Gli Emirati Arabi Uniti (EAU), nati nel dicembre 1971, dopo essere stati protettorato britannico dal 1853, sono riusciti a diventare in pochi decenni una meta turistica internazionale e, soprattutto grazie a Dubai, anche un dinamico centro per la finanza e lo sviluppo immobiliare. All’arrivo si rimane abbagliati dalla miriade di grattacieli e di centri commerciali tra i più grandi del mondo ma, dietro lo splendore rutilante del consumismo sfrenato, si cela uno dei regimi più oppressivi, iniqui ed eco-distruttivi del mondo. Un nuovo libro di Emanuele Felice, ordinario di Politica economica nell’Università Gabriele D’Annunzio di Pescara, contribuisce a far luce sulla realtà di un Paese che intende proporsi come modello per il capitalismo del XXI secolo.
Porti, grattacieli e centri commerciali
Per capire le dinamiche economiche locali dobbiamo tener conto che a Dubai potere politico ed economico coincidono nella persona di Mohammed bin Rashid al-Maktoum, salito al potere nel 2006 come emiro di Dubai, vicepresidente e primo ministro degli Emirati Arabi Uniti. Seguendo le orme del suo antenato Maktoum bin Hasher che, sotto il patrocinio degli inglesi aveva iniziato lo sviluppo commerciale di Dubai alla fine dell’800, Mohammed ha trasformato il suo emirato nel principale porto franco per le merci provenienti dall’oriente e dirette verso l’Europa. Lo strumento gli è stato fornito dalla politica visionaria di suo padre Rashid che con la creazione di Jebel Ali, inaugurato nel 1979, ha dato vita al maggiore porto artificiale del mondo. In questa enorme struttura si è sviluppata la più grande “zona libera” a livello mondiale nella quale operano più di 7 mila imprese e lavorano 150 mila persone.
A Dubai non si pagano tasse, né sul reddito né sui profitti, e l’IVA (solo al 5%) è stata
introdotta nel 2018. Esiste una legge del 1969 che, per modernizzare il Paese, ha introdotto la tassazione progressiva per scaglioni di reddito ma è sempre rimasta lettera morta e non è mai stata applicata. Nel 2004 viene creato il Dubai International Financial Centre che, oltre a non imporre tasse, garantisce che questa situazione perdurerà per cinquant’anni. Alle imprese straniere è consentita la proprietà al 100% e qui vale un’ulteriore eccezione perché non viene applicata la legge emiratina ma esistono appositi tribunali e giudici provenienti da Paesi che applicano la common law, come il Regno Unito, Singapore e Hong Kong. Non possiamo quindi stupirci del fatto che Dubai sia diventata la capitale mondiale del riciclaggio secondo McMafia, l’esplosivo libro del 2008 del giornalista inglese Misha Glenny. Il libro documenta come dopo la caduta dell’URSS Dubai sia diventato il punto di incontro di quasi tutte le mafie mondiali, da quelle russe alle Triadi di Hong Kong, dalla yakuza giapponese alla ‘ndrangheta calabrese.
Oltre alla finanza, un’attenzione particolare è stata dedicata allo sviluppo immobiliare che ha del miracoloso perché, in pochi decenni, Dubai è diventata la città con più grattacieli al mondo. Dei cento edifici più alti della terra, ben venti si trovano a Dubai, che supera così i principali rivali Hong Kong, Chicago e Shanghai (tutti sotto i dieci). Tra questi grattacieli svetta il Burj Khalifa, l’edificio simbolo della città che, con i suoi 830 metri, è l’edificio più alto al mondo. La struttura porta il nome dello sceicco Khalifa bin Zayed al-Nayan, presidente dal 2004 degli Emirati Arabi Uniti ed emiro di Abu Dhabi e quindi della dinastia e della città che contende a Dubai la preminenza nell’emirato. Il Burj Khalifa è stato edificato dalla Emaar Properties, una della maggiori società mondiali nel settore immobiliare, appartenente naturalmente a Mohammed bin Rashid al-Maktoum che, dando al grattacielo il nome della dinastia rivale, ha sancito con un’abile mossa politica una salda alleanza.
L’impetuoso sviluppo immobiliare, che ha creato isole artificiali su cui edificare, si è sommato alla fondazione della Emirates, una compagnia aerea che si è presto affermata a livello internazionale, contribuendo a fare dell’aeroporto uno scalo di prima grandezza a livello globale. L’aeroporto di Dubai è oggi il principale al mondo per traffico di passeggeri internazionali e il terzo per traffico totale. La dinamicità della Emirates e la ricchissima offerta alberghiera hanno poi trasformato un lembo di terra su cui non c’era niente da vedere in una meta turistica mondiale, tanto che Dubai è oggi la quarta città più visitata la mondo dopo Bangkok, Londra e Parigi. Nel 1990, Dubai ospitò 600 mila viaggiatori. Nel 2008, alla vigilia di una crisi economica che avrebbe potuto segnare per sempre la fine del suo modello di sviluppo, i turisti arrivarono quasi a sette milioni. Oggi, dopo aver superato la crisi, il numero di visitatori ha raggiunto i 16 milioni.
