Iraq: febbraio 1991-febbraio 2021. Trent’anni di guerra che hanno distrutto il Paese senza aprire concrete prospettive di pace (1)

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La storiella ufficiale afferma che gli Stati Uniti, alla testa di una poderosa coalizione internazionale, intervennero per restituire la sovranità al Kuwait e fermare sul nascere l’espansionismo del perfido dittatore Saddam Hussein. In realtà, l’Iraq rimase vittima di una cinica strategia che lo usò per contrastare l’Iran degli ayatollah per poi abbandonarlo al suo destino. Questo lungo conflitto richiama alla memoria la terribile guerra dei Trent’anni ma, purtroppo, non c’è nessuna pace di Vestfalia in vista. Una serie di articoli ricostruisce i fatti storici e i retroscena.

 Il 28 febbraio 1991 si concluse quella che è stata definita la Prima guerra del Golfo, un conflitto internazionale scatenato dall’invasione del Kuwait da parte dell’esercito del dittatore iracheno Saddam Hussein che, il 2 agosto 1990, aveva occupato il vicino emirato. L’obiettivo di Baghdad era di impossessarsi delle ricchissime riserve petrolifere del Paese e cancellare l’imponente debito che l’Iraq aveva contratto con il Kuwait. Il giorno successivo all’invasione, il Consiglio di sicurezza dell’ONU chiese all’Iraq l’immediato ritiro a cui l’Iraq rispose l’8 agosto con l’annessione del piccolo emirato. Il 29 novembre, il Consiglio di sicurezza dell’ONU autorizzò l’uso della forza contro il dittatore iracheno se non si fosse ritirato entro il 15 gennaio 1991. Già nelle prime settimane del 1991 la coalizione alleata aveva raggiunto il numero di 700.000 effettivi, il cui nucleo centrale era composto da 540.000 militari statunitensi, il più grande esercito che si fosse visto dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Saddam Hussein, nella sua divisa da Feldmaresciallo. Dopo ripetuti contatti con inviati e diplomatici USA, che volevano stabilire cordiali relazioni, Hussein era stato indotto a credere che l’invasione del Kuwait aveva il beneplacito statunitense.

Saddam, che poteva contare su un esercito di occupazione di circa 300.000 soldati, dichiarò che non aveva nessuna intenzione di ritirarsi e che il Kuwait sarebbe rimasto per sempre una provincia irachena. A quel punto, il 16 gennaio 1991, l’aviazione alleata, sotto la guida statunitense, iniziò una massiccia campagna di bombardamenti, denominata “Operazione tempesta nel deserto”, che colpì le difese aeree irachene, per poi passare alla rete di comunicazione, agli edifici governativi, alle fabbriche che producevano armamenti, alle raffinerie petrolifere, ai ponti e alle strade. A metà febbraio, le forze alleate avevano iniziato a colpire le truppe di terra irachene in Kuwait e nell’Iraq meridionale, distruggendo fortificazioni e carri armati. Il 24 febbraio, iniziò una manovra a tenaglia con truppe che si muovevano verso il Kuwait dall’Arabia Saudita, mentre reparti corazzati penetravano per 200 chilometri nel territorio iracheno per colpire alle spalle gli occupanti. In tre giorni, la coalizione militare più forte e moderna esistente al mondo riusciva ad annichilire ogni resistenza e, il 28 febbraio, il presidente George H. Bush dichiarava il cessate il fuoco. Il 3 marzo, l’Iraq e la coalizione internazionale firmavano l’armistizio nella citta irachena di Safwan.

Khomeyni cambia l’equilibrio strategico del Medio Oriente

Per poter capire come un satrapo orientale, crudele e spietato ma non stupido, fosse arrivato a sfidare la più grande potenza militare del mondo (ricordiamo che in quel periodo lo stato sovietico era travagliato da una crisi profondissima che avrebbe portato in breve alla dissoluzione dell’URSS) dobbiamo ricostruire i drammatici avvenimenti del 1979 che avevano modificato drasticamente la situazione mediorientale. L’evento nuovo era la caduta dello scià Mohammed Reza Pahlavi, un saldo alleato dell’Occidente, e l’arrivo in Iran dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni dopo quasi sedici anni di esilio in Turchia, Iraq e, infine, Francia. Proseguendo la politica di suo padre, lo scià aveva portato avanti una decisa e autoritaria campagna di modernizzazione e laicizzazione, scontrandosi ben presto con la durissima opposizione del clero sciita, che si era messo alla testa del malcontento diffuso tra i cittadini per le misure repressive del governo. Dopo una rivolta popolare, Reza Pahlavi fu costretto a fuggire il 16 gennaio 1979. Il 1 febbraio Khomeyni rientrò in Iran da Parigi e il 1 aprile dichiarò la trasformazione dell’Iran in una Repubblica Islamica.

