In merito all’autobiografia di uno dei maggiori musicisti contemporanei che, nato vicino a Vercelli, è profondamente piemontese, ha respirato l’aria delle risaie, ha vagato solitario nelle campagne glabre, ha ascoltato la musica da ballo durante le feste nelle cascine. Ed è noto in tutto il mondo.
di Galliano Maria Speri
Rembrandt van Rijn, il più grande pittore del rinascimento fiammingo del XVII secolo, ha costellato la sua intera produzione di molti autoritratti che presentano, all’inizio, un giovane paffutello e soddisfatto e, in seguito, un adulto riflessivo che scruta l’osservatore con uno sguardo che mette a disagio. Gli ultimi autoritratti ci mostrano un anziano con il volto solcato da segni profondi e uno spirito scosso dalle durezze della vita, ma lo sguardo mostra ancora l’orgoglio di un’esistenza operosa e il coraggio di offrirsi agli occhi degli altri al naturale, nel decadimento della carne e nelle sofferenze trascorse, senza il minimo tentativo di abbellire o nascondere.
Chi scrive ha avuto la sensazione di ritrovare lo stesso sguardo chirurgico in alcuni capitoli dell’autobiografia appena pubblicata di Angelo Gilardino, che raccontano una realtà, a volte sgradevole e ai limiti dell’insopportabilità, ma che non può essere né taciuta né occultata, proprio perché è la realtà.
Il maestro piemontese è una figura nota in tutto il mondo come chitarrista, didatta e compositore, è stato infatti insignito dell’Artistic Achievement Award Hall of Fame della Guitar Foundation of America. La sua importanza si estende però molto in profondità, al di là di quello che lo stesso maestro ha definito il “chitarrume”, anche nel campo della musica colta tout court. Oltre ad essere uno dei massimi compositori contemporanei di musica per chitarra, ha scritto una fondamentale biografia di Andrés Segovia e, in collaborazione con Mario Grimaldi, Il legno che canta, un coraggioso studio sui grandi liutai italiani, ingiustamente messi in ombra dallo strapotere della liuteria spagnola che ha usato l’enorme prestigio del chitarrista spagnolo per affermarsi come punto di riferimento internazionale.
Alla soglia dei 75 anni, Gilardino ha deciso di esplorare altri campi e ha dato alle stampe una autobiografia che, nello stile e nei contenuti, è molto diversa dai soliti libri autocelebrativi, la cui funzione principale è quella di evidenziare le qualità e tacere spudoratamente le carenze e gli errori.
Il titolo Io, la chitarra e altri incontri è indubbiamente molto chiaro sulle intenzioni dell’autore, che non nutre nessun desiderio di trincerarsi dietro una falsa modestia ed esplicita di essere lui l’argomento della trattazione, come pure il legame fondamentale che lo lega al proprio strumento.
Il libro, composto da quattordici lettere a persone che sono state importanti nella vita dell’artista, è dedicato al famoso regista cinematografico Marco Tullio Giordana che ha avuto una funzione cruciale nella stesura, poiché “senza il suo stimolo e senza il suo sostegno – scrive Gilardino – non avrei mai trovato in me la risoluzione che mi ha animato a scrivere le prime pagine”.
La domanda contenuta nel prologo indirizzato al lettore, in cui l’autore si chiede, senza fornire una risposta, se ha il diritto di considerarsi uno scrittore si rivela alla fine retorica poiché la forma e lo stile del lavoro sono eminentemente letterari. A dire il vero, una autobiografia in forma epistolare è una rarità ma il vero punto di interesse, nel contesto della letteratura italiana, non è tanto l’originalità della forma quanto lo sguardo diretto e antiretorico con il quale vengono osservati e descritti gli eventi, sempre con profonda partecipazione emotiva ma senza nessun orpello né mascheramento. Dalle pagine del libro trasuda una profonda “piemontesità”, fatta non soltanto di tradizione, compostezza, operosità, moderazione, austerità, campagne nebbiose e zuppe fumanti. Non dobbiamo dimenticare, nel bene e nel male, che il Piemonte non è semplicemente una regione italiana ma ha saputo guidare, innalzando il proprio sguardo oltre la realtà locale, il lungo processo che ha portato alla nascita del nostro Stato unitario. Gilardino, nato vicino a Vercelli, è infatti profondamente piemontese e ha respirato da sempre l’aria delle risaie, ha vagato solitario nelle campagne glabre, ha ascoltato la musica da ballo durante le feste nelle cascine, ha conosciuto direttamente la vita dura e faticosa dei contadini e affonda le proprie radici nella terra fumante e generosa. Non si pensi però di avere a che fare con le memorie di un provinciale, legato soltanto alle sue origini, poiché dai miti di quella terra ha tratto l’energia per diventare, senza studi formali e con una preparazione culturale basata soltanto sulle proprie letture forsennate, uno dei massimi esponenti della chitarra classica e della musica colta e con una vastissima esperienza internazionale, prima come concertista e poi come didatta e musicologo.
Tra le lettere sono molto interessanti quella diretta a Mario Castelnuovo-Tedesco, un importante compositore toscano costretto a fuggire negli Stati Uniti dalle Leggi razziali del 1938, che dedicò molte composizioni alla chitarra e con cui un Gilardino venticinquenne intrattenne una fitta corrispondenza dal febbraio 1967 fino al marzo del 1968, anno della morte del compositore. Ovviamente, non poteva mancare una lettera ad Andrés Segovia; ma non si pensi a un tono adorante e ossequioso perché Gilardino, direttore artistico della Fondazione Segovia di Linares dal 1997 al 2005, non è, né potrebbe essere, un devoto acritico che aspira soltanto ad entrare nella cerchia prestigiosa (e remunerativa) degli adepti segoviani.
La lettera collettiva ai suoi numerosissimi allievi testimonia un radicato senso civico e una fede profonda nella funzione dell’insegnamento poiché, nonostante non abbia messo a punto un metodo vero e proprio, Gilardino ha sempre avuto la coscienza del suo ruolo e quanto la musica potesse diventare importante anche per coloro che non avrebbero poi svolto la professione di musicisti. Il libro si apre con una lettera al padre e si chiude con una lettera alla madre, come a sigillare una profonda esigenza interiore. Il padre, mercante di cavalli da lavoro, viene sempre chiamato col nomignolo di Pierìn d’Asjàn, con il quale tutti lo conoscevano e che era tipico della civiltà contadina del periodo. Purtroppo, la professione nella quale era maestro andava scomparendo con la diffusione della meccanizzazione dell’agricoltura e il padre diventa così una figura tragica, che perde la sua centralità familiare e sociale e muore drammaticamente ancora giovane. Ma è proprio accompagnando il padre in un viaggio di lavoro a Modena, che un Angelo decenne entra, come guidato da un richiamo superiore, in una sala da concerto dove assiste all’esibizione della grande chitarrista Ida Presti. La concertista viene rappresentata come una maga misteriosa, capace di qualunque sortilegio, e quest’immagine richiama la descrizione che il poeta tedesco Heine fece di Paganini durante uno dei suoi concerti. Il bambino ne rimane folgorato e segnato per tutta la vita, iniziando un percorso luminoso che continua ancora.
Angelo Gilardino Io, la chitarra e altri incontri – Memorie di un artista Edizioni Curci, Milano, pagg 256, Euro 19 www.edizionicurci.it
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