“Il degrado viene dai vertici. In 25 anni di docenza universitaria ho visto un peggioramento etico anche nelle grandi facoltà di élite degli Stati Uniti: il potere delle grandi imprese ha fiaccato il senso etico tra molti professori. Ovunque vediamo un’epidemia di comportamenti criminali e corrotti ai vertici del capitalismo. Gli scandali bancari non sono delle eccezioni né degli errori, sono il frutto di frodi sistemiche, di un’avidità e di un’arroganza sempre più diffuse. Anche in Europa ormai le banche contano più dei governi. Nel mondo s’impongono i metodi cinici alla Rupert Murdoch. Non è una decadenza generalizzata della società civile, è un fenomeno che riguarda prevalentemente le élite, sono loro ad avere un senso del privilegio, dei diritti acquisiti. Voi avete Berlusconi, in altre nazioni il connubio avviene in modo indiretto; il risultato però è sempre di creare nel pubblico un rumore di fondo, confusione e distrazione dai problemi veri”.
Jeffrey D. Sachs, Columbia University, 2012
Il problema non è Enron. Enron è solo un caso di corruzione illegale. Il vero problema è la corruzione legale. E’ la corruzione dei manager. Ci sono troppi manager mercenari che gestiscono le società solo per quello che loro pensano essere il beneficio degli azionisti e ad esclusione di ogni altro. Le imprese sono istituzioni sociali. Se esse non svolgono attività utili alla comunità, esse non hanno diritto di esistere… Una gran parte del management è fuori strada. Una gran parte della formazione manageriale è fuori strada”.
Henry Mintzberg, 2003
“Le banche non sono fatte per pagare stipendi ai loro impiegati o per chiudere il loro bilancio con un saldo utile; ma devono raggiungere questi giusti fini soltanto col servire nel miglior modo il pubblico”.
Luigi Einaudi, Aprile 1945
INDICE – Il banchiere e il lavoro di Dio – Finanziarizzazione dell’economia e concentrazione della ricchezza – Finanziarizzazione dell’economia, concentrazione della ricchezza e corsa alle grandi dimensioni bancarie – Il Vitello d’Oro – Ma com’ è la situazione, a livello internazionale? (USA ed Europa) – USA [1] – Europa – E come è la situazione italiana? – La ricostruzione del Paese e la politica creditizia. Contro l’omogeneizzazione. – Sappiamo benissimo cosa fare. La grande correzione di marcia e l’illusione tecnocratica. – La responsabilità dei cristiani – Bibliografia essenziale “Ils nous on fait croire que l’ont pouvait créer de la valeur à partir de rien. Et le piège spéculatif s’est refermé sur nous ». Pierre-Yves Gomez
IL BANCHIERE E IL LAVORO DI DIO
« Io sono solo un banchiere che fa il lavoro di Dio ». Così descriveva la sua attività, sul Sunday Times dell’8 novembre 2009, Lloyd Blankfein, presidente e direttore generale di Goldman Sachs. La definizione del mestiere di banchiere formulata, senza ombra di ironia, dallo sciagurato direttore di Goldman Sachs contiene alcune fondamentali verità.
Essa, infatti, illustra:
1. Lo smisurato senso di potenza che nutrivano, e ancora nutrono, i grandi banchieri, capaci di creare moneta, in misura illimitata, ex nihilo; privi di ogni vincolo e limite; liberi dalla sanzione del fallimento perché “too big to fail”; certi che, in caso di crisi, saranno salvati dai governi con i soldi dei contribuenti, senza condizioni, come avvenne nel 2008-2009; se non, come pure sono stati definiti, signori dell’Universo, certamente padroni del governo e del parlamento degli Stati Uniti e di molti altri paesi. Sin dal 1996, H. Tietmayer, all’epoca presidente della Bundesbank, poteva affermare: “A volte ho l’impressione che la maggior parte dei politici non abbia ancora capito quanto essi siano già oggi sotto il controllo dei mercati finanziari e siano persino dominati da questi”. 2. Il fatto che non si può parlare delle banche nell’ambito della crisi, se non inquadrando il fenomeno nel più ampio e sconvolgente fenomeno della finanziarizzazione dell’economia che si è impadronita del mondo negli ultimi 30 anni e che è stato solo scalfito dalla crisi del 2007-2014. 3. Che, conseguentemente, è tecnicamente errato parlare di banche in senso generale e generico. Le banche, come categoria unitaria, non esistono. E uno degli errori fondamentali degli enti di governo dell’attività bancaria è proprio di ignorare, spesso, questa fondamentale verità, trattando, sostanzialmente, tutte le banche allo stesso modo, come se si trattasse di un unico genere. Invece esistono le banche di emissione e le banche operative, le banche d’affari e le banche commerciali, le banche d’investimento e le banche di deposito, le banche universali e quelle specializzate, le banche di credito immobiliare e quelle di credito industriale, quelle internazionali e quelle nazionali, quelle nazionali e quelle territoriali, quelle gigantesche e quelle medie e piccole, quelle regolamentate e quelle ombra (shadow banking). Trattarle unitariamente senza distinguere le varie specie, sarebbe come trattare insieme e unitariamente, in quanto volatili, le aquile e i passeri. Questa mia impostazione apre, ovviamente, un discorso vastissimo che, necessariamente, non potrò toccare che per sommi capi. Tuttavia toccherò tutti quei punti che a me sembrano essenziali, anche se non potrò svilupparne, in modo adeguato, le necessarie dimostrazioni.
FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA E CONCENTRAZIONE DELLA RICCHEZZA
Il processo di finanziarizzazione che si è impadronito del mondo occidentale a partire dal 1980 è sintetizzabile in poche cifre. Nel 1980 gli attivi finanziari erano pari al PIL mondiale (27 trilioni). Nel 2007 gli attivi finanziari erano pari a 4 volte il PIL mondiale (240 trilioni contro circa 60 trilioni) ed oggi la situazione non è granché cambiata, anzi credo che sia peggiorata. Nello stesso periodo, in 51 paesi sui 73 per i quali abbiamo dati affidabili, i redditi da lavoro sul PIL sono scesi di 9 punti in media nelle economie avanzate, di 10 punti in Asia, di 13 in America Latina. I punti persi sono andati alle rendite finanziarie. Contestualmente e conseguentemente è avvenuta una gigantesca concentrazione di ricchezza. Riferendosi agli USA, epicentro e guida del processo, la concentrazione di ricchezza e di redditi ha raggiunto nel 2007 esattamente lo stesso livello del 1928. In Europa i paesi che hanno seguito più da vicino gli USA sono stati Inghilterra, Spagna, Italia. Per questo la crisi non solo era prevedibile ma annunciata (Zamagni 2009) e inevitabile (Vitale 2001). La scheda che segue è la sintesi più chiara di quello che è successo. Essa racconta tutta la storia.
Concentrazione dei redditi negli USA
Percentuale di reddito controllato dell’1% più ricco della popolazione. Nel 1928 tale 1% controllava il 23.9% del reddito totale, la stessa percentuale che è tornato a controllare nel 2007. Nel mezzo il grande avallamento della curva rispecchia il trentennio d’oro del capitalismo democratico, nel corso del quale la ricchezza è stata democraticamente distribuita tra la maggioranza della popolazione.