Il clero sciita si mosse rapidamente per isolare le forze di sinistra, gli intellettuali e i nazionalisti, loro alleati nella lotta contro lo scià. Vennero abrogate le leggi che garantivano i diritti civili e partì una campagna militante per abolire qualunque legame con la cultura occidentale. Le strade iniziarono a essere controllate da miliziani islamisti che imponevano a tutti l’abbigliamento e il comportamento da musulmano. Ci furono migliaia di arresti e fucilazioni sommarie dei sostenitori dello scià, ma quello che fece suonare un drammatico campanello d’allarme a livello internazionale fu l’irruzione nell’ambasciata degli Stati Uniti a Tehran di studenti rivoluzionari che, il 4 novembre 1979, sequestrarono 66 persone e ne presero 52 in ostaggio per oltre un anno. Nell’aprile del 1980 una missione delle forze speciali USA per liberare gli ostaggi fallì miseramente a causa di avarie agli elicotteri causate da una tempesta di sabbia. Gli Stati Uniti, definiti “Grande satana”, vennero pubblicamente umiliati e, da quel momento, iniziarono a mettere a punto una strategia per fronteggiare l’estremismo di Khomeyni.

L’ayatollah Ruhollah Khomeyni sulla scaletta del volo Air France che lo ha riportato in Iran dopo un lungo esilio, i cui ultimi anni furono trascorsi in Francia.

Il problema non era soltanto la politica di repressione interna, imposta da una teocrazia fanatica, con le donne costrette a portare il velo, il bando dell’alcol e della musica e la rigida applicazione della legge islamica. La cosa più grave era che l’Iran, da solido alleato dell’Occidente si era trasformato in una Repubblica islamica ferocemente contraria alla società liberale e che tentava di esportare il suo modello anche nei Paesi confinanti, soprattutto tra le popolazioni sciite. L’intero equilibrio nell’area era stato modificato drasticamente e questo rischiava di innescare nuove tensioni in un contesto già esplosivo. Gli Stati Uniti non potevano che prendere atto del radicamento di una forza ostile che implicava una minaccia diretta sia a Israele che alle monarchie sunnite che regnavano in Arabia Saudita e negli emirati del Golfo. Non dimentichiamo inoltre che il 1979 è anche l’anno in cui l’Armata rossa invade l’Afghanistan.

Saddam Hussein, dittatore usa e getta

Di fronte al pericolo dell’allargamento della rivoluzione islamica, venne ventilata al dittatore iracheno la prospettiva di diventare il campione del mondo arabo sunnita e il bastione “contro l’egemonia iraniana”, la possibilità di consolidare la sua posizione interna e raccogliere simpatie anche tra i Paesi occidentali, in primis Francia e, successivamente, Stati Uniti. Ottenuto l’appoggio finanziario di Kuwait, Arabia Saudita e dei Paesi del Golfo, e con il tacito sostegno americano, il 22 settembre 1980 l’Iraq invase il confinante Iran, scosso dai sommovimenti della rivoluzione e con l’esercito regolare demoralizzato e con gravi problemi organizzativi. Tehran venne colta di sorpresa e, nel dicembre 1980, l’offensiva irachena era riuscita a penetrare per un centinaio di chilometri all’interno del territorio iraniano e aveva portato alla conquista della città di Khorramshahr.

Dopo le esitazioni iniziali, l’Iran lanciò una controffensiva con le Guardie rivoluzionarie in appoggio all’esercito regolare e costrinse gli iracheni a cedere terreno, costringendoli a ritirarsi oltre al fiume Karun e, infine, riuscì a riconquistare Khorramshahr nel 1982. A quel punto, capito che la facile marcia verso il trionfo era stata soltanto un’illusione, Saddam Hussein si ritirò da tutti i territori iraniani occupati e propose la sospensione dei combattimenti. Ma l’ayatollah Khomeyni, saldamente a capo della Repubblica islamica e personalmente ostile al dittatore, continuò la guerra nel tentativo di rovesciare il suo nemico giurato. Ben presto, il conflitto si trasformò in un sanguinosa guerra di posizione che ebbe un terribile costo umano. L’Iran lanciò ripetuti e inutili attacchi di terra, usando onde umane composte da coscritti giovani, senza armi e, spesso, senza addestramento, che venivano mandati al massacro contro la grande potenza di fuoco di Baghdad. Entrambi i Paesi effettuarono bombardamenti aerei sporadici contro il territorio nemico e colpirono le rispettive petroliere che solcavano il Golfo Persico. Gli attacchi iraniani contro le petroliere del Kuwait e di altri stati del Golfo indussero gli Stati Uniti e diverse nazioni europee a inviare navi da guerra nel Golfo Persico per garantire il regolare flusso delle esportazioni petrolifere.

