Nel diffuso clima di paura e instabilità seguito agli attentati terroristici alle Torri gemelle, l’amministrazione Bush lanciò una campagna di disinformazione senza precedenti, accusando il regime di Saddam Hussein di possedere armi di distruzione di massa e di essere pronto a passarle agli islamisti. Quelle affermazioni erano false ma vennero sostenute anche dal primo ministro britannico Tony Blair e divennero la linea ufficiale degli Stati Uniti. Il ruolo cruciale dei neocons nella messa a punto della “guerra preventiva”. L’opposizione di Francia e Vaticano non riesce a fermare l’offensiva militare.
Tutti gli studiosi concordano che gli attentati dell’11 settembre 2001 rappresentarono uno shock terribile per gli Stati Uniti, segnando una discriminante strategica nella storia nazionale. A distanza di quasi vent’anni, è molto sorprendente constatare che un evento di tale portata non sia stato approfondito adeguatamente da studiosi seri e si sia lasciato il campo libero alle più diverse teorie complottiste, il che equivale a inspessire ulteriormente la cortina di falsità e mezze verità che circondano l’operazione più eclatante di al-Qaida.
Ma è ancora più stupefacente vedere come, in nome della lotta al terrorismo, si decise di colpire un dittatore che era un nemico giurato delle reti terroristiche e che non aveva avuto nessun legame, diretto o indiretto, con l’attacco alle Torri gemelle.
Eppure, l’amministrazione USA si lanciò in una pervasiva campagna di propaganda globale, sbandierando inesistenti armi di distruzione di massa e giustificando così agli occhi del mondo l’invasione dell’Iraq. Questo fenomeno di obnubilazione collettiva non può essere compreso adeguatamente se non analizziamo le teorie di un ristretto circolo di accademici e intellettuali che, silenziosamente ma in modo molto efficace, si erano insediati nei gangli vitali dell’amministrazione USA.
La lunga marcia dei neocons nei gangli del potere
Nel clima euforico seguito alla vittoria nella Prima guerra del Golfo, l’ubriacatura da delirio di onnipotenza contagiò molti analisti e fece emergere un gruppo, esiguo ma determinatissimo, che riuscì a ritagliarsi un ruolo sempre più cospicuo all’interno dell’intelligence e della politica americana. Si tratta dei cosiddetti “neocons”, i teorici della leadership globale americana, dell’esportazione della democrazia, anche con l’uso brutale della forza militare per annichilire avversari potenziali prima che potessero colpire gli USA. Fu questa fazione, il potere vero che controllava la Casa Bianca in cui George W. Bush faceva la comparsa, che progettò e realizzò l’invasione dell’Iraq nel 2003.
La denominazione di neoconservatives, universalmente noti come neocons, iniziò ad essere utilizzata nei primi decenni del secolo scorso da intellettuali che avevano assunto posizioni critiche verso la sinistra (da cui provenivano). Uno dei padri del movimento fu l’ex trotzkista Irving Kristol, che si staccò dall’ala liberal del Partito democratico, temendo che gli Stati Uniti volessero abdicare al loro ruolo di perno delle relazioni internazionali e venir meno al loro tradizionale ruolo anticomunista.
Negli anni ’70 il gruppo costituisce il “Committee on Present Danger” (CPD, Comitato sul pericolo attuale), facendo così rivivere una lobby anticomunista di vent’anni prima. Lo scopo del CPD è quello di contrastare la politica di distensione verso l’URSS portata avanti dal presidente Carter, affermando invece il proposito unilateralista di usare la forza militare per raggiunger i propri obiettivi politici. Lo slogan del gruppo è “Peace through Strength” (perseguire la pace grazie all’uso della forza).
In questo modo viene a saldarsi un’alleanza che riesce a includere la destra repubblicana e l’industria militare. Il salto di qualità si verifica nel febbraio 1992, quando il vice segretario alla Difesa Paul Wolfowitz, uno dei principali neocon, elabora una proposta in cui teorizza che, dopo il crollo dell’URSS, gli Stati Uniti sono ormai l’unica superpotenza rimasta per cui devono perseguire i loro obiettivi in maniera unilaterale, imponendoli anche con la forza militare se necessario.
Questi concetti vengono inglobati all’interno del Defense Planning Guidance for the 1994–99, il documento ufficiale che fissa la strategia militare. Successivamente, lo studio viene rielaborato sotto la supervisione del segretario alla Difesa Dick Cheney e il Capo di Stato maggior della Difesa Colin Powell e pubblicato il 16 aprile 1992.
