Il “diritto di Israele a difendersi” e la strage degli innocenti

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Il 17 e il 18 settembre 2024 il Mossad ha portato a termine una sofisticata operazione nel sud del Libano facendo esplodere prima i cercapersone in dotazione agli Hezbollah e, il giorno successivo, i walkie-talkie usati dalle milizie sciite per comunicare. Sono seguiti massicci bombardamenti su circa 1600 obiettivi che hanno ucciso 650 persone e costretto a fuggire verso nord più di 200.000 libanesi. C’è la concreta possibilità di nuove operazioni militari di terra che porterebbero il Libano al collasso e rischiano di scatenare un allargamento incontrollato del conflitto. Le denunce all’assemblea generale dell’ONU e la colpevole impotenza degli Stati Uniti. Un Israele, mai così isolato a livello internazionale, ha scelto la via della guerra a oltranza imboccando un sentiero di non ritorno che rischia di minare la sua stessa esistenza futura.

L’operazione è scattata alle 15.30 del 17 settembre quando a Beirut sono esplosi i cercapersone forniti agli Hezbollah: ci sono stati 32 morti, inclusi due bambini, e migliaia di feriti. Il giorno successivo, alle 17 locali, sono invece esplosi i walkie-talkie che, come hanno dichiarato alla Reuters alcune fonti legate alla sicurezza, erano stati acquistati cinque mesi prima. In questo caso le vittime sono state 20 e i feriti almeno 450. Secondo gli specialisti, un’offensiva così articolata ha richiesto almeno due anni di preparazione per penetrare la catena di rifornimento degli Hezbollah, la creazione di imprese di copertura per procurarsi i materiali elettronici e inserire all’interno le piccole cariche esplosive che sono state poi attivate simultaneamente con un segnale radio centralizzato.

Non c’è dubbio che si è trattato di un’operazione molto complessa e di altissimo livello che dimostra la schiacciante superiorità tecnologica di Israele sui suoi avversari e indica un cambiamento qualitativo nelle attività belliche in cui tecnologie sempre più sofisticate e l’intelligenza artificiale giocheranno un ruolo crescente. Mentre esplodevano i cercapersone e i walkie-talkie l’intelligence israeliana piratava tutte le radio del Libano meridionale e trasmetteva un comunicato che consigliava ai cittadini che si trovavano vicino a strutture usate dagli Hezbollah di fuggire verso nord (come se fosse semplice sapere se nello scantinato del tuo condominio le milizie islamiche hanno nascosto armi o missili). I circa 80.000 telefonini locali hanno ricevuto un messaggio vocale con lo stesso contenuto. La funzione di questi messaggi non era quella di preavvisare gli ignari civili ma di terrorizzarli facendo capire loro che il Mossad conosce il loro telefono e la loro posizione.

Le costanti “non vittorie” dell’esercito israeliano

Il ministero della Sanità libanese ha comunicato che, soltanto il 23 settembre, gli attentati e i bombardamenti successivi hanno causato 558 morti, inclusi 50 bambini e 94 donne, e 1.835 feriti e costretto a una precipitosa fuga verso nord mezzo milione di cittadini. A causa dei missili lanciati in risposta all’attacco da Hezbollah, due cittadini israeliani sono rimasti feriti dai detriti di un razzo intercettato. Secondo il generale Herzi Halevi, portavoce dell’esercito israeliano, fino al 23 settembre erano stati colpiti 1600 obiettivi nel sud e nell’est del Libano. «Il nostro scopo principale –ha detto Halevi- è distruggere le infrastrutture militari che Hezbollah ha costruito negli ultimi vent’anni. Ci stiamo concentrando nel creare le condizioni per il ritorno dei residenti del nord di Israele nelle loro case». La campagna di bombardamenti ha colpito i distretti di Sidone, Tiro, Marjayoun, Nabatieh, Jezzine nel sud del Libano e quelli di Zahle, Baalbeck e Hemel, nella valle della Bekaa a est. Si tratta della principale offensiva militare israeliana dalla fallimentare invasione del Libano del 2006, che portò a una “non vittoria”, come è sempre avvenuto per le guerre iniziate dallo Stato ebraico che creano soltanto le precondizioni per il conflitto successivo.