Ma la scheda successiva è ancora più significativa del fenomeno della finanziarizzazione come strumentale al processo di concentrazione della ricchezza, perché pone in relazione la stessa curva della concentrazione della ricchezza con l’introduzione del Glass–Steagall Act (giugno 1933), con la sua eliminazione (novembre 1999) e con la frequenza dei fallimenti bancari.Glass-Steagall Act, concentrazione della ricchezza, fallimenti bancari
Ma la finanziarizzazione non è solo numeri; è pensiero, comportamenti, cultura, morale. E’ diventata un modo d’essere e di vedere e governare il mondo. I parametri finanziari si sono imposti come misura di tutte le cose e determinano, in modo schiacciante, anche le scelte economiche, d’investimento e creditizio. Il merito di credito è sempre più determinato dall’applicazione, sempre più meccanica anzi computerizzata, di questi parametri. Pian piano, soprattutto nelle maggiori imprese, gli innovatori, gli ingegneri, i creatori sono stati spinti in un angolo ed il potere è passato agli ex contabili, diventati gestori del potere economico. Il lavoro, la qualità del lavoro, la dignità del lavoro, non conta più niente [1]. Per questo la nostra economia si è grippata profondamente e il suo tasso di innovazione è caduto a livelli bassissimi, nonostante le varie apparenze di Internet & Co, come ha analizzato l’economista americano Tyler Cowen nel suo “The Great Stagnation” (2011), che è stato definito dal New York Times: “The most debated nonfiction book so far this year”. Fino a quando non porremo mano seriamente a queste disfunzioni fondamentali e non ripristineremo un’economia dell’innovazione e della produzione, con una visione di sviluppo a lungo termine, continueremo a pestare acqua nel mortaio. Come scrive Cowen: “In the meantime, we need to be prepared for a recession that could last longer that we are used…. furthermore, every time a politician talks about a quick recovery, it makes the problem a little bit worse”[2].
FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA, CONCENTRAZIONE DELLA RICCHEZZA E CORSA ALLE GRANDI DIMENSIONI BANCARIEI processi di finanziarizzazione dell’economia e della concentrazione della ricchezza sono due anelli di una catena che si allunga con l’anello della corsa alle grandi dimensioni bancarie, attraverso le concentrazioni bancarie. Nel 1999, a seguito della prima ondata di concentrazioni bancarie, i governi dei principali paesi, le rispettive banche centrali, i maggiori organismi finanziari internazionali istituirono un gruppo di lavoro che, nel 2001, fornì un ponderoso rapporto, chiamato, dal nome del suo presidente, rapporto Ferguson3. Questo eccellente rapporto poneva in luce, con chiarezza, che la maggior parte dei presunti vantaggi del processo di consolidamento bancario (economie di scala, maggiore efficienza) ha scarso fondamento, che il processo di consolidamento aumenta il rischio sistemico e stimola il “moral hazard” della singola banca e che dal consolidamento “emerge l’esigenza di promuovere e continuare a sviluppare, in alcuni casi a ritmo accelerato, politiche appropriate”. Come tante cose intelligenti, serie e utili, ma contrarie alla moda corrente, il rapporto Ferguson fu archiviato negli uffici studi delle banche centrali, ignorato e dimenticato. Il processo di concentrazione continuò con più forza e velocità di prima in tutti i Paesi, compresa l’Italia, senza guida, senza pensiero e senza quelle “politiche appropriate” che il rapporto Ferguson auspicava.
Molti pensano che tale processo sia stato soprattutto americano. Luciano Gallino, in uno dei libri più importanti, documentati e lucidi sull’argomento [4] dimostra che non è vero e che il sistema bancario europeo ha dato allo stesso un formidabile contributo: “A fine 2007 tra i primi venti gruppi bancari del mondo per volume degli attivi, ben 14 erano europei, di cui due svizzeri. Due erano giapponesi, uno cinese. Quelli americani erano solo tre (Citigroup, Bank of America, JP Morgan)…. In totale le banche europee detenevano attivi per 28,2 trilioni di dollari… Per contro gli attivi delle tre banche USA incluse nell’elenco delle top venti ammontavano in tutto a 5,5 trilioni di dollari”. Sempre basandomi sui dati accuratamente vagliati e documentati da Gallino, tra il 2000 e il 2008 le banche europee, tra i titoli emessi in proprio e quelli acquistati in America, hanno immesso nel sistema finanziario europeo circa 7 trilioni di euro, pari a quasi la metà del Pil dell’Unione. Ai dati del sistema bancario in senso stretto vanno aggiunti i dati del cosiddetto sistema bancario ombra (shadow banking) che è stimato, sia in USA che in UE, pari al volume del sistema bancario normale. Non posso addentrarmi nelle origini e struttura del sistema bancario ombra, ma certamente posso aderire alla conclusione di Gallino: “Fino a quando non si procederà a una drastica regolazione e riduzione del sistema bancario ombra, nel quadro di una riforma dell’intero sistema finanziario europeo, sarà impossibile conoscere quale sia la situazione reale delle banche europee”. Le dimensioni colossali dell’Eurofinanza che, globalmente, assomma a sei volte il Pil dell’Eurozona (60 trilioni di euro contro 10), si manifestano anche nel fatto che molte banche europee hanno dimensioni smisurate in rapporto al Pil del Paese di residenza. Negli USA nessuna banca americana possiede più di un ottavo del PIL USA. In Europa, secondo il rapporto Liikanen, presentato alla Commissione Europea nell’ottobre 201 su: “Come riformare la struttura del sistema bancario della UE”, nel 2011 esistevano nella UE nove gruppi bancari i cui attivi superavano 1 trilione di euro e otto banche europee avevano attivi che superavano il 100 per cento del Pil del loro Paese. La banca più grande (Deutsche Bank) faceva registrare, da sola, attivi corrispondenti al 17 per cento del PIL aggregato della UE: 2,2 trilioni di euro su 14.
La dissennata corsa, ad ogni costo, alle grandi dimensioni, nonostante l’allarme del rapporto Ferguson e dei cinque o sei patetici grilli parlanti in Europa, tra i quali si annovera chi scrive, mostra il suo vero volto. Essa serve solo ai grandi dirigenti ed azionisti. A renderli impuniti, ad arricchirli a dismisura, a diventare “too big to fail”, a rendere i rischi sottostanti mascherati e illeggibili, a farli sentire come Dio, come confessò candidamente lo sciagurato direttore della Goldman Sachs dal quale ho preso le mosse. Ma per perseguire sino in fondo le grandi dimensioni occorreva l’ultimo anello, quello della selvaggia liberalizzazione o deregolamentazione bancaria5 , che favorisce ed incentiva questa dissennata corsa, spazza via banche territoriali storiche (come da noi la Cariplo e tante popolari di qualità) e rende possibile, per fare un solo esempio, al Monte dei Paschi di Siena di fare acquisizioni insensate a valori insensati, distruggendo un patrimonio costituito dai piccoli risparmi accumulati in 600 anni6. Come non condividere, allora il giudizio di Gallino? “Dinanzi alle sue cause e conseguenze, la crisi esplosa nel 2007 può essere definita come il più grande fenomeno di irresponsabilità sociale che si sia mai verificato nella storia”. Con la corsa alla finanziarizzazione, alle grandi dimensioni, al sistema bancario ombra diminuisce il servizio all’economia reale, cioè la funzione tradizionale primaria delle banche ordinarie: ricevere i depositi dei risparmiatori, gestirli con grande rispetto, investirli in misura prudenziale nelle attività produttive che creano nuova produzione, nuovo lavoro, innovazione, sviluppo, benessere per i cittadini e per le città. Il grosso del sistema bancario, formato ormai da banche universali, sia private e grandi (come BNP o Unicredit), sia pubbliche come le banche regionali tedesche (Landesbanken)[7], oltre alle solite grandi americane, si è indirizzato sempre di più verso attività che producono maggiori entrate dagli investimenti e dalla speculazione per conto proprio più che dall’impiego a fini produttivi del risparmio che gestiscono. Privilegiati vengono i prestiti per le operazioni di finanziamento di altri operatori finanziari (acquisizioni, fusioni, investitori di equity, investitori in borsa e simili)per il loro maggiore rendimento formato sia da interessi che da commissioni (esempio: Parmalat, Zaleski, le operazioni di acquisizione a leva dei fondi chiusi). D’altra parte come avrebbe potuto altrimenti il presidente della Deutsche Bank, Josef Akermann, impegnarsi pubblicamente ad assicurare ai suoi azionisti un rendimento minimo del 25 per cento annuo sul capitale investito?