Ecco pronto lo strumento per la futura invasione dell’Iraq, una volta che si sarà creato il giusto clima politico. Le linee strategiche sostenute dai necons sono: l’unilateralismo interventista, il ridimensionamento dell’ONU, la preminenza dei “valori americani” in un’ottica di scontro di civiltà, lo stretto legame tra Israele, considerato la testa di ponte occidentale in Medio Oriente, e la politica estera americana, il rifiuto della Corte Penale Internazionale e il sostanziale disprezzo per l’Europa, che si crogiola nella difesa teorica dei diritti umani ma poi non prende mai iniziative per difenderli concretamente.
Queste idee sono molto radicali e sollevano diverse obiezioni e perplessità tra i comuni cittadini americani, sia democratici che repubblicani. La pubblica opinione potrebbe cambiare atteggiamento soltanto in presenza di un drammatico evento epocale. Alla luce degli attentati dell’11 settembre, non si può che essere colpiti dal fatto che una delle principali associazioni dei neocons, il Project for the New American Century, animato da William Kristol e Robert Kagan e attivo dal 1997 al 2006, abbia sostenuto in un suo documento che per imporre all’establishment e all’opinione pubblica la drastica riorganizzazione della politica estera americana ci sarebbe voluto un evento straordinario e catastrofico, come una nuova Pearl Harbor.
Lo studio, pubblicato nel settembre del 2000, è intitolato Rebuilding America’s
Defenses: Strategies, Forces, and Resources For A New Century (“Ricostruzione delle difese americane: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo”) e a pag. 51 contiene un’affermazione che, con il senno di poi, fa venire la pelle d’oca: “Inoltre, il processo di trasformazione, anche se porterà a cambiamenti rivoluzionari, sarà probabilmente molto lungo, a meno che non si verifichino alcuni eventi catastrofici che facciano da catalizzatore, come una nuova Pearl Harbor”. La nuova Pearl Harbor sarebbe purtroppo arrivata l’11 settembre 2001, e l’America sotto shock seguì senza fiatare le direttive delle eminenze grigie che controllavano la Casa Bianca di George W. Bush, e cioè il suo vicepresidente Dick Cheney e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld.
Ma anche a proposito della vera Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, gli storici non hanno mai fornito una spiegazione adeguata sul perché le forze americane si fecero colpire totalmente alla sprovvista, visto che due delle principali spie degli alleati, il tedesco Richard Sorge, al servizio dei russi, e il serbo Dušan Popov, membro dell’Abwher tedesca che faceva il doppio gioco con l’intelligence britannica, li avevano informati di un prossimo attacco giapponese.
Amministrazione Bush: menzogna e disinformazione al potere
L’invasione dell’Iraq, cinicamente denominata “Iraqi Freedom”, iniziò il 20 marzo 2003 ma fu accuratamente preparata da una lunga campagna di manipolazione dell’opinione pubblica mondiale a cui fu fatto credere, usando rapporti imprecisi, fonti inaffidabili e informazioni inventate di sana pianta, che Saddam Hussein era un sostenitore di gruppi terroristici e non solo possedeva un pericolosissimo arsenale di armi chimiche ma stava anche cercando di dotarsi di una bomba nucleare che avrebbe potuto usare contro l’Occidente se non fosse stato fermato prima.
In pratica, il governo più potente del mondo si servì di tutte le sue strutture operative per accusare Saddam sulla base di elementi imprecisi o, addirittura, falsi. Vista la potenza di fuoco messa in campo, la cosiddetta stampa indipendente, evitò di porre domande scabrose e accettò senza indagare troppo la linea ufficiale elaborata dai neocons. L’intera operazione non sarebbe potuta andare in porto se non fosse stata sostenuta anche dal primo ministro britannico Tony Blair, schierato in toto con le posizioni dell’amministrazione Bush e che fece da cassa di risonanza a tutte le richieste americane.
Dopo la Prima guerra del Golfo, Saddam era stato costretto ad accettare ispezioni dell’ONU che avevano lo scopo di identificare depositi e impianti in grado di produrre armi chimiche o altre armi vietate e distruggerle. Verso la metà degli anni ’90 del secolo scorso, gli ispettori trovarono diverse installazioni che violavano le condizioni imposte all’Iraq e, a quel punto, Saddam Hussein bloccò ulteriori ispezioni, favorendo l’aumento delle tensioni. In questo contesto, i servizi segreti americani iniziano a mobilitarsi per gettare discredito ulteriore sul dittatore iracheno e cominciano ad alludere a un acquisto iracheno di uranio per produrre una bomba atomica. Nell’estate del 2001 il SISMI (il servizio segreto militare italiano) si presta a diffondere documenti falsi secondo i quali Saddam Hussein aveva cercato di acquistare uranio dal Niger (cfr articolo di Leonardo Servadio del 9 marzo 2021). Alla base di questo tentativo c’era una lettera, datata 27 luglio 2000, firmata dal presidente del Niger dove si parlava del futuro invio in Iraq di 500 tonnellate di uranio. Il vicepresidente americano Dick Cheney coglie la palla al balzo e va subito alla CNN per dichiarare che Saddam Hussein si sta mobilitando per procurarsi armi nucleari. La lettera contiene elementi gravissimi ma c’è un piccolo dettaglio da tenere in considerazione: è falsa.
