di Axel Famiglini

Nel 2004 è uscito negli Stati uniti il romanzo fantapolitico dello scrittore Philip Roth intitolato “Il complotto contro l’America” (titolo originale: “The Plot Against America”). L’autore si immagina che nel corso delle elezioni presidenziali del 1940 venga eletto Charles Lindbergh al posto di Franklin Delano Roosevelt. Come noto Lindbergh, famoso aviatore, era accusato di essere filonazista ed antisemita e ricopriva il ruolo di portavoce dell’America First Committee, una coalizione di isolazionisti che si opponeva all’idea che gli Usa entrassero in guerra al fianco dell’Inghilterra. Roth, muovendo i propri passi a partire da tale personaggio storico, intreccia la sua trama narrando come Lindbergh, dopo aver nominato vicepresidente il controverso senatore Burton K. Wheeler e aver affidato l’incarico di ministro dell’interno alla discutibile figura del magnate ed industriale Henry Ford, avvia una politica neutrale nei confronti dell’Asse, siglando un patto di non aggressione con Germania e Giappone. La situazione nel Paese, permeato ai vertici dall’ideologia nazi-fascista, degenera in un clima di crescente intolleranza e paura ove i principi di libertà ed uguaglianza naufragano passo dopo passo fra caos e disordini, in particolare ai danni della comunità ebraica. Tuttavia alla fine Lindbergh scompare inspiegabilmente e, dopo alcune traversie, vengono indette nuove elezioni, sancendo il ritorno di Roosevelt e della pace sociale, nonché l’ingresso degli Usa nel secondo conflitto mondiale con l’esito che tutti conosciamo. Nell’epilogo, a mo’ di spiegazione di quanto accaduto, si propone l’ipotesi, presentata dall’autore come poco credibile anche se non la meno convincente fra quelle circolanti, che in realtà fosse stato messo in atto un complotto contro l’America. Hitler avrebbe infatti rapito il figlio di Lindbergh, minacciando di ucciderlo se il padre non avesse promosso una politica favorevole alla Germania. Il dittatore nazista avrebbe agevolato la strada di Lindbergh verso la Casa Bianca, addirittura preparandone i discorsi. Alla fine Lindbergh sarebbe stato fatto sparire proprio dai Tedeschi stessi in quanto il noto aviatore non se la sarebbe sentita di agire nei termini radicali richiesti dal Reich nazista. Del romanzo di Roth è stata recentemente proposta una miniserie per la televisione, uscita negli Usa nel 2020.

All’epoca vidi la versione televisiva del romanzo, andata in onda su Sky, la quale mi colpì molto. Ebbi la sensazione che gli autori e i produttori della serie volessero polemizzare, in qualche modo, con la politica del presidente Trump, tuttavia il tutto sembrava rimanere nell’alveo di un confronto, per quanto acceso, fra visioni contrapposte dell’esercizio di un potere democratico. In alcuni miei articoli inerenti la politica estera e la geopolitica avevo in passato criticato la prima presidenza Trump per la sua propensione all’isolazionismo e alla promozione di una visione del mondo assai distante da quella che era stata la dottrina globale americana del secondo dopoguerra, a cominciare da una tendenza ad un ruvido  allontanamento dagli alleati europei e ad un sorprendente avvicinamento alla Russia di Putin, senza naturalmente dimenticare le