L’urbanistica diffusa nel secondo dopoguerra è stata ampiamente criticata e superata, sul piano concettuale e sul piano pratico. Frutto del razionalismo funzionalista, essa immaginava di poter pianificare città come enormi macchine produttive divise in settori specializzati, e così riduceva i suoi abitanti a ingranaggi dei complessi manifatturieri – soprattutto i nuovi abitanti, cioè coloro che si erano inurbanti nelle dilaganti periferie, frutto dell’imponente industrializzazione che aveva portato in pochi anni l’economia del nostro Paese (e di altri Paesi europei) a superare la sua precedente condizione prevalentemente agricola.
Occorre non dimenticare, nel rievocare quell’epoca, che essa ha bensì comportato tanti scempi urbanistici tipicizzati dalla rapida cementificazione delle zone che erano periurbane e sono rapidamente divenute in gran parte dormitori privi di storia e di carattere, specie di vaste caserme per quanto prive di muri di cinta. Ma è stata anche un’epoca di grandi speranze e il trauma che, visto retrospettivamente, appare l’esito di programmi malfatti e malpensati a suo tempo è stata la risposta data a necessità impellenti di carattere abitativo in circostanze in cui si è passati dalla povertà generalizzata a una condizione di relativa agiatezza nel giro di pochi anni: il cosiddetto “boom” degli anni ‘50 e ‘60.
Ma, fatta tale premessa cautelativa, resta che di tale epoca sono rimaste le periferie-dormitorio e che nei decenni più recenti s’è compreso come la pianificazione a tavolino si riveli spesso fallace in quanto fondata su pregiudizi che non sono in grado di comprendere e interpretare una realtà di forte complessità quale quella urbana, che per giunta è in continua evoluzione.
Per cui le tendenze sul piano urbanistico più recenti suggeriscono che chi si occupa di pubblica amministrazione invece di immaginare come coartare l’evoluzione futura del tessuto urbano, si ponga in relazione dialettica con le forze economiche le quali a loro volta cercano di anticipare e interpretare bisogni e desideri dei cittadini – cioè di coloro che usufruiscono da “consumatori” degli spazi urbani.
Ma in tutto questo emerge che c’è qualcosa di fondamentale che manca. Potremmo chiamarlo: lo spirito della città, quel “genius loci” di cui tanto s’è scritto e parlato dagli anni Settanta in poi. O forse è più corretto dire che la visione e la progettazione delle città, succube delle logiche di carattere economico (siano esse improntate a una visione pubblico-sociale o a una visione privatistica), ha finito per dimenticare che l’essere umano – lo sappia o no, lo accetti o no – è anche dotato di una parte spirituale. In altre parole, i modi di vivere e di concepire la cultura nell’età contemporanea hanno dimenticato l’anima delle città, e l’hanno dimenticata perché tralasciata è stata l’anima e la spiritualità veicolata dalla visione religiosa del mondo.
La città e la relazione
Di tali tematiche si trovano echi rilevanti nel volume “Esseri urbani. La città relazionale e i nuovi paradigmi dell’abitare” di Joseph di Pasquale (il Poligrafo, pagine 86, euro 23,00).
Scrive l’Autore: siamo “esseri urbani” per “costituzione genetica” mentre nota come ovunque nel mondo l’urbanesimo è destinato a aumentare. E se questo in aree del mondo sinora ancora non industrializzate comporterà il fenomeno qui da noi già esperito tempo fa (forte aumento della popolazione urbana e drastica riduzione del numero di chi vive nelle campagne), ovunque si richiederà di “puntare sulle città… caricarle di valori positivi e di bellezza e soprattutto immaginarle e progettarle per renderle aderenti alle aspettative e ai desideri” di chi le abiterà.
La soluzione ai dilemmi nei quali sinora si è dibattuta l’urbanistica (e nei quali continua a dibattersi) sta, secondo di Pasquale, nell’elaborazione di una nuova infrastruttura che permetta di superare l’atomizzazione sociale cui ha portato la città dei condomini e dei miniappartamenti: “l’infrastruttura relazionale” (pag 15).
Già Martin Buber
Già negli anni Venti del ‘900 Martin Buber aveva esplorato l’argomento: “in principio è la relazione” (“Ich und du”) è il concetto cardine attorno al quale ruota il suo pensiero: “Il fatto fondamentale dell’esistenza umana non è né il singolo come tale, né la totalità come tale. Considerati in sé, essi non sono che potenti astrazioni. Il fatto fondamentale dell’esistenza umana è l’uomo con l’uomo” argomentava.
Una visione dialogica che ha portato Buber alla ricerca dell’intesa fondata sul rispetto degli uni verso gli altri: dal riconoscimento dell’eguale dignità dell’altro consegue la reciprocità.