L’Iraq continuò a proporre una tregua ma la sua reputazione internazionale era stata fortemente danneggiata quando si venne a sapere che Baghdad era ricorso all’uso letale di armi chimiche, sia contro le truppe iraniane che contro civili curdi iracheni. Nel marzo del 1988 le immagini delle persone uccise dai gas nel villaggio curdo di Halabjah, dove le vittime erano state 5.000, fecero il giro del mondo. Nell’agosto del 1988 la grave crisi economica di Tehran e alcune conquiste territoriali di Baghdad, spinsero infine l’Iran ad accettare un cessate il fuoco proposto dall’ONU. Esistono dati discordanti sulle vittime della guerra, ma gli esperti le valutano in circa mezzo milione di morti per parte, con un numero di feriti che varia da uno a due milioni, mentre entrambe le economie subirono danni gravissimi. Viene anche calcolato che tra i 50.000 e i 100.000 curdi, soprattutto civili, vennero uccisi dagli iracheni in una serie di operazioni condotte dall’esercito iracheno.

Alla fine della guerra l’economia irachena è al collasso e cominciano a serpeggiare malumori sempre più violenti all’interno del tessuto sociale impoverito. L’Iraq si è indebitato per 14 miliardi di dollari, principalmente con il Kuwait e l’Arabia Saudita, ma non è assolutamente in grado di ripagare per cui si aspetta comprensione e aiuto da parte di quei Paesi che lo avevano sostenuto nello scontro con l’Iran, sulla base delle comuni preoccupazioni. Chiede una moratoria che gli viene rifiutata e, a quel punto, Baghdad comincia ad accorgersi di essere stato usato come carne da cannone contro l’espansionismo sciita della Repubblica degli ayatollah. La rabbia contro il ricchissimo Kuwait, che prima ha promesso e poi negato il proprio sostegno, diventa sempre più forte.

Il cinismo della politica americana

Al momento della guerra con l’Iran, il regime iracheno aveva saldi rapporti di alleanza con

Donald Rumsfeld, inviato speciale del presidente Reagan, stringe la mano di Saddam Hussein. Qualche anno dopo guiderà, come segretario alla Difesa USA, la guerra contro l’Iraq.

l’URSS, suo principale fornitore di armamenti. Baghdad era inoltre inserito nella lista dei Paesi che appoggiavano il terrorismo, per gli aiuti forniti ad Abu Nidal, l’ambiguo militante palestinese il cui gruppo portò a termine, tra le altre, la strage di Fiumicino il 27 dicembre 1985, che costò la vita a 19 persone e provocò 120 feriti. Questi rapporti erano perfettamente noti agli Stati Uniti, ufficialmente neutrale nella guerra Iran-Iraq. Ma quando Tehran lancia la propria controffensiva nel marzo del 1982, gli USA intensificano gli aiuti militari a Saddam Hussein e Noel Koch, un funzionario del dipartimento della Difesa, dichiara che “nessuno aveva dubbi sul sostegno iracheno al terrorismo…la vera ragione è che volevamo aiutarli contro l’Iran”. Rispondendo a un invito di Washington, Saddam Hussein decide di espellere Abu Nidal e, il 20 dicembre del 1983, il presidente Reagan manda come suo inviato personale Donald Rumsfeld a incontrare il dittatore iracheno. L’amministrazione americana sapeva benissimo che Saddam aveva fatto ricorso massicciamente alle armi chimiche e che aveva commesso gravissime violazioni dei diritti umani. Dei documenti, pubblicati dalla George Washigton University nel febbraio del 2003, rivelano inoltre che Saddam Hussein non aveva fatto mistero della propria intenzione di procurarsi armamenti nucleari. Ma tutto questo non aveva assolutamente fatto deflettere l’amministrazione USA dai propri proposti di sostenere Baghdad.

La politica della mano tesa continua anche con la presidenza di Bush padre che, il 12 aprile 1990, invia una delegazione di senatori, capeggiata dall’autorevole Robert Dole, a incontrare il dittatore iracheno, con il compito di recapitargli un messaggio della Casa Bianca nel quale si sottolinea l’intenzione di migliorare i reciproci rapporti. Il 27 luglio dello stesso anno April Glaspie, ambasciatrice USA a Baghdad, consegna una lettera che riflette gli stessi sentimenti. Non si pensi a un caso di omonimia. Il Donald Rumsfeld che stringe cordialmente la mano di Saddam Hussein nel 1983 è lo stesso Donald Rumsfeld che, da segretario alla Difesa degli Stati Uniti, guida l’invasione dell’Iraq nel marzo 2003 che porterà alla cattura e all’esecuzione del dittatore iracheno. Anche April Glaspie è la stessa persona che il 25 luglio 1990 (pochi giorni prima dell’invasione irachena del Kuwait) incontra Saddam Hussein e di fronte alla velata minaccia di risolvere, con le buone o le cattive, i propri dissidi con il piccolo emirato, dichiara che non è abitudine degli Stati Uniti interferire nelle dispute tra Paesi arabi. Dopo anni di contatti diplomatici, aiuti militari e scambi vari di cortesie, Saddam viene indotto a credere che queste parole rappresentino un via libera all’invasione da parte della Casa Bianca. Si sbaglia tragicamente, come era già avvenuto per la guerra con l’Iran, e questo errore gli sarebbe costata non solo la vita ma avrebbe portato l’Iraq ad attraversare le porte di un inferno da cui non è ancora uscito.
(continua)
di Galliano Maria Speri

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