La CIA aveva infatti chiesto al DGSE (i servizi segreti militari francesi) di indagare sul caso, visto che l’estrazione e la commercializzazione dell’uranio in Niger avvengono sotto la rigida supervisione francese. Secondo Alain Chouet, il numero due del DGSE in quegli anni, l’informazione era poco credibile perché per il trasporto di un quantitativo così elevato sarebbero stati necessari decine di camion, perfettamente identificabili, oppure tanti aerei di cui non viene rilevata la minima presenza. Senza considerare poi che, essendo il Niger senza sbocco sul mare, l’uranio avrebbe dovuto attraversare senza farsi notare i Paesi confinanti. Dei funzionari francesi si recano in Niger e controllano tutta la corrispondenza ufficiale del governo e scoprono che la lettera è un falso grossolano, lo stemma ufficiale della Repubblica del Niger è sbagliato e negli archivi non esiste alcun originale di quella missiva. L’informazione viene comunicata a Washington ma Cheney dubita delle conclusioni francesi e continua a sostenere la sua linea, non suffragata da alcun riscontro. A questo punto, Tony Blair fa una dichiarazione in cui accusa l’Iraq di aver qualcosa da nascondere sulle armi di distruzione di massa.
Il 12 settembre 2002 il presidente Bush tiene un discorso all’ONU, preparato da una sezione speciale del dipartimento della Difesa diretta dal già citato Paul Wolfowitz e da Douglas Feith, sottosegretario alla Difesa e attivissimo neocon, in cui attacca violentemente Saddam, ingiungendogli di sospendere il suo appoggio al terrorismo. Bush accusa Baghdad di aver un programma operativo per realizzare ordigni nucleari e di possedere missili capaci di colpire oltre i 150 chilometri e afferma, senza fornire nessuna prova, che l’Iraq “sta costruendo missili ancora a più lungo raggio in grado di compiere uccisioni di massa in tutta la regione”. La mobilitazione raggiunge toni parossistici, fino al punto che, l’11 ottobre, il Congresso USA autorizza il presidente a lanciare una guerra contro l’Iraq nel momento che riterrà più opportuno e senza la necessità di un mandato da parte dell’ONU. Il bellicoso discorso di Bush preoccupa il presidente francese Jacques Chirac che, di fronte alla montante retorica bellicista, continua a difendere l’opzione diplomatica.
La Francia tenta di evitare l’invasione
L’8 novembre 2002, il Consiglio di sicurezza dell’ONU approva la Risoluzione 1441 che chiede all’Iraq di riaprire le porte agli ispettori e rispettare tutti gli accordi sottoscritti precedentemente. Con un’economia fiaccata da anni di sanzioni internazionali e un’opinione pubblica sempre più scontenta, Baghdad fa dei passi per riaprire le porte agli ispettori internazionali, ma non ha strumenti per smentire le accuse sulle armi chimiche o i contatti con i terroristi perché l’opinione pubblica mondiale prende per oro colato la martellante propaganda anglo-americana. Nel dicembre del 2002 l’Iraq fornisce all’ONU un corposo dossier dove documenta nei dettagli tutte le scorte di componenti chimici e le armi attualmente in suo possesso. Gli ispettori ONU tornano in Iraq e, per due mesi, girano il Paese in lungo e largo, cercando armi proibite, senza trovare nulla. Washington replica che Saddam Hussein nasconde le sue reali intenzioni e che sta dissimulando la sua volontà di aggredire l’Occidente.
Visto che la decisione di scatenare la guerra è ormai presa, il presidente francese Chirac dichiara apertamente il suo dissenso e fa trapelare la sua intenzione di porre il veto al Consiglio di sicurezza dell’ONU, nel caso gli Stati Uniti sollecitino una mandato da parte delle Nazioni Unite. Un confronto diretto con Bush avviene il 21 novembre del 2002, al vertice della NATO a Praga. Chirac incontra privatamente il presidente americano e ha con lui una lunga discussione faccia a faccia. Secondo Bruno Le Maire, attuale ministro dell’Economia francese ma ex consigliere del ministro degli Esteri Dominic de Villepin che segue poi alla presidenza del Consiglio, Chirac fu molto diretto con Bush: “Se interverrete in Iraq-dice il presidente francese- moltiplicherete il numero dei bin Laden. Pensate di sbarazzarvi della minaccia del terrorismo ma, invece, la nutrirete per altri dieci anni”. Bush si mostra irremovibile. Il Primo ministro italiano Berlusconi e quello spagnolo Aznar appoggiano la linea americana e britannica, mentre Chirac e il Primo ministro tedesco Schröder sono contrari, come pure il russo Putin.
