FRONTIERE

Il G30 e le solite proposte per le imprese insolventi. Ma il mondo è cambiato

Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Il 2021 potrebbe essere il vero annus horribilis. Lo sarà quasi certamente per per centinaia di migliaia, se non milioni, di imprese a livello mondiale, in particolare nei paesi cosiddetti avanzati. In Italia tutti temono la scadenza di fine marzo, quando molte aziende, piccole e medie, dovranno fare i conti soprattutto con i loro debiti e quando dovrebbe finire il blocco dei licenziamenti. Finora è intervenuta la rete di salvataggio della cassa integrazione per milioni di lavoratori. Anche se gli aiuti di Stato dovessero essere prolungati, e tutti se lo augurano in questo momento, il problema, comunque, si presenterà con più forza qualche mese dopo.

La realtà brutale dei fatti è che siamo di fronte, anche in casa nostra, al pericolo di licenziamenti massicci e di fallimenti di imprese con dei numeri mai visti dopo la seconda guerra mondiale.

La pandemia ha creato una crisi di insolvenza per mancanza di mercato e di introiti e una montagna di debiti impagabili, i cosiddetti non performing loans.

Questa crisi di solvibilità differisce nettamente dalla crisi finanziaria globale (2007-8), incentrata sul sistema finanziario e sui problemi di liquidità”. Lo afferma anche lo studio “Reviving and Restructuring the corporate sector post-Covid”, (rivitalizzare e ristrutturare il settore delle imprese dopo il Covid), recentemente preparato da un’organizzazione molto influente ma ancora poco conosciuta, il Gruppo dei Trenta.

Il G30 è un’organizzazione internazionale privata formata da trenta tra i più influenti finanzieri ed economisti a livello mondiale. Fu creata alla fine degli anni Settanta dalla Fondazione Rockefeller, gestita dal noto banchiere americano. Ha sempre avuto l’obiettivo di analizzare le questioni economico-finanziarie più rilevanti, in particolare quelle relative ai mercati dei capitali e dei cambi. Oggi, oltre a numerosi ex governatori di banche centrali, annovera anche Mario Draghi, come senior member molto attivo. Il rapporto citato è stato redatto proprio sotto la sua supervisione.

Lo studio evidenzia la tendenza molto pericolosa dell’aumento del cosiddetto “corporate debt”, il debito delle imprese, ben prima della crisi pandemica che, ovviamente, lo ha molto esacerbato. Il debito del settore corporate non finanziario globale è passato dal 73% del pil mondiale del 2007 al 91% dell’inizio del 2020. Ciò sta a indicare che molte economie erano molto più vulnerabili agli stress finanziari già prima delle crisi da Covid. In generale, all’inizio della pandemia, anche il debito pubblico globale era di molto più grande rispetto a quello del 2007.

Se si confrontano due periodi, quello del 2005-7 con quello del 2017-19, si vede che, a livello globale, la crescita del volume del private equity e del debito privato ha superato del 51% la crescita del pil, passando da 58 a 88 trilioni di dollari.

Il rapporto del G30 evidenzia come siano le pmi a correre il maggiore rischio di default. Subiscono maggiori pressioni finanziarie delle grandi corporation e hanno, al tempo stesso, minori opzioni di finanziamento: dipendono largamente dal settore bancario a cui hanno già conferito notevoli garanzie personali a copertura dei crediti ottenuti. Esse sono, però, il pilastro portante dell’occupazione nel mondo. Negli Stati Uniti, per esempio, nel 2016 le imprese con meno di 500 addetti rappresentavano il 47% della forza lavoro del settore privato. In Europa, e soprattutto in Italia, si sa che questa percentuale è di gran lunga più grande.

Che fare allora? Il G30 apprezza che a ottobre 2020 gli stimoli fiscali globali dei governi siano stati pari a 12.000 miliardi di dollari. Il Giappone, per esempio, ha approvato un pacchetto fiscale pari al 21% del suo pil!

Di conseguenza, vi è un certo ruolo da parte dello Stato, il cui intervento però, si sostiene, “non deve essere eccessivo“. Anzi si suggerisce di non “guadagnare semplicemente tempo concentrandosi sulla liquidità” da far affluire al sistema, ma di “utilizzare le competenze del settore privato per valutare la redditività delle imprese”.

In breve, il G30 teme che una politica pubblica di aiuti troppo accomodanti potrebbe favorire la crescita delle cosiddette “imprese zombie”, cioè quelle aziende decotte che non sono in grado di coprire finanche gli interessi sui debiti con i profitti correnti. Queste, mantenute in vita da sussidi e nuovi crediti distribuiti a pioggia, senza un più ferreo controllo, rappresenterebbero un fardello e una minaccia ai settori dell’economia ben funzionante.

Si rileva, invece, che la situazione “potrebbe richiedere una certa quantità di “distruzione creativa”. Si propone la creazione di istituti ad hoc, delle bad bank, per raccogliere i debiti corporate inesigibili. Non è detto, ma forse è proprio qui che gli esperti del G30 vedrebbero volentieri il contributo dello Stato. Il che suscita più di qualche perplessità.

Nel documento è evidente una forte contraddizione. Si sottolinea più volte il timore che la crisi di insolvenze possa colpire anche il settore finanziario, per cui si ripete con forza che il governo potrebbe dover intervenire per proteggere o rafforzare la capacità del settore finanziario di sostenere la ripresa economica”. Il rischio, o meglio la certezza, di una massiccia disoccupazione di massa, con evidenti e pericolose derive sociali, è, invece, sbrigativamente affrontata con generici riferimenti a riqualificazioni e trasferimenti di lavoratori. Ciò la dice lunga circa l’ottica nella quale anche il G30 si muove.

In conclusione il documento del G30 non è per niente innovativo. Anzi dimostra come l’approccio non sia mai cambiato, sia dopo la Grande Crisi, sia nel mezzo della crisi pandemica. Questo è il vero problema che ci trasciniamo da troppo tempo. Certo, il Covid ha aggiunto crisi su crisi.

Secondo noi, però, la riforma finanziaria e una nuova architettura globale più giusta e multipolare, se non ora, quando dovrebbe essere affrontata?

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