Ma altro è agire al livello del pensiero, altro è progettare nella concretezza della realtà urbana. Di Pasquale, riscoprendo il tema della relazionalità come fondante, si chiede se e in che misura il disegno dello spazio urbano, oltre a conseguire dalla cultura diffusa, possa divenire a sua volta strumento di generazione di cultura e di comportamenti: tale era la visione razionalista di Le Corbusier, spiega. Ma è proprio quella che s’è vista fallire nelle periferie della zonizzazione del secondo dopoguerra, per cui di Pasquale propone questo: se Le Corbusier prospettava un modello abitativo capace di indurre comportamenti coerenti con la visione razionale, oggi bisogna invece pensare a individuare i desideri abitativi e nella pianificazione urbana studiare come non impedire la libertà di scelta dei comportamenti delle persone.
Nel considerare quanto avvenuto in questi anni più recenti, si nota che l’appartamento nucleare (il tipico appartamento da condominio urbano, dove le persone vivono senza magari conoscere nulla del dirimpettaio) è superato dal desiderio – dalla necessità – di nuova socialità che si ravvisa per esempio nell’uso dei “social” elettronici che consentono di tenere relazioni a prescindere dal luogo in cui ci si trova e si lavora. E nella logica dello sviluppo urbano questo può voler dire che si sente la necessità di favorire quei luoghi che permettono le relazioni. E questo, sostiene di Pasquale, si traduce nell’idea di “agevolare il processo di trasformazione in senso reticolare della struttura” urbana che viene catalizzato da luoghi di particolare propensione relazionale quali le scuole dove, come evidenziato da Gianni Vega quando era assessore all’urbanistica di Milano, si incontrano i ragazzi di recente immigrazione con i loro coetanei di ogni provenienza, favorendo così anche gli incontri tra le loro famiglie.
La logica dei luoghi
È evidente il desiderio dell’Autore di promuovere l’evoluzione dei tessuti urbani esistenti così che siano capaci di accogliere e di favorire i dialoghi e le relazioni tra le persone. Così come è evidente che se il mondo avesse saputo ascoltare le parole di Martin Buber, il XX secolo ci avrebbe risparmiato tanto di quegli orrori per cui resterà ricordato.
Se oggi ci possa essere una risposta più efficace ed effettiva alle problematiche che i diversi approcci di carattere relazionale hanno cercato di risolvere, è da vedere.
Certamente e in ogni caso resta rilevante cercare questa risoluzione, per ipotetica che sia. E, al proposito, il vantaggio, per così dire, dell’urbanistica rispetto alla filosofia è che quella è in grado di generare luoghi fisici che restano nel tempo e che inevitabilmente sono usati da chiunque: pertanto inevitabilmente esercitano un influsso sulle persone che li usano. I luoghi fisici offrono opportunità concrete.
Ma il modo di pensare delle persone non sarà necessariamente migliorato dal trovarsi in luoghi migliori – seppure sia da molti ritenuto provato il contrario, cioè che luoghi malfatti e malpensati abbiano un influsso negativo sulle persone e sui gruppi (l’argomento è variamente ripreso riguardo a casi come il quartiere Zen di Palermo, le “vele” di Scampia a Napoli, i palazzi di Gropiusstadt a Berlino).
Relazione e religione
Vorremmo qui evidenziare come, sia nel caso di Buber sia nel caso di questo recente trattatello di urbanistica stilato da di Pasquale, ci si fermi di fronte a una tematica di sostanziale peso che andrebbe invece ripresa ed esplorata a fondo. Perché quel che tiene assieme gli esseri umani è anzitutto la religione. Cioè il paradigma fondante del loro concepirsi come esseri umani che sussiste in chiunque, per ateo che si dica (c’è chi crede di non credere, ma è sempre un credere quel che ne sostiene il pensiero).
E come le comunità umane si organizzano attorno a elementi comuni condivisi e radicati e trasmessi dalle religioni, così le città in realtà si strutturano non in relazione alla trama di strade o alle sequenze di facciate, ma attorno a elementi gravitazionali che le incardinano rappresentandone, ovvero il fattore di identità che permane nel tempo. Questo nella città europea (o nelle città sorte su altri continenti sulla base dell’impulso della cultura europea) è costituito dalle chiese, così come nella cultura ebraica è costituito dalle sinagoghe o in quella islamica dalle moschee.
Al riguardo è evidente che il vero problema della città europea, lievitato in particolare dal ‘900, è che le chiese (o in generale i luoghi di culto, cioè quei luoghi in cui le comunità e i singoli si riconoscono quali esseri umani e non quali funzioni) sono state sempre più emarginate. Perché è lì che sta l’anima delle città. Ed è quella che bisogna recuperare. Tenendo presente che le culture delle religioni a loro volta, assunte nella loro essenza e non nelle loro versioni spicciole fondate sulla propaganda o sull’esercizio del potere, sanno e desiderano dialogare in un mutuo, proficuo interscambio relazionale.