I comandi delle Israeli Defence Forces (IDF, l’esercito israeliano) hanno precisato che quello contro il Libano è stato un “attacco preventivo” che ha impedito il ripetersi di un’azione terroristica come quella del 7 ottobre dello scorso anno. Questa spiegazione ricorda molto da vicino le motivazioni con cui fu giustificato l’intervento americano in Iraq del marzo 2003, alla ricerca di fantomatiche “armi di distruzione di massa”, che il feroce dittatore Saddam Hussein avrebbe potuto usare contro il mondo intero. L’esplosione di cercapersone e walkie-talkie, come pure l’eliminazione con attacchi missilistici dei dirigenti militari di Hezbollah è la prova tangibile della totale superiorità tecnologica dell’esercito israeliano e delle capacità operative del Mossad. L’eliminazione di Ismail Aniyeh, il capo politico di Hamas, ucciso da una bomba piazzata nella sua stanza da agenti israeliani mentre era in visita a Teheran il 31 luglio 2024, dimostra in modo eclatante che l’intelligence israeliana ha infiltrato da tempo tutti i gruppi terroristici che intendono distruggerlo. Dopo l’assassinio, all’interno del consolato iraniano a Damasco in Siria, del generale Mohammed Reza Zahedi, altissimo ufficiale dei Pasdaran iraniani, il “terribile” contrattacco di Teheran è consistito nel lancio (annunciato con tutti i dettagli agli USA, inclusi gli orari e gli obiettivi) di qualche centinaio di missili contro Israele che, praticamente, non ha causato nessun danno rilevante. Anche gli Hezbollah, che hanno vista decimata la loro dirigenza, sembrano incapaci di rispondere efficacemente a livello militare. Quindi Israele ha vinto?

In realtà, a partire dal 1978, l’IDF ha inanellato una serie costante di “non vittorie”, successi militari tattici che non hanno scalfito minimamente il contesto strategico che vede Israele come una piccola minoranza demografica all’interno di una massa crescente di popolazioni arabe ostili. Secondo il rapporto OCSE Society at a Glance 2024 il tasso di fecondità di Israele resta il più alto (2,9 figli per donna in età fertile) tra le 38 nazioni prese in esame, ma non può certo essere la demografia l’arma vincente dello Stato ebraico. Le élites al governo sembrano ritenere che l’unico strumento a disposizione sia l’esercito a cui viene affidato il compito di reprimere nel sangue ogni richiesta palestinese di autodeterminazione. Negli ultimi vent’anni Netanyahu ha lavorato attivamente per indebolire la dirigenza laica del movimento palestinese e dare il potere ai fondamentalisti islamici in modo da rendere impossibile ogni negoziato per la nascita di uno Stato palestinese. I 1.139 morti dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 sono stato il risultato concreto di questa strategia.

I cosiddetti “Accordi di Abramo” che, nell’agosto del 2020, hanno visto la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, a cui si è

L’allora presidente Donald Trump si vantava che gli “Accordi di Abramo” da lui promossi avrebbero portato pace e prosperità al Medio Oriente. Non è andata così.