La funzione di utilizzare il credito ordinario a favore dell’apparato produttivo diffuso e di minori dimensioni, si sposta sempre di più sulle banche minori e territoriali che non si sono fatte travolgere dalla finanziarizzazione e dalla corsa forsennata alla crescita dimensionale. Ciò è vero da noi con la rete delle banche di credito cooperativo (le BCC), con quello che resta delle banche popolari, con la pattuglia residua delle banche private minori che sono sempre state fedeli al loro ruolo tradizionale di finanziatori dell’economia produttiva diffusa8. Ma anche in Germania è in crescita il ruolo delle casse di risparmio (Sparkassen) che hanno svolto e svolgono un ruolo prezioso. Sono 450 e coprono il 70 percento del credito alle imprese minori produttive. In Inghilterra, paese privo di una rete di banche locali, queste coprono solo l’1 per cento del mercato. La corsa alla finanziarizzazione dei servizi ed alle grandi dimensioni ha, inoltre, massacrato intere culture bancarie di alto valore (penso da noi alla Cariplo, all’IMI), forti capacità professionali di esercitare il credito industriale a medio lungo termine (IMI, Mediocrediti locali), una stretta vicinanza alle imprese ed una capacità di leggerne la realtà vera fatta di cifre ma anche di intangibili, sostituendo tutto ciò, spesso, con una poltiglia incompetente e indecifrabile nei casi peggiori e con un forte caos organizzativo nei casi migliori. Ciò che è stato distrutto è distrutto (ed io imputo alla Banca d’Italia la responsabilità maggiore di non essere stata capace di guidare il processo evitando questa opera distruttiva) e ci vorrà molto tempo per ricostruirlo. Per fortuna, in alcuni istituti, la ricostruzione è ricominciata ma ci vorrà molto tempo da noi per ricostruire un sistema bancario decente. Sempre che non si senta, un’altra volta, l’attrazione del Vitello d’Oro, come molti segnali di pericolo indicano.
IL VITELLO D’OROIn realtà un processo simile a quello della finanziarizzazione degli ultimi trent’anni, è già documentato nella storia. E’ quello che troviamo nei capitoli 32 e 33 del libro dell’Esodo che parlano del Vitello d’Oro. Mentre Mosè è sul monte a parlare con il Signore e ad ascoltare i suoi insegnamenti, il popolo reclama una nuova guida che faciliti loro la vita e, su richiesta di Aronne, conferisce, per tale scopo, allo stesso tutti gli orecchini d’oro di mogli, figlie e figli che, fusi da Aronne, diedero vita al Vitello d’Oro, il nuovo idolo da adorare [9]. E il popolo di Israele adorò il nuovo idolo d’oro, tratto dai suoi stessi risparmi, simbolo di una nuova, più facile vita. Quando Mosé, avvertito dal Signore scese all’accampamento con le tavole della legge, e vide le danze e sentì i canti intorno al Vitello d’Oro, si adirò grandemente, gettò le tavole che si spezzarono e punì gli idolatri. Ma, contemporaneamente, chiese al Signore il perdono per il popolo e l’aiuto a riprendere la marcia. Noi ci troviamo in condizioni peggiori di quelle del popolo d’Israele. Perché loro avevano Mosé che sa indignarsi e scuotere, con durezza, il popolo ma, allo stesso tempo, intercedere per lui presso il Signore, convincendolo ad aiutarli nuovamente a riprendere la marcia verso la terra “ove scorrono il latte e il miele” ed a riscrivere le tavole che Mosé, nell’ira, aveva gettato e spezzato. E Dio fece ciò che Mosé gli chiedeva, pur senza essere del tutto convinto. Infatti dice: “Manderò un angelo…. Io però non verrò perché siete un popolo di dura cervice e dovrei sterminarvi nel viaggio”, e aggiunge: “Il mio angelo ti precederà. Io poi, nel giorno del castigo, punirò anche questa loro scelleratezza”. Dunque il Signore, come prega Mosé, rinnova l’alleanza e aiuta Mosé e il suo popolo a riprendere la marcia ma non cancella il ricordo dell’idolatria del Vitello d’Oro che, a tempo debito, sarà, comunque, punito.
MA COM’È LA SITUAZIONE, A LIVELLO INTERNAZIONALE? (USA ED EUROPA) Abbastanza cattiva. Forse è esagerato affermare che non si è combinato niente di serio, come pure molti commentatori affermano ma, certamente, la sostanza della rappresentazione non è sostanzialmente cambiata. Lasciamo parlare i fatti. REPETITA IUVANT – Per ogni operazione reale ce ne sono 20 finanziarie contro le 4-5 di alcuni anni fa. – Le grandi banche americane sono tornate a fabbricare Cdo, i titoli definiti tossici. – I mercati finanziari valgono oggi 740 mila miliardi, 20 mila in più rispetto al 2007 e quasi dieci volte il PIL mondiale. – La BRI stima che i derivati ammontino a 633 mila miliardi di euro, contro i 396 mila del 2007. – Le cartolarizzazioni sono oggi più voluminose rispetto alla fase pre-crisi. – I fondi di private equity sono tornati a strapagare le aziende finanziandosi con un’alta leva a debito. – Molti investitori sono tornati a indebitarsi per comprare azioni a Wall Street. Si stima che i debiti accesi per tale scopo rappresentino un nuovo record. – Sono molti gli analisti che pensano che a Wall Street sia in atto una nuova bolla. – Sono tornati i mutui subprime non più solo sugli immobili ma anche per l’acquisto di automobili. – Lo “Shadow banking” è in forte crescita10. – Nel primo trimestre del 2013 sono stati emessi Cdo (collateralized loan obligation ) per 27 miliardi di dollari, sui livelli del 2007. – I finanziamenti delle banche ai fondi di investimento chiusi stanno riesplodendo. Deutsche Bank ha concesso una linea di credito di 3.6 miliardi di dollari al gigantesco fondo Black Rock11. – Stanno aumentando le operazioni di grandi indebitamenti ottenuti solo per poter pagare alti dividendi. – Le emissioni di junk bond sono in grande aumento anche in Europa. – Secondo i più competenti analisti le 5-6 maggiori banche americane si apprestano a concludere il 2013 con 100 miliardi di profitti, tutti tratti non da investimenti produttivi ma da operazioni finanziarie speculative. – Conseguentemente anche i compensi stravaganti dei grandi manager hanno ripreso a volare.Non tutti gli strumenti finanziari sopra ricordati vanno demonizzati, e la ripresa di alcuni di loro può anche rappresentare un segnale positivo di nuova vitalità del sistema. Ad esempio l’Economist dell’11 gennaio 2014 giudica molto positivamente la ripresa delle cartolarizzazioni [12]. Come sempre sono gli obiettivi e le modalità attuative che fanno la differenza. Un elemento di conforto è rappresentato dal fatto che sia la guida della BCE (Draghi) che quella della FED (al presidente Janet Yellen è stato affiancato il vice- presidente Stanley Fisher, persona di altissimo livello e di esperienza e saggezza), sono in ottime mani. Tuttavia troppi sono i segnali che indicano che è iniziata una nuova festa da ballo a bordo del Titanic, mentre un nuovo iceberg si sta maledettamente avvicinando. La verità è che i temi decisivi non sono stati affrontati e risolti: – non si sono fatti passi effettivi per diminuire il tasso di finanziarizzazione dell’economia, né sul piano strutturale e operativo né tantomeno sul piano concettuale, politico e morale; – non si è affrontato il problema delle abnormi dimensioni di alcuni gruppi bancari sia americani che europei, “too big to fail”, e, quindi, dello spropositato potere che essi, organi privati e oligarchici, esercitano sulle strutture pubbliche e democratiche e sulla vita dei cittadini, potere che è poi la premessa che permette loro di appropriarsi di un surplus spropositato; – non si è risolto il problema della divisione tra banche commerciali o di deposito e banche d’affari e d’investimento. Questi sono i tre punti chiave e se non si affrontano e risolvono questi, tutto il resto è aria fritta o quasi. Sono i punti sui quali si era impegnato Obama nella sua prima campagna elettorale e la sua ritirata su questo fronte rappresenta il suo grande tradimento.