L’altro lato della medaglia
Il percorso che conduce dall’aeroporto alla metropolitana ha una pavimentazione su cui campeggia la scritta Welcome to the happiest city in the world. Oltre ad essere uno spregiudicato imprenditore, al-Maktoum è anche un poeta che nel 2017 ha dato alle stampe Reflections on Happiness and Positivity. Se a questo aggiungiamo che Dubai è probabilmente l’unico Stato al mondo a possedere dal 2016 un ministero della Felicità, potremmo concludere che il mito dell’Arabia Felix è rinato e che la sagacia e l’impegno instancabile dello sceicco e uomo d’affari hanno ricreato un nuovo giardino dell’Eden. Purtroppo, le cose non stanno così. C’è un dato drammatico su cui dobbiamo riflettere: a Dubai gli immigrati sono la stragrande maggioranza della popolazione, più del 90%, provenienti principalmente dal subcontinente indiano, e non hanno alcun diritto.
I cittadini degli Emirati sono soltanto 300mila e percepiscono un reddito elevato anche se non lavorano, quelli che incassano senza muovere un dito sono infatti il 20%. Il lavoro duro nelle fabbriche, nei servizi, nella pulizia di strade ed edifici viene fatto da immigrati che operano in condizioni disumane. I turisti guardano con ammirazione la pista da sci funzionante all’interno di un enorme centro commerciale e si rinfrescano con l’aria condizionata presente in tutte le strutture. Le fabbriche non sono invece dotate di refrigerazione e, considerando che le temperature raggiungo spesso i 50 gradi, il posto di lavoro può diventare letteralmente un inferno. Non dobbiamo quindi meravigliarci che tra gli immigrati il tasso di suicidi sia sette volte più alto che tra gli emiratini.
La struttura sociale di Dubai è profondamente razzista, al pari della sua impalcatura economica: per uno stesso lavoro un occidentale viene pagato più di un indiano o di un mediorientale e, quello che è ancora più grave, non esiste il concetto di diritti umani. Gli immigrati vengono fatti arrivare, spesso con promesse mirabolanti ma, una volta a destinazione, il loro passaporto viene sequestrato e sono costretti a lavorare fino a 60 ore a settimana, senza alcun diritto sindacale. Non esiste una vera e propria opposizione, ci pensa l’emiro a concedere graziosamente i privilegi riservati ai locali.
Durante la cosiddetta “primavera araba” un sito ribelle osò lanciare una petizione che richiedeva l’istituzione di un parlamento, il suffragio universale e l’evoluzione della federazione in una monarchia costituzionale vincolata al rispetto dei diritti umani. La risposta del regime fu durissima: dopo aver aumentato gli emolumenti per i cittadini degli Emirati, si pensò bene di far arrivare mercenari provenienti dal Sud Africa e dalla Colombia. I firmatari della petizione vennero arrestati, alcuni furono torturati mentre altri scomparirono semplicemente senza lasciar traccia. Tutto fu messo a tacere. Il messaggio agli emiratini era: vi diamo tutta la ricchezza materiale possibile per essere felici ma scordatevi di pensare con la vostra testa o di pretendere di avere diritti oltre a quello che vi viene concesso dall’alto.
Anche i membri dell’elite che non si sottomettono rischiano grosso. Nel 2018, Latifa, una
delle figlie dello sceicco Mohammed, tentò la fuga dal Paese ma fu bloccata e ricondotta in patria, dove venne sottoposta a cure psichiatriche. Nel giugno del 2019, ci sarà uno scandalo ancora maggiore quando una delle mogli dello sceicco, la principessa Haya bint al-Hussein, figlia del defunto re di Giordania, riuscì a fuggire in Gran Bretagna portando con sé i due figli e 31 milioni di sterline. La principessa ha fatto sapere da Londra di temere per la propria vita. Ma il problema non è tanto il vero volto di questo paradiso per turisti (molto kitsch a dire il vero), ma il fatto che questo capitalismo spietato e senza regole comincia a essere proposto come modello per l’Occidente. La sua politica verso gli immigrati, sfruttati e rimandati via dopo l’uso e senza alcun diritto, attrae le forze populiste che da tempo propongono l’ossimoro di un “capitalismo illiberale”. Il libro riporta una serie di esempi a livello internazionale a partire da Cina, Russia, Turchia, Brasile. Certo, prima di vedere gli sceicchi sbarcare a piazza San Pietro passerà qualche anno, ma non dimentichiamo che non troppo tempo fa venne evitata per un soffio una donazione pelosa che avrebbe consentito all’Arabia Saudita (che è pure peggio di Dubai) di sedere nel prestigioso consiglio di amministrazione della Scala di Milano.
di Galliano Maria Speri
Emanuele Felice
Dubai, l’ultima utopia
Il Mulino, p. 222, € 15