successivamente unito il Marocco, si sono rivelati illusori perché avevano completamente trascurato il problema palestinese. Dopo il 7 ottobre, anche la grande maggioranza della popolazione israeliana è contraria alla nascita di uno Stato palestinese e sostiene l’offensiva militare per annientare a suon di bombe Hamas e, ora, gli Hezbollah libanesi. La prima guerra del Libano, che ha minato seriamente la struttura socioeconomica del Paese dei cedri, è iniziata nel 1978. Un secondo conflitto è scoppiato nel 1982 e un terzo nel 2006. Dopo ogni guerra il “nemico” si è rafforzato, i guerriglieri palestinesi sono stati espulsi dal Libano ma sono stati sostituiti dai fanatici islamisti sciiti, legati all’Iran che, con tragica ironia, ha iniziato ad avere un profonda influenza in un’area da cui era prima assente. La brutalità con cui l’IDF ha combattuto la prima e la seconda intifada (rispettivamente del 1987 e del 2000) non ha modificato in nulla la situazione sul campo. La dirigenza di Israele sembra incapace di imparare dalla storia e continua a ripetere coattivamente gli stessi errori. Ma il problema ha le proprie radici nella nascita stessa dello Stato ebraico e nella mentalità dei suoi generali.

Se la guerra è l’unico strumento

Fino al 1920, quando la Conferenza di San Remo decise il nuovo assetto del Medio Oriente e la spartizione dell’ex Impero ottomano, la nozione fisica e geopolitica della Palestina era inesistente. Il significato contemporaneo deriva dalla spartizione dei territori ottomani fra la Francia e l’Impero britannico a partire dall’accordo Sykes-Picot del 1916, che attribuiva all’Inghilterra l’area definita da allora in poi Palestina, estesa alle due sponde del fiume Giordano, insieme all’Iraq, mentre la Francia prendeva sotto la sua tutela la Siria, che includeva anche il Libano. Come sappiamo, nel maggio del 1948 nasce lo Stato di Israele ma, per motivi molto complessi, non ha mai preso forma uno Stato palestinese. Da allora, Israele ha combattuto tre guerre per difendere la propria esistenza (nel 1948, nel 1967 e nel 1973) ma ha costantemente esteso l’area concessa inizialmente dalle Nazioni Unite occupando a più riprese Gaza, la Cisgiordania e le alture del Golan. Il disegno di un grande Israele, dal Giordano fino al Mediterraneo (con l’uccisione o la pulizia etnica dei cinque milioni di palestinesi) è difeso pubblicamente da personaggi come Itamar Ben-Gvir, attuale ministro della sicurezza di Israele. Non si pensi però che una posizione così radicale sia un problema di oggi, quando al governo ci sono personaggi estremisti e apertamente razzisti.

Il 30 aprile 1956, il generale Moshe Dayan, l’allora comandante delle IDF, pronunciò un breve discorso che sarebbe diventato uno dei più famosi della storia di Israele. Il generale si rivolgeva ai partecipanti al funerale di Ro’i Rothberg, un giovane che si occupava della sicurezza del kibbutz Nahal Oz, sorto a poche centinaia di metri dalla Striscia di Gaza. La guardia era stata assassinata, trascinata oltre confine e mutilata, ed era stata restituita ai familiari soltanto dopo l’intervento dell’ONU. Il discorso di Dayan ha acquisito un valore iconico e, da allora, è stato utilizzato sia dalla destra che dalla sinistra:

«Ieri mattina Ro’i è stato ucciso. Abbagliato dalla calma del mattino, non ha visto quelli che lo aspettavano per tendergli un’imboscata vicino ai campi arati. Oggi non intendiamo lanciare accuse verso gli assassini. Perché dovremmo biasimarli per il loro odio profondo verso di noi? Per otto anni hanno dovuto vivere nei campi profughi di Gaza, mentre di fronte ai loro occhi noi abbiamo trasformato in nostra proprietà la terra e i villaggi in cui loro e i loro padri erano vissuti […]

 Noi siamo la generazione degli insediamenti; senza un elmetto d’acciaio o la bocca del cannone non saremo in grado di piantare un albero o costruire una casa. I nostri figli non avranno una vita se non scaveremo rifugi e senza il filo spinato e le mitragliatrici non avremo la capacità di costruire strade e scavare pozzi. Milioni di ebrei, che furono sterminati perché non avevano una terra, ci guardano dalle ceneri della storia di Israele e ci ordinano di creare insediamenti e far risorgere una terra per il nostro popolo. Ma oltre il confine dei nostri campi arati c’è un oceano di odio e di vendetta che cresce […]

Non sobbalziamo nel vedere il disprezzo che accompagna e riempie le vite di migliaia di arabi che vivono intorno a noi e aspettano soltanto il momento per versare il nostro sangue. Non volgiamo lo sguardo altrove, non permettiamo alle nostre mani di indebolirsi. Questo è il destino della nostra generazione. Questa è la scelta delle nostre vite: essere pronti e armati e forti e duri. Se lasceremo che la spada cada dalle nostre mani le nostre vite saranno fatte a pezzi».