USA
In verità negli USA qualche tentativo e qualche passo si è fatto più che in Europa. Ma la modestia dei risultati raggiunti da un lato e la potenza esibita dalle lobby delle grandi banche (dopo il loro salvataggio senza condizioni, con i soldi dei contribuenti, operato dal governo Obama) dall’altro, sono la più chiara dimostrazione dello squilibrio esistente tra potere finanziario e potere democratico a danno di quest’ultimo. Vi è stato un tentativo di una proposta di legge seria per mettere ordine nella giungla finanziaria ( il Dodd-Frank and Consumer Protection Bill) che, dopo una spasmodica battaglia parlamentare, è diventato legge. Ma è arrivato al traguardo estremamente diluito e molte delle sue prescrizioni sono rimaste sulla carta o perché la loro applicazione è rinviata nel tempo o perché viene subordinata a decisioni regolamentari degli enti di controllo che tardano a venire (tra questi ad esempio di decisiva importanza il “leverage ratio” cioè il rapporto tra il totale delle attività rispetto al capitale azionario di una banca, parametro decisivo per determinare il rendimento del capitale della banca). Recentemente (10 dicembre 2013) la stampa internazionale ha salutato, con grande enfasi, un altro passo importante. Le cinque autorità di mercato competenti hanno, dopo una battaglia durata cinque anni, approvato la c.d. “Volker rule” dal nome dell’ex presidente della Federal Reserve che l’ha proposta sin dal 2008. Entrerà in vigore il 1 aprile 2014 e sarà totalmente applicabile dal 21 luglio 2015. Il principio Volker è in se molto semplice e assolutamente ovvio. Stabilisce che le banche non possono fare operazioni speculative in proprio (“proprietary trading”) ma solo per conto dei clienti. Si tratta dell’ABC di un’attività bancaria seria e responsabile. Si tratta anche di un sostituto della separazione tra banca di deposito e banca d’affari, che resta la soluzione maestra. Preso atto che le possibilità di perseguire quest’ultimo obiettivo (praticamente ripristino del Glass-Steagall Act) erano inesistenti, Volker, intelligentemente, è ripiegato su questo obiettivo subordinato. Si tratta di un passo, comunque, importante, salutato da Obama con queste parole: “Da oggi l’America ha un sistema finanziario più sicuro. Abbiamo stabilito che è illegale usare denaro assicurato dal governo (i depositi bancari che godono della garanzia della FDIC, ndr) per fare scommesse che mettono in pericolo la stabilità di tutto il sistema. Oggi inizia una nuova era di responsabilità dei capi di questi organismi creditizi, che dovranno dar conto più puntualmente del loro operato”. L’importanza concettuale di questo passaggio è assoluta. In sostanza si dice ai banchieri: dovete smetterla di fare i pirati e dovete tornare a fare i banchieri. L’importanza pratica di questo regolamento è, invece, da vedere. Dopo una battaglia di cinque anni è alla fine venuto fuori un regolamento di 963 pagine con 2826 note a piè di pagina, pieno di distinzioni ed eccezioni che sembrano fatte apposta per rallegrare gli uffici legali delle lobby bancarie. Già gli araldi del potere bancario sono in movimento. Così l’Economist del 14 dicembre 2013 intitola: “ The Volker rule. More questions than answers”. Uno degli argomenti delle lobby bancarie è che questi interventi diminuiscono la redditività delle grandi banche. Non vogliono rendersi conto che ciò, lungi dall’essere un timore, è uno dei grandi obiettivi faticosamente perseguiti, indispensabile per ripristinare un minimo di democrazia economica. Nel 1933 Roosvelt introdusse il Glass-Steagall Act in tre mesi.
EUROPAIn Europa le cose vanno ancora peggio che in USA, probabilmente perché le grandi banche soprattutto, in Germania e Francia, hanno un peso spropositato sul PIL nazionale e quindi il loro peso politico sui governi nazionali e, attraverso questi, sui regolatori europei, è ancora più forte di quello che le grandi banche esercitano sul governo e, soprattutto, sul parlamento USA. A ciò si aggiunga la complessità dei processi decisionali nell’ambito della UE e la necessità, ogni volta, di negoziare che cosa resta di competenza dei singoli paesi e che cosa diventa di competenza degli organismi europei e trovare accettabili compromessi sulle posizioni divergenti. Recentemente la Commissione Europa ha commentato l’approvazione di una proposta di riforma del sistema creditizio. La notizia è stata accolta dai più con molto favore. Tale favore è del tutto infondato. Sul tema centrale, quello della separazione tra le attività di credito ordinario e le attività speculative di trading in proprio, le indiscrezioni emerse indicano che la Commissione Europea è orientata verso una soluzione “leggera”, molto più leggera della pur insoddisfacente soluzione americana, ancora più leggera della proposta insoddisfacente elaborata dal comitato di esperti detto, dal suo presidente, comitato Liikanen, e della commissione inglese Vickers, che sta lavorando sulla stessa materia, anch’essa insoddisfacente ma più incisiva di quella proposta dalla Commissione Europea. La proposta europea, come risulta dalle indiscrezioni emerse, è assolutamente insufficiente e confusa, se è vero che un commentatore, competente e sempre molto equilibrato, come Marco Onado intitola il suo commento13: “Banche e regole. Speculazioni, pasticcio all’europea” e conclude con queste parole: “L’Europa ci ha abituato a soluzioni di compromesso, ma quello che sta emergendo rischia di essere un’altra occasione perduta. Dice di voler tagliare gli artigli alla speculazione e invece dà solo una limatina alle unghie e soprattutto rischia di rendere la costruzione dell’Unione bancaria ancora più difficile”. Ormai è, comunque, chiaro, che le autorità europee ed i rispettivi governi sono ancora più succubi del grande potere bancario di quanto lo siano il governo e il parlamento americani.