Nel gennaio del 2003 gli Stati Uniti e la Gran Bretagna dispiegano 120.000 militari nel Golfo, preparandosi a un’azione unilaterale che tiene fuori la Francia. Visto che i preparativi bellici sono ormai ultimati, il 13 gennaio 2003 Chirac invia a Washington il suo consigliere diplomatico Maurice Gourdault-Montagne che incontra Condoleezza Rice, la Consigliera per la sicurezza nazionale, a cui chiede: “Cosa potrebbe convincervi a non fare questa guerra?”.Rice risponde: “Che Saddam se ne vada”. Il 28 gennaio, nel suo discorso sullo stato della nazione, Bush elenca le minacce irachene agli Stati Uniti e riprende, usando il governo britannico come fonte, la falsa storia dell’uranio acquistato in Niger. Parigi, Mosca e Berlino si dichiarano ancora una volta d’accordo nel far proseguire le ispezioni dell’ONU e della AIEA, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, ma Washington sta solo aspettando il momento per iniziare l’offensiva militare.
Prima di lanciare un attacco unilaterale, l’amministrazione Bush fa un tentativo formale di procurarsi il sostegno dell’ONU e per ottenere questo risultato decide di inviare il suo uomo più popolare, il segretario di Stato Colin Powell, ex eroe della Prima guerra del Golfo. La CIA, diretta da George Tenet, ha preparato un dossier che contiene molte parole e pochissimi fatti, il che solleva le obiezioni di Powell che chiede se le informazioni riportate sul documento sono affidabili, visto che parlano di armi nucleari, laboratori mobili per armi chimiche, senza fornire elementi concreti. Tenet ribatte che lui deve rispondere del suo operato al Congresso per cui Powell deve fidarsi ma che, evidentemente, ha così tanti sospetti che pretende la presenza del capo della CIA alle sue spalle durante il discorso all’ONU. Così, il 5 febbraio 2003, il militare tutto d’un pezzo Powell viene spedito all’ONU a sventolare una fialetta che dovrebbe contenere antrace, nel vano tentativo di mobilitare l’assemblea generale contro le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Lo stesso giorno dell’intervento di Powell, il ministro degli Esteri francese de Villepin tiene il suo discorso all’ONU in cui tenta di dissuadere gli Stati Uniti dall’attaccare l’Iraq, affermando la necessità di “dare la priorità al disarmo pacifico”. Ma ormai la macchina bellica ha iniziato la sua corsa di morte.
Il papa e i pacifisti non riescono a fermare la “guerra preventiva”
Il 15 febbraio 2003 si svolgono manifestazioni pacifiste a Londra, Damasco, Amsterdam, Berlino, New York, Il Cairo, Città del Messico, Parigi, Roma. Milioni di cittadini scendono in piazza in seicento città del mondo, in quella che forse fu la più grande manifestazione popolare della storia, per chiedere agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna di non scatenare la guerra. Giovanni Paolo II proclama ripetutamente in modo accorato il suo no alla guerra e invia a incontrare Bush il cardinale Pio Laghi, l’ex nunzio pontificio negli USA, mentre il cardinale Roger Etchegaray viene mandato a Baghdad a parlare con Saddam Hussein. La Casa Bianca, nonostante la conoscenza personale tra il presidente e Laghi non deflette minimamente da quella che è ormai la sua posizione definitiva.
Il 17 marzo, rinunciando a ulteriori pronunciamenti da parte dell’ONU e a qualunque altra iniziativa da parte del Consiglio di sicurezza, Bush afferma che le possibilità della diplomazia sono esaurite e lancia un ultimatum al presidente iracheno, ingiungendogli di abbandonare il Paese in 48 ore. Dopo il rifiuto di Saddam di andarsene, il 20 marzo l’aviazione americana inizia le ostilità colpendo con bombe di precisione le istallazioni militari e governative dove si riteneva che il presidente iracheno incontrasse i suoi collaboratori. Era iniziata un’offensiva militare, totalmente illegale da un punto di vista del diritto internazionale, che avrebbe portato alla morte di centinaia di migliaia di iracheni e che, ancora peggio, avrebbe distrutto le fondamenta dello Stato, creando le precondizioni per la nascita di un feroce terrorismo islamista e insanguinato non solo il Medio Oriente ma anche numerose città europee, provocando centinaia di vittime innocenti.
(continua)
di Galliano Maria Speri