 Il giorno seguente, Dayan registrò il suo discorso per la radio israeliana ma, significativamente, tutta la parte riguardante i rifugiati palestinesi che osservavano dai loro campi profughi i coloni ebrei che coltivavano la terra da cui erano stati scacciati, venne eliminata. Sul Guardian del 13 agosto 2024 lo storico israelo-americano Omer Bartov ha pubblicato un lungo e illuminante saggio sulle cause remote della guerra di Gaza. Commentando il discorso di Dayan del 1956, Bartov afferma che il generale ricordava molto bene le città e i villaggi che erano stati distrutti per far posto agli insediamenti ebraici e la rabbia dei rifugiati cacciati dalle loro terre, «ma credeva anche fermamente nel diritto e nel bisogno urgente degli insediamenti ebraici e nella creazione di uno Stato. Nella lotta in difesa della giustizia e dell’appropriazione di terra ha scelto la parte con cui schierarsi, rendendosi perfettamente conto che una tale decisione avrebbe condannato il suo popolo a contare per sempre sulle armi. Dayan sapeva inoltre benissimo quello che il pubblico israeliano avrebbe accettato. È a causa della sua ambivalenza nel determinare chi fosse veramente responsabile dell’ingiustizia e della violenza, unita alla sua visione tragica e deterministica della storia, che le due versioni del suo discorso si rivolgono a due schieramenti politici diametralmente opposti».

Qualcosa può cambiare in Israele?

Il generale Moshe Dayan, uno dei grandi eroi militari di Israele, si era infine reso conto che la sola strategia bellica avrebbe condotto lo Stato ebraico su una via fallimentare. (Foto IDF Spokesperson’s Unit / CC BY-SA 3.0).

Moshe Dayan, eroe della Guerra dei sei giorni, simbolo stesso del militare coraggioso che fa da scudo al proprio popolo, ha grandi responsabilità nella creazione dell’ideologia del “diritto di Israele a difendersi”, qualunque siano le conseguenze delle proprie operazioni militari, non solo commettendo innumerevoli e ripetuti crimini di guerra, ma creando un contesto strategico addirittura sfavorevole allo Stato di Israele. Come dimostra il 7 ottobre 2023, il più grave eccidio di ebrei dal 1948, la sicurezza di Israele non è migliorata dopo decenni e decenni di guerre, tutte vinte, ma che non hanno mai portato a una pace stabile che consentisse la coesistenza e lo sviluppo economico di entrambi i contendenti. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, il generale aveva però cominciato a intuire che la strada su cui si era incamminato Israele non aveva vie d’uscita.

Il diplomatico Antonio Armellini ricostruisce sul Corriere della Sera del 10 dicembre 2023 una visita in Israele di Aldo Moro, allora ministro degli Esteri. Era la primavera del 1971 e Moro era stato invitato in un kibbutz vicino a Tel Aviv in cui era presenta anche Dayan, che si teneva però in disparte, essendo su posizioni critiche verso il governo del periodo. A un certo punto, il generale si rivolge ad Armellini, il più giovane della delegazione e con la funzione di interprete per Moro, pensando di mandare un segnale al nostro ministro degli Esteri che, immaginava, sarebbe stato ricettivo. Armellini riferisce che Dayan riteneva che «il suo governo, il Ministro degli Esteri Abba Eban e gli altri, stavano sbagliando tutto; il modo di gestire la vittoria non era quello di continuare su una linea di controllo militare, nella convinzione che fosse l’unica in grado di garantire la sicurezza di Israele, bensì il contrario. Il divario fra le forze in campo – e la sua conclamata superiorità non solo militare, ma anche economica – gli aprivano la possibilità di offrire una stabilizzazione dei rapporti a tutti i vicini, in una prospettiva reciprocamente vantaggiosa».