E COME E’ LA SITUAZIONE ITALIANA[14]? Anche la situazione in Italia è abbastanza cattiva, anche se per ragioni, in parte, diverse ed è, forse, meno cattiva che in altri paesi. L’allegata tabella dimostra che le grandi banche italiane sono meno esposte delle altre grandi banche europee alle tentazioni della finanza speculativa.Commenta Coltorti: “Le banche italiane hanno dunque mantenuto una propensione da giudicare elevata al finanziamento dei clienti (imprese e famiglie) puntando meno alle operazioni puramente finanziarie che sono state le responsabili della grande crisi nel 2007” e aggiunge una riflessione molto importante: “Il sistema bancario italiano, visto nel suo insieme e nei maggiori gruppi, è stato dunque esaminato dal lato del supporto al sistema produttivo e alla ricchezza delle famiglie. Sono apparsi evidenti le caratteristiche che lo differenziano dagli altri sistemi, soprattutto per quanto riguarda la maggiore propensione al finanziamento della produzione e delle famiglie. Si tratta di un fattore positivo che può diventare una vera forza competitiva per il Paese ove i processi gestionali vengano ricondotti ad obiettivi consoni agli interessi dei clienti; il che significa saperne interpretare esigenze e difficoltà provvedendo un’assistenza che ne sostenga al tempo stesso il merito di credito. Un risultato che può essere ottenuto anche con un rafforzamento della base patrimoniale dei maggiori istituti, riducendone la leva e le conseguenti tentazioni puramente speculative”. Questo aspetto relativamente positivo va riconciliato con due altri fattori negativi. Il primo è la grande distruzione di valore che ha avuto luogo nelle banche italiane. Sul piano borsistico la dinamica delle banche italiane è stata la peggiore in assoluto: “Assumendo i valori degli indici total return (cioè che tengono conto del reddito dai dividendi) dal 31 gennaio 2001 al 31 dicembre 2012 gli istituti italiani hanno perduto il 64% del loro valore contro una media europea del 32% e statunitense del 27%. In Europa le azioni bancarie francesi e spagnole hanno chiuso a livelli praticamente invariati; le tedesche hanno perduto il 56%, dinamica ampiamente giustificata dalle loro gestioni[15]”. (Coltorti).
Credo che questo fatto sia conseguenza del non sempre adeguato livello del top management bancario italiano, ma anche del modo disordinato, senza pensiero e senza guida, con cui è stato condotto il processo di consolidamento bancario, come già in precedenza illustrato. Un processo, in parte inevitabile, ma che è stato condotto con scarso rispetto di culture bancarie preesistenti che andavano meglio rispettate, con una grande capacità distruttiva e scarsa capacità costruttiva, con una elevata confusione manageriale che hanno portato alcuni dei maggiori gruppi in un caos organizzativo, dal quale stanno ora faticosamente cercando di uscire, con un forte appiattimento della capacità creditizia e l’impropria diffusione di “automatismi” decisionali. La necessità di ricostruire, sotto un profilo manageriale, buona parte del sistema bancario, potrebbe essere l’occasione per ricominciare a pensare ed a porre il sistema a servizio del cliente, delle imprese e delle famiglie. Scrive molto bene Coltorti: “Potrebbe essere infine l’occasione per spingere gli istituti a rivedere i processi che regolano l’istruttoria delle pratiche di fido, in modo che vengano condotte in modo rigoroso con minori “automatismi”, ascoltando i bisogni delle imprese, valutandone i prodotti, i prezzi e i mercati attuali e potenziali, sollecitando inoltre l’adozione di metodi avanzati di controllo di gestione, spesso conosciuti attraverso i contatti con le imprese più efficienti. In questo modo la banca dissemina progresso tecnologico e organizzativo, un’esigenza ovvia in un paese come il nostro popolato essenzialmente di piccole aziende. Non da ultimo,quando si avvertono difficoltà impreviste, occorre dare assistenza prima che i problemi divengano irrisolvibili. In altre parole occorre conoscere il cliente intus et in cute (dentro e nella pelle). Senza rinunciare alle metodologie statistiche, va responsabilizzato il management a diretto contatto con l’imprenditore; il suo ruolo professionale – richiamando le parole di Francesco Cingano – deve essere nella “capacità di adesione e di sollecito appoggio alle iniziative che gli uomini d’affari (sanno) suggerire e proporre, apprestando ed apportando in queste iniziative non solo adeguati mezzi finanziari ma tecniche operative che (s’affinano) sempre più e spesso anche innovative tecniche gestionali”. Il problema è che non sempre sono disponibili negli istituti la competenza e la cultura manageriale per fare quanto auspica Coltorti. Anche qui si tratta di fare una vera e propria opera di ricostruzione, in primo luogo delle competenze e moralità manageriali. Il secondo fattore discutibile è la disponibilità di credito. Da tempo leggiamo di una continua riduzione del credito disponibile (“credit crunch”). Anche nel 2013, secondo il bollettino di novembre della Banca d’Italia, i finanziamenti alle imprese sono caduti del 6% nel sedicesimo mese consecutivo di “credit crunch”. Dal settembre 2011 il credito alle imprese si è ridotto di 96 miliardi, pari al 10,5%. Secondo un’indagine della BCE relativa al periodo ottobre 2012 – marzo 2013, solo il 45% delle imprese italiane ha ottenuto i finanziamenti bancari che aveva chiesto; la corrispondente percentuale delle imprese tedesche era dell’85- 90%, delle imprese francesi del 79- 73%, delle spagnole del 47-40%. La lettura corretta di questi dati è molto difficile. Non si può esaminarli senza porli in connessione con la crisi profondissima delle imprese italiane. Se è vero che abbiamo distrutto il 25% della capacità manifatturiera italiana come non collegare a questo fatto una forte diminuzione dei finanziamenti? E se è vero, come è vero, che l’incidenza dei crediti deteriorati sul totale dei prestiti ai clienti è in continuo e preoccupante aumento, se è vero che essa è 3-4 volte maggiore di quella rilevabile presso le maggiori banche europee, e se è vero, come è vero, che abbiamo visto l’emergere di situazioni, anche in banche minori, di concessioni di credito influenzate da amicizie, affiliazioni, leggerezze, influenze politiche o peggio, come non attendersi una più severa gestione del credito?
