FRONTIERE

Insegnanti: le ragioni della frustrazione. Lettera aperta al ministro Valditara

Armadietti. Foto Joshua Hoehne/Unsplash

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera aperta di un’insegnante, la Prof.ssa Ester Intra, al ministro dell’Istruzione e del Merito, Prof. Giuseppe Valditara. Una denuncia precisa e accorata di alcuni dei tanti mali che affliggono la scuola italiana.

Bresso, 4.12.23

Lettera aperta al Ministro della Pubblica Istruzione, On. Giuseppe Valditara

Onorevole Ministro Valditara,

sono rimasta profondamente colpita dall’articolo di Paolo Ferrario pubblicato da Avvenire il 31 ottobre riguardante l’alto numero di suicidi fra gli insegnanti e vorrei sottoporLe alcune riflessioni.

Nel corso della mia vita lavorativa come docente (42 anni in diversi gradi d’istruzione e in diversi istituti) ho incontrato moltissimi colleghi insoddisfatti, frustrati, depressi, ma per fortuna nessuno di loro è arrivato al suicidio. Io stessa ho trascorso anni faticosissimi sia all’inizio di questa professione, sia negli ultimi anni prima di essere inviata ‘in missione’ all’estero in una Scuola Europea in Germania e ho scelto poi di non tornare più ad insegnare in Italia. Quali le cause di questa ‘silenziosa strage degli innocenti’?

La prima, secondo me, è la frustrazione che l’insegnamento in Italia comporta.

Premesso che esiste una frustrazione per così dire ‘connaturata’ a questa professione (l’insegnante deve ripetere continuamente certi concetti e si ritrova spesso allievi che presentano difficoltà di apprendimento, come se non crescessero mai), esistono però anche altre frustrazioni cui si potrebbe porre rimedio con qualche serio intervento innovativo.

La prima fonte di frustrazione in Italia è l’accesso alla professione: attesa dei concorsi, dei risultati, dell’inserimento nelle graduatorie … un iter lungo e complesso non compreso dai più, esterni a questo mondo, che guardano all’aspirante docente come ad un povero idiota incapace di trovare un posto di lavoro benché in possesso di una laurea e magari anche di altri titoli di studio. Poi l’inesistenza totale di una carriera: quale che sia il ruolo ricoperto in un Istituto (coordinatore di classe, di materia, collaboratore del Preside, vicepreside…), se l’insegnante si trasferisce in un altro istituto, riparte da zero: la sua esperienza, la sua preparazione non contano nulla. Deve lavorare duramente per farsi conoscere ed apprezzare, affrontando talvolta assurdi pregiudizi (anche da parte del dirigente scolastico) basati sulla sua collocazione sociale o sull’area geografica di provenienza.

La seconda fonte di frustrazione è l’eccesso di burocratizzazione nei rapporti interni agli Istituti. Il rapporto con la segreteria ha caratteri fantozziani: va dal cipiglio con cui la segretaria guarda l’insegnante che si avvicina allo sportello anche solo per chiedere un chiarimento o una precisazione (se poi il docente chiede il rilascio di un documento, lascio immaginare!) all’imprevedibilità della data di pagamento di qualsiasi prestazione extra.

Il rapporto col dirigente scolastico diventa sempre più simile a quello di un dipendente di fronte a un CEO votato a vendere il proprio prodotto (ovvero, aumentare il numero degli iscritti) cercando di accaparrarsi la simpatia dei potenziali acquirenti (leggasi i genitori degli allievi) promettendo promozioni facili a scapito della qualità dell’insegnamento e, poiché il cliente ha sempre ragione, ne consegue che qualsiasi dissapore gli allievi sperimentino in ambito scolastico viene ritorto dai solerti genitori di questi (interessati non alla crescita della loro progenie ma solo all’acquisizione del “foglio di carta”), in una punizione per l’insegnante. Che pertanto viene pian piano condizionato a dar buoni voti “a prescindere” e finanche, a volte, a dover sopportare a testa china vere e proprie ingiurie inferte da giovani che sono stati portati a vedere nella scuola solo una fornitrice di diplomi e non di formazione per non dire di educazione (termini il cui senso viene spesso impropriamente sovrapposto),

Terzo punto: l’aspetto economico. Troppo lo stipendio per chi per contratto lavorerebbe 18 ore la settimana? È questo il sentire comune. Quanta energia, anche fisica, richiedano quelle ore e quanto altro tempo difficilmente quantificabile richieda una seria preparazione delle lezioni ed un’accurata correzione degli elaborati nonché un aggiornamento costante sulla realtà sociale e scientifica in continua evoluzione, per non parlare di quello dedicato al dialogo individuale con gli studenti e le loro famiglie lo sanno bene tutti coloro che hanno sperimentato l’insegnamento come impegno di lavoro. E a tutto questo si sommino le ore dedicate ai Consigli di classe, ai Consigli di istituto nonché agli scrutini. La lentezza poi di ogni pagamento per prestazioni extra (ore di supplenza, attività come coordinatori e così via) è tale che difficilmente si riesce a verificare l’esattezza delle somme percepite. Sempre che veramente arrivino. Evito il riferimento ai miei casi personali, credo che mi crederà sulla parola se Le dico che ho avuto esperienze molto negative al riguardo.