Armellini ricorda che, secondo Dayan, nel gestire il rapporto con i palestinesi «ci avrebbe pensato la superiorità produttiva e tecnologica di Israele, la sua salda caratura democratica, ad assicurargli una posizione dominante al centro di un mercato fatto di abbondante manodopera e di aspettative ripetutamente frustrate, la cui crescita avrebbe rappresentato nel tempo la sua vera garanzia di sicurezza, dando vita ad un’area di co-prosperità di cui Israele sarebbe stato ad un tempo il perno e il garante. Non era la linea di quel governo, non lo fu di quelli successivi e le cose sono andate diversamente». Nel 1981, dopo tante guerre e fiumi di sangue versati, l’anziano generale (sarebbe morto nell’ottobre di quell’anno) pubblica Shall the Sword Devour Forever? in cui dettaglia il suo ruolo nel raggiungimento della pace con l’Egitto di due anni prima. Il titolo si rifà a un noto passaggio dell’Antico testamento: «Dovrà continuare per sempre la spada a divorare? Non sai che alla fine sarà una sventura? Quando finalmente darai ordine alla truppa di cessare l’inseguimento dei loro fratelli?» (2 Sam 2, 26).

Nonostante gli ebrei ortodossi siano oggi al governo di Israele, sembra che questo passaggio biblico, citato dal più famoso militare del Paese come ammonimento, sia stato totalmente dimenticato. Fervono i preparativi per l’invasione del Libano, una catastrofe umanitaria annunciata. Sono state ammassate truppe al nord e richiamati 60.000 riservisti per l’eventuale operazione di terra. Dopo aver inviato a Tel Aviv decine di miliardi di armamenti con cui, al momento di scrivere, sono stati massacrati a Gaza 41.467 palestinesi (più di 17.000 sono bambini e, di questi, circa 2.100 avevano meno di due anni) e ne sono stati feriti 95.921, l’amministrazione USA ha dichiarato che, in caso di invasione del Libano, l’intelligence americana non fornirà informazioni allo Stato ebraico. All’assemblea generale dell’ONU, in corso dal 10 settembre, molti leader mondiali hanno lanciato appelli accorati per impedire l’allargamento incontrollato della guerra in corso ma senza nessuna speranza di influenzare la strategia di Netanyahu che, dopo gli assassini mirati dei dirigenti di Hamas e degli Hezbollah, ha visto aumentare il proprio consenso interno. Una guerra prolungata gli consentirà di rimanere a lungo al potere, con buona pace delle famiglie degli ostaggi rimasti, circa un centinaio, che sono ancora prigionieri nelle gallerie sotterranee di Gaza.

Per alleggerire le tensioni internazionali, il 25 settembre 2024 il presidente russo Putin ha annunciato che Mosca potrebbe rispondere con armi nucleari anche a un attacco convenzionale di un nemico che fosse appoggiato da potenze nucleari, come è il caso dell’Ucraina. Netanyahu sa che fino al 5 novembre, giorno delle elezioni presidenziali, Joe Biden, un presidente anziano, debole e dimissionario, dirà solo parole retoriche senza nessuna mossa concreta. Allo stesso modo, nell’ipotetico caso fosse eletta, Kamala Harris, donna senza nessuna esperienza politica internazionale, non oserà sfidare la politica di Israele, anche se è gravemente lesiva degli interessi statunitensi. I potentissimi, ricchissimi e influentissimi ebrei americani continueranno ad assistere passivamente ai crimini commessi da Israele o interverranno in qualche modo per salvarlo da sé stesso?

(L’immagine di copertina riproduce La strage degli innocenti di Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova).

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