LA RICOSTRUZIONE DEL PAESE E LA POLITICA CREDITIZIA. CONTRO L’OMOGENEIZZAZIONE. La ricostruzione del Paese non si farà, non si deve fare con il credito facile. Ma con il credito bancario, sì! E qui si innesta una ultima riflessione assai importante. I 6 grandi gruppi bancari emersi dal processo di consolidamento non hanno aumentato la loro posizione creditizia sul mercato ma anzi l’hanno ridotta (perdendo 13 punti di mercato nel decennio 2002-2012), come risulta dalla seguente tabella tratta dal rapporto Unioncamere:
Questa può essere una buona notizia per i clienti e pone in luce come la funzione creditizia si sia, in parte, spostata verso le banche minori e territoriali. Senza concedere nulla alla retorica del piccolo è bello, non vi è dubbio che questa componente del mercato, caratteristica italiana e tedesca, riconfermi la sua importanza di sistema. Ma stretta tra crediti deteriorati in crescita, margini sempre più risicati, crescita dei costi, pressioni per maggiori capitalizzazioni, anche questa parte del sistema creditizio si muove tra crescenti difficoltà. Essa va sostenuta, perché ripristinare una buona salute a questa componente essenziale del sistema bancario è nell’interesse di tutti, imprese e famiglie in primo luogo. Un sostegno appropriato non vuol dire richiedere agevolazioni improprie, ma semplicemente una conoscenza ed un rispetto di questo mondo. E’ in atto una tendenza della Banca d’Italia che sembra in contrasto con questa esperienza. Si tratta dell’imposizione di regolamentazioni di “governance” sempre più pesanti, burocratiche, costose, elaborate sulle banche maggiori ed estese, indiscriminatamente, a tutte le banche minori, come se tutte le banche fossero uguali. E’ una tendenza non accettabile, pericolosa, dannosa, che rischia di indebolire anziché rafforzare una componente del sistema creditizio che, a prescindere da alcune degenerazioni, ha, proprio nel corso della crisi, dimostrato la sua capacità di essere vicino alle imprese e di sostenerle nelle situazioni difficili. Ho già detto della grossolanità con la quale è stato condotto il processo di consolidamento, senza distinzioni e articolazioni e facendo di ogni erba un fascio. Non ripetiamo l’errore! E’ necessario distinguere, distinguere! Le banche minori devono essere regolamentate con modalità adatte alle loro realtà. E poi dobbiamo ripristinare gli istituti specializzati di credito a medio termine, dove ricostruire quelle competenze specialistiche che esistevano negli anni dello sviluppo italiano e che sono andate disperse. E poi tutte le banche non possono essere universali! Insomma, completato il processo di consolidamento e auspicando che alcuni dei Top 6 escano dallo stadio organizzativo confusionale nel quale ancora si trovano, è necessario ripristinare quell’articolazione e varietà, anche culturale, del sistema creditizio italiano, che era una nostra ricchezza ed un nostro vanto. E’ questa la via maestra per ripristinare il mestiere del banchiere e salvarlo dall’appiattimento di stampo criminogeno che i grandi conglomerati finanziari internazionali stanno cercando di imporre a tutto il mondo, a loro immagine e somiglianza.
SAPPIAMO BENISSIMO COSA FARE. LA GRANDE CORREZIONE DI MARCIA E L’ILLUSIONE TECNOCRATICA
La verità è che sappiamo benissimo cosa fare. La prima e principale cosa è riportare i banchieri a fare i banchieri Cioè a raccogliere il risparmio e impiegarlo, non per se stessi ma, al servizio dei clienti della banca, per scopi produttivi che portino benefici ad un tempo ai propri clienti, alla banca stessa, alla collettività. Per realizzare questo obiettivo non possiamo contare sul senso di responsabilità dei banchieri. Uno dei vantaggi dei cinque anni di crisi è di avere messo a nudo che questo senso di responsabilità è totalmente inesistente. Devono essere obbligati a fare le cose giuste. Da soli non le faranno mai. Le cose principali da fare sono quelle ben formulate nel “Consiglio Pontificio Giustizia e Pace” del 24 ottobre 2011: – separare il mestiere della banca di deposito da quello della banca d’affari o d’investimento; – gli interventi dello Stato per salvare e ricapitalizzare banche in difficoltà non possono essere, come sono stati nel 2008-2009, eseguiti senza condizioni. Un intervento pubblico nelle banche in difficoltà deve essere subordinato a condizioni rigorose nella “governance”, per assicurare il controllo dell’impiego che verrà fatto del denaro dei contribuenti. Non possiamo continuare a socializzare le perdite e privatizzare i profitti; – imporre una tassa modesta ma generale e uguale per tutti sulle transazioni finanziarie. Se l’avessimo fatto a partire dal 2008 il debito sovrano che tanti problemi ha sollevato sarebbe stato contenuto ed avremmo ridotto la propensione dei banchieri a giocare al casinò, rispetto a quello di fare il mestiere di banchiere.
Quello che non sappiamo è piuttosto come farlo e con chi. La grande illusione che molti ancora coltivano è che ci penseranno i banchieri stessi a gestire meglio le cose con un maggiore senso di responsabilità. Molti, però, si sono resi conto che aspettare dai banchieri un esercizio di responsabilità, è pretendere da loro un atto contro natura. Ed allora ci si è rifugiati nella illusione tecnocratica. Saranno i grandi tecnocrati, i rappresentanti delle banche centrali, gli alti dirigenti bancari, i grandi accademici, i grandi funzionari pubblici, a mettere le cose a posto. La lotta in corso dal 2008 contro le lobby bancarie, la strenua difesa da loro esercitata contro ogni ragionevole proposta di correzione e l’arrendevolezza dei tecnocrati ci dimostrano che anche l’illusione tecnocratica non funziona. Per la semplice ragione che non si tratta di questioni tecnocratiche, ma di conflitto politico, di scontro di interessi, di conflitti di classe. La madre di tutte le battaglie non è legata a questa o quella soluzione tecnica, ma, innanzi tutto, a combattere e far regredire la visione di una mondo totalmente finanziarizzato, con tutti gli annessi e connessi, a riconquistare posizioni per il lavoro e la dignità del lavoro, a far rinascere visioni di lungo termine,a prendere atto che “la morale de l’honnêteté individuelle ne suffit plus”16. E’ proprio questo che rende la battaglia disperata. Ma se non riusciremo a fare questa grande correzioni di marcia, non combineremo niente di serio; ci arrotoleremo di crisi in crisi, e saremo sempre sotto il tallone dei “Masters of the Universe”. Nessuna illusione. Proprio ciò che è successo e soprattutto ciò che non è successo dal 2008 in poi, ci dimostra la correttezza di questo giudizio di Luciano Gallino [17]: “E’ inutile nascondersi che per coloro i quali pensano che potrebbe esistere un altro mondo al di là del totalitarismo neoliberale[18], la situazione è pressoché disperata. Il fatto è che codesta ideologia ha stravinto a cominciare dal’ambito della cultura, delle idee, dell’informazione”.
