA. Dopo lo stanziamento di truppe americane in Arabia Saudita, si radicalizzò fino a diventare il principale stratega del terrorismo fondamentalista.

radicalizzazione del saudita Osama bin Laden, che aveva iniziato la sua carriera in Afghanistan nel combattere gli invasori sovietici con il sostegno statunitense. Inorridito dal fatto che migliaia di miscredenti americani avevano osato calpestare il sacro suolo dell’Arabia Saudita (anche se per difenderla dalle minacce di Saddam Hussein), usò tutte le strategie apprese dagli istruttori USA in Afghanistan per attaccare un nemico molto più potente di lui, combattendo una guerra asimmetrica. Con la Prima guerra del Golfo gli Stati Uniti dimostrarono che, in un conflitto tradizionale, con i bombardamenti di precisione, la supremazia navale e la capacità di condurre efficaci operazioni sul terreno, grazie al fondamentale ausilio di una sofisticata rete satellitare, non avevano rivali. Ma quando si è trattato di trasferire questa superiorità in altri contesti, gli Stati Uniti non si sono rivelati all’altezza per fronteggiare guerre irregolari o condurre operazioni di stabilizzazione politica. Le forze armate statunitensi hanno mostrato tutta la loro vulnerabilità di fronte a tali sfide, come è avvenuto ripetutamente in Somalia, Bosnia, Kosovo, Afghanistan e Iraq (dopo l’invasione del 2003), poiché hanno fallito completamente nell’elaborare strategie sociali e infrastrutturali, dopo aver conseguito la vittoria militare.

Non fu invece cosi nel 1945 quando, dopo aver trionfato sul nazismo, gli Stati Uniti capirono che, una volta vinta la guerra, era necessario “vincere la pace”, conquistare cioè i cuori e le menti (riempiendo anche le pance vuote) degli ex nemici che andavano integrati in un disegno più generale di stabilità e sviluppo. Alla fine delle ostilità, gli italiani corsero in massa a festeggiare l’arrivo delle truppe americane, le stesse che avevano bombardato ripetutamente obiettivi militari, industriali e urbani, causando anche decine di migliaia di vittime tra i civili. I giapponesi sconfitti, nonostante l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, accettarono l’amministrazione militare americana che intendeva riedificare ex novo le strutture dello stato, usando come figura di unità nazionale un imperatore che aveva avuto gravissime responsabilità nel conflitto. E un processo simile avvenne in Germania, le cui città erano state rase al suolo da spietati bombardamenti a tappeto.

Vincere la guerra. E poi?

Il generale George Marshall, segretario di Stato USA tra il 1947 e il 1949, è stato forse uno degli ultimi statisti americani a capire il concetto di “nation builiding”.

Gli Stati Uniti dimostrarono allora di padroneggiare adeguatamente il concetto di “nation building” e di saper guardare alle popolazioni sconfitte con gli occhi del futuro, puntando a trasformare in alleati coloro con cui ci si era scontrati sul campo di battaglia. Questa strategia si è rivelata vincente e ha garantito all’Europa molti decenni di pace. Ma il delirio di onnipotenza seguito alla vittoria nella Prima guerra del Golfo, insieme al crollo del comunismo che non ha retto il confronto con le democrazie liberali, illuse gli americani che la potenza militare sarebbe stata sufficiente a garantire loro la supremazia globale, sostenuta anche da un’economia avanzata, prospera e in continua crescita. L’economista e politologo statunitense Francis Fukuyama, in un suo saggio del 1992, arrivò a parlare di “fine della storia” e a prospettare un futuro in cui il sistema liberaldemocratico, momento culminante della lunga evoluzione storica dell’umanità, avrebbe trionfato senza problemi.

Purtroppo, come è sotto gli occhi di tutti, le cose non sono andate per niente nella direzione auspicata. Al contrario, sono proprio Cina e Russia, due stati autoritari che ignorano in toto cosa siano i diritti umani, a sfidare i concetti di società aperta tipici delle democrazie occidentali e a proporsi, con un certo successo, come modelli da seguire al resto del mondo. Un esempio a questo proposito è la “diplomazia dei vaccini” lanciata sia da Mosca che da Pechino, che si sta presentando all’Africa come un generoso donatore che ha a cuore le sorti degli ex colonizzati. Inoltre, Cina e Russia hanno fatto grandi progressi nel colmare le proprie carenze nel campo della guerra moderna. In particolare, oltre ad aver sviluppato una notevole capacità negli attacchi cibernetici, hanno realizzato sistemi d’attacco di precisione a lungo raggio, come missili anti nave e anti aereo, in grado di mettere in difficoltà il dispiegamento globale degli Stati Uniti.
(continua)

di Galliano Maria Speri

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