Ma alla base di tutto si trova, onnipresente, una fondamentale mancanza di rispetto. Perché pagare chi lavora è una questione di rispetto; non essere trattati come perfetti estranei ed intrusi quando si sostituisce un collega in un’altra classe è una questione di rispetto; essere apprezzati per la serietà di svolgimento del proprio lavoro, per la correttezza nei confronti di allievi, genitori e colleghi, per la puntualità e lo sforzo di ridurre al minimo le proprie assenze, per l’impegno ad apprendere di più … è rispetto. E il rispetto nella scuola italiana è assai scarso.

Ho parlato della frustrazione dell’insegnante ‘in Italia’. Purtroppo non si guarda quasi mai ai sistemi scolastici stranieri, come se non ci fosse nulla da imparare dagli altri. Non è così. Negli ultimi anni di lavoro, dopo aver superato gli esami per l’insegnamento all’estero, ho insegnato in una delle quattordici scuole dell’Unione Europea. È stata un’esperienza importantissima che mi ha indotto a svolgere molte riflessioni sul sistema scolastico italiano. Esperienza di cui, ancora una volta, non importa nulla a nessuno: all’insegnante che termina la ‘missione’ non è richiesta una relazione finale, neppure sotto forma di compilazione di un questionario. Tante conoscenze acquisite: il loro valore rimane relegato al singolo individuo. Tutto l’iter di un insegnante è contrassegnato da ciò: qualsiasi titolo culturale si aggiunga a quelli indispensabili per l’ingresso in ruolo viene totalmente ignorato (eppure un bagaglio culturale più ampio comporta un arricchimento che di solito si traduce in una forma di insegnamento più moderna ed efficace); l’esercizio di incarichi di una certa importanza (ad esempio la vicepresidenza) al di fuori dell’istituto in cui la si svolge, non riceve alcuna valutazione.

Nella Scuola Europea ho anche constatato quanto il rispetto verso il docente sia utile al buon funzionamento dell’istituzione. Non mi riferisco al fatto che in essa non si possa incontrare l’alunno monello che risponde male oppure il genitore che contesta con insolenza l’operato dell’insegnante. Mi riferisco al rispetto da parte del dirigente, che deve anche valutare i propri insegnanti e per questo si impegna a conoscerli personalmente e a verificare il lavoro effettivamente svolto. Mi riferisco al rispetto da parte della segreteria, che riceve l’insegnante facendolo accomodare in ufficio e ne ascolta le richieste, che paga puntualmente anche solo un’ora in più di supplenza, che eroga i documenti richiesti senza farsi sollecitare più volte. Mi riferisco al rispetto da parte di tutti gli allievi della scuola, indipendentemente dall’appartenenza a una certa sezione o ad una certa classe. Nessun insegnante in Italia sostituisce volentieri anche solo per un’ora il collega di un’altra classe/sezione: sa bene che lo aspetta il compito assai sgradevole di chi è trattato come un intruso.

Un docente, inoltre, vorrebbe soprattutto insegnare, non occuparsi del disbrigo di una quantità di altre incombenze. Nella Scuola Europea c’era una figura dedicata a ciò: il consigliere pedagogico. I suoi compiti erano numerosi e assai vari: fondamentalmente fungeva da mediatore tra alunni, insegnanti e famiglie, cercando di aiutare gli allievi a risolvere i problemi che ostacolavano la loro buona riuscita negli studi, dedicando a questo tutto il tempo necessario. Perché non adottare una figura di questo tipo anche nelle nostre scuole? Si tratta di un ruolo che potrebbe essere ben ricoperto anche da un insegnante con esperienza che, dopo anni di lavoro in classe, fa fatica a continuare questa attività o da una persona con una competenza pedagogica strutturata.

Ecco: sono solo alcune osservazioni maturate dopo un lungo periodo di insegnamento. Senza dubbio molti altri insegnanti potrebbero svolgerne di altre e magari ancor più approfondite. Sono convinta che ne potrebbero scaturire suggerimenti per migliorare la scuola, uno degli istituti fondamentali, forse il più importante, per il buon funzionamento della Repubblica.

Confido voglia prendere in considerazione queste mie parole: quale massimo responsabile della scuola italiana Ella saprà se possano, seppure in piccola parte, contribuire a renderla migliore.

Ringraziandola per l’attenzione dedicatami, le invio il mio augurio di un sereno e proficuo lavoro,

Ester Intra

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