Una delle caratteristiche che distinguono la crisi in corso rispetto a quelle del passato (compresa quella del 2001) è il senso di impunità che accompagna i principali protagonisti negli USA. Mai nella storia finanziaria americana i responsabili di disastri di questa portata (od anche di minore portata) sono rimasti così impuniti. Non sono mancate le voci responsabili che hanno sollevato il problema, come illustra Luciano Gallino nel capitolo quinto del suo citato libro, intitolato: Crisi di sistema o criminalità organizzata? In tale capitolo Gallino prende le mosse dalla formulazione del tema da parte della docente di Scuola di amministrazione aziendale dell’Università di Harvard, Shoshama Zuboff: “La crisi economica ha dimostrato che la banalità del male occultata in un modello di attività economica ampiamente accettato può mettere a rischio il mondo intero e i suoi abitanti. Non dovrebbero quelle aziende essere ritenute responsabili nei confronti di convenuti standard internazionali in tema di diritti, obblighi e condotta? Non dovrebbero gli individui le cui azioni hanno scatenato tali devastanti conseguenze essere ritenuti responsabili al lume dei suddetti standard morali? Io credo che la risposta sia sì. Che l’evidenza montante di frodi, conflitti di interesse, indifferenza per la sofferenza, diniego di responsabilità, e assenza sistemica di giudizio morale individuale abbia prodotto un massacro economico amministrativo di tali proporzioni da costituire un crimine economico contro l’umanità [19]”. Il tema della responsabilità, anche criminale, degli alti dirigenti bancari e dell’”atmosfera criminogena” favorita dall’ideologia neo-liberista appare in parecchi altri documenti, alcuni anche ufficiali[20]. Ma la realtà è che il perseguimento di tali responsabilità da parte del governo americano e delle agenzie e procuratori americani competenti, non è mai stata così all’acqua di rose. Recentemente si è parlato di un accordo tra il dipartimento di giustizia e la banca per una multa alla JP Morgan Chase di 13 miliardi di dollari. Sembra una grande multa. Ma per un bilancio che, come quello della JP Morgan, è di circa 4 trilioni di dollari si tratta di una multa paragonabile ad una multa per divieto di sosta per un modesto impiegato. Con questo accordo, il cui onere è in parte fiscalmente detraibile la banca si è comprata l’impunità per se e per i suoi dirigenti e soprattutto il diritto a tenere celato all’opinione pubblica il malfatto[21]. Nella stessa chiave si muovono altri accordi con le più grandi banche USA, preannunciati dal New York Times, per un ammontare globale stimato di 50 miliardi di dollari, pur di evitare processi e rese di conto. Non mancano attivisti che si battono contro questi accordi, come Dennis Kelleher, capo di Better Market. Conclude Simon Johnson: “Kelleher ha scritto una lettera molto decisa al procuratore Eric Holder, massima autorità giudiziaria degli Stati Uniti, in cui lo esorta alla massima trasparenza su tutti i particolari importanti del caso. Nelle conclusioni di tale lettera si legge: La giustizia uguale per tutti senza paura o favoritismi è il fondamento della nostra democrazia e del nostro Paese”. Peccato che il Dipartimento di Giustizia sembra ancora credere che le grandi società meritino un accesso e un trattamento speciali”. Le persone come Kelleher sono seri difensori di un mercato corretto e meritano grande rispetto. Ma, sicuramente, saranno sconfitte.
La battaglia è, infatti, di ben altro respiro e va affrontata alla radice. Si tratta di una battaglia ideale e politica contro il capitalismo finanziario d’assalto e contro la finanziarizzazione del mondo. Cioè una battaglia per la democrazia e per la libertà. E’ ormai chiaro che la crisi, di per sé, non è liberatoria della morsa ideologica e pratica del neoliberismo come molti, compreso chi scrive, speravano. Anzi gli alfieri dello stesso sono riusciti a realizzare uno dei più grandi successi di marketing e di comunicazione della storia. “L’aumento cospicuo del deficit e del debito pubblico verificatosi in media nei paesi UE tra il 2008 e 2010 è reale. Ma non è affatto dovuto, come si afferma, a un eccesso di spesa pubblica nel settore della protezione sociale. E’ imputabile quasi per intero ai salvataggi del sistema bancario”[22]. Non posso addentrarmi nell’analisi di questa decisiva affermazione, ma le cifre ricordate da Gallino nei capitoli 6 e 8 del citato libro sono inequivocabili. Sia in USA che in UE l’esplosione del debito sovrano è dovuta ai colossali interventi di salvataggio degli enti bancari e finanziari e non all’eccesso della spesa sociale che, in UE, è stata stabile intorno al 25 percento del Pil e del tutto sostenibile. Ma è stato fatto credere, con l’aiuto dei trombettisti accademici del neoliberismo, che tale esplosione fosse dovuta ai presunti eccessi dello stato sociale e questa è stata la base ideologica per far partire l’azione di smantellamento del modello europeo di stato sociale (uno dei beni più preziosi dell’Europa) e delle politiche di austerità che, per come sono state impostate e condotte, è corretto definire suicide. Il peso della responsabilità è stato rovesciato: era dei banchieri criminaloidi, è diventato dei cittadini, trasformati in una sorta di “soggetti finanziari traumatizzati” (Gallino).
LA RESPONSABILITA’ DEI CRISTIANI
La situazione sembra senza speranza. Ma “Être chrétien, c’est refuser la fatalité [23] . Nel vuoto di pensiero esistente, nel dominio ideologico ed operativo del capitalismo finanziario e dell’intontimento neoliberista, nell’urgenza di una grande correzione di marcia per tentare di evitare lo scontro contro un nuovo iceberg, nella necessità di accendere una nuova speranza ed indicare nuove vie per le nuove generazioni, grande è la responsabilità dei cristiani, e soprattutto dei cattolici. Le opposizioni di sinistra e di stampo marxista al neoliberismo e al capitalismo finanziario si sono sciolte come neve al sole o, meglio, hanno scelto di diventare loro stesse parte integrante del pensiero del neoliberismo, Un liberale autentico, come il Luigi Einaudi delle Lezioni di Politica Sociale, si colloca alla sinistra di qualunque personaggio della nostra attuale sinistra politica. La responsabilità dei cristiani e dei cattolici è dunque grande perché il pensiero cristiano e, in particolare, quello cattolico della Dottrina Sociale della Chiesa (DSC), è l’unico che si pone in conflitto esistenziale con la ideologia del neo-liberismo e con le sue pratiche di capitalismo finanziario selvaggio. Nel capitolo secondo della Sua recente Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium”, papa Francesco ha pronunciato quattro formidabili NO: – NO a un’economia dell’esclusione – NO alla nuova idolatria del denaro – NO a un denaro che governa invece di servire – NO all’iniquità che genera violenza “
Dietro a questi NO sfilano non solo i cattolici osservanti, ma tutti coloro che credono al valore della democrazia, ad un’economia responsabile di mercato, ad un’economia libera e imprenditoriale nel senso del paragrafo 42 della Centesimus Annus, ad un’economia guidata dal lavoro, dalla dignità del lavoro, dalla dignità dell’uomo che lavora, dai principi della nostra Costituzione. Il pensiero economico-sociale cattolico si è sempre battuto per porre al centro non il “capital gain” ma la dignità dell’uomo, per difendere la proprietà privata, intesa come strumento di libertà di ogni singolo uomo e non di accaparramento, per combattere la concentrazione delle ricchezze, per favorire una efficiente competitività solidale, per sostenere il principio di sussidiarietà contro la concentrazione di ogni tipo di potere. Per questo dietro quei NO si schierano non solo i cattolici osservanti ma i grandi liberali ortodossi, da Einaudi a Sturzo e si schierano i grandi pensatori dell’Economia Sociale di Mercato come Roepke. Non è piccolo e non è debole, dunque, l’insieme del pensiero e delle esperienze di tutti coloro che si schierano dietro questi NO. E se questo è vero e se di questa verità ci convinciamo, allora ci sentiamo meno soli, meno disperati, meno orfani di Luciano Gallino, studioso di straordinario valore ma che forse guarda troppo in una direzione, la sinistra marxista e socialista, dalla quale non vedrà sbarcare nessun alleato, perché sono tutti morti. Ma per esprimere la nostra forza, per assolvere la nostra responsabilità, per rispondere alla nostra chiamata dobbiamo superare due ostacoli concettuali. Il primo è di esercitare veramente il culto della verità al quale ci richiama l’esortazione apostolica di papa Francesco. Il secondo è di avere coraggio intellettuale, di non avere paura di entrare nel vivo delle cose, di non farsi intimidire dai tecnicismi. Per paura di sentire rimbombare l’antico “Silete theologi in munere alieno”, per paura di essere accusata di volersi intrufolare in cose non di sua competenza, la Chiesa attuale non ha la forza di rispondere come Innocenzo III che: “ratione peccati” la Chiesa ha il diritto ed il dovere di prendere posizione su ogni tema. Ecco, allora, che in molti testi cattolici appare una clausola di stile che dice: “La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende minimamente di intromettersi nella politica degli Stati. Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione”[24]. Ma come è possibile impegnarsi per una società a misura d’uomo, per la sua dignità, per la sua vocazione, senza entrare nelle soluzioni, senza prendere posizione, anche tecnica, sui problemi concreti, come, ad esempio, quelli trattati in questa relazione che sono temi di vita e di morte per milioni di persone, senza condannare certe cose ed appoggiarne altre? Ed in ogni caso, se per la Chiesa in senso stretto, come organizzazione politica, può essere giustificata una certa cautela, per la comunità dei cristiani, cioè per la Chiesa come popolo di Dio, questa timidezza diventa complicità. Come possiamo stare zitti di fronte ad un pensiero socio-economico che si spinge sempre più indietro, verso un capitalismo barbaro, violento, incivile e corrotto, che è in contraddizione profonda non solo con la DSC ma con tutti i grandi pensatori ed operatori cattolici e cristiani, da Manzoni a Rosmini, da Luigi Einaudi a Don Sturzo, da Adenauer a De Gasperi, da Bonhoeffer a Padre Giulio Bevilacqua?
Per fortuna anche qui ci vien in aiuto l’esortazione apostolica di papa Francesco: “L’insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali. 182. Gli insegnamenti della Chiesa sulle situazioni contingenti sono soggetti a maggiori o nuovi sviluppi e possono essere oggetto di discussione, però non possiamo evitare di essere concreti – senza pretendere di entrare in dettagli – perché i grandi principi sociali non rimangano mere indicazioni generali che non interpellano nessuno. Bisogna ricavarne le conseguenze pratiche perché “possano con efficacia incidere anche nelle complesse situazioni odierne25 . I Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose “perché possiamo goderne” (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare “specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune”[26]. 183. Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di San Francesco d’Assisi e della beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. sebbene “il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica”, la Chiesa “non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia”. Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Di questo si tratta, perché il pensiero sociale della Chiesa è in primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione trasformatrice, e in questo senso non cessa di essere un segno di speranza che sgorga dal cuore pieno d’amore di Gesù Cristo”.
Dunque, senza timidezze e servilismi, ai quali una certa Chiesa ci ha abituato, diciamo alto e forte: questo capitalismo finanziario fa schifo, è un pericolo per l’umanità e noi dobbiamo sentirci impegnati per cambiare rotta.
Marco Vitale
www.marcovitale.it www.reset.it (blog Marco Vitale “Mala tempora”) Brescia, 12 gennaio 2014
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Papa Francesco, Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” EDB, 2013. Gaël Giraud, Illusion financière, Les editions de l’atelier, 2013. Gaël Giraud & Cécile Renonard, Vingt propositions pour réformer le capitalisme, Champs essais, Flammier, 2012. Tyler Cowen, The Great Stagnation, Dutton, Published by Penguin Group (USA), Inc., February 2011. Pierre-Yves Gomez, Le travail invisible, Enquête sur une disparition François Bourin Ēditeur 2013. Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, 2013. Esodo, capitoli 32 e 33. Riccardo Pedrizzi, La finanza speculativa contro l’economia reale, in UCID letters 2/3 2013. Reinhard Marx, Il Capitale, una critica cristiana alle ragioni del mercato, Rizzoli, 2009
NOTE
[1] Questo processo è ben descritto dallo studioso francese Pierre-Yves Gomez, Le travail invisible. Enquête sur une disparition (François Bourin Ēditeur, 2013). [2] Sottolineatura aggiunta. [3] Il Working Party è stato presieduto da Roger W. Ferguson, Jr., Vice Presidente del Board of Governors del Federal Reserve System. Nel Working Party erano presenti rappresentanti dei ministeri delle finanze e delle banche centrali di Australia, Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti nonché membri della Banca dei regolamenti internazionali, della Banca Centrale Europea, della Commissione Europea, del Fondo Monetario Internazionale e dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo. Il testo del rapporto è stato tradotto in italiano e pubblicato sul sito web della Banca d’Italia (www.bancaditalia.it).
[4] Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa. Einaudi, 2013
[5] Il primo termine, scrive Gallino, è preferibile perché, in realtà, non si tratta di deregolamentazione ma di sostituzione di regolamentazione. A quella che ha protetto il sistema dagli anni trenta si sostituisce la regolamentazione del neoliberismo. [6] In questo processo (che da noi è stato più misurato che altrove) una enorme responsabilità fa capo alla Banca d’Italia che non solo lo ha tollerato ma lo ha promosso e stimolato. [7] Le Landesbanken non sono banche piccole. Nel 2008 se si classificavano le banche tedesche in base ai loro attivi tra le primi venti banche quindici erano Landesbanken.
[8] Ho molto apprezzato una recente campagna comunicazionale della Banca Popolare di Vicenza, che è focalizzata proprio sul concetto di banca tradizionale, sottolineato con giusto orgoglio
[9] E’ interessante notare che Aronne non fonde il Vitello d’Oro con il proprio oro o con quello del Tesoro, ma spreme dal popolo i gioielli (= risparmi) dello stesso.
[10] In realtà l’espressione “attività bancaria ombra” è ingannevole. La maggior parte dello shadow banking, è formato da attività che le banche regolamentate realizzano per sfuggire alla loro regolamentazione. [11] Questo fondo gestisce attività per 4.1 trilioni di dollari ed è il più grande investitore del mondo.
[12] “Once a cause of the financial world’s problems, securitisation is now part of the solution”.
[13] Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2014 [14] In questo paragrafo mi baserò prevalentemente sull’eccellente paragrafo sulle banche curato da Fulvio Coltorti contenuto nel rapporto Unioncamere presentato a Roma il 13 giugno 2013.
[15] Gestione particolarmente cattiva, soprattutto a livello di Landesbanken ma anche di alcune grandi banche
[16 Gaël Giraud, Illusion Financière, Les Editions de l’Atelier, 2013
[17] Op. cit. pag. 180
[18] Sottolineatura aggiunta [19 S. Zudoff, Wall Street’s Crime Against Humanity, in Blomberg Business Week, 20 marzo 2009, cit. in Luciano Gallino pag. 125 [20 Vedasi cap. 5 del citato libro di Luciano Gallino
[21] Finanza malata e pugno di velluto. Il caso JP Morgan Chase: multa inadeguata, inefficace e “pilotata”, di Simon Johnson, in Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2014. [22] Luciano Gallino, op. cit. pag. 181
[23] Gaël Giraud, op. cit. pag. 173
[24] Questo testo l’ho preso dal periodico dell’UCID 2/3 – 2013.
[25] PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 9. [26] GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in America (22 gennaio 1999), 27: AAS 91 (1999), 762
” Testo tratto dal sito web della società di consulenza Vitale-Novello-Zane “
TERZA EDIZIONE DELLA SCUOLA DI FORMAZIONE ALTA DIRIGENZA IN DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA MODULO 3: LA DSC PER FARE BANCA (Roma – Casa S. Maria Alle Fornaci 17 gennaio 2014)
in copertina:
Bankenkrach, Bank crash 1880 Vladimir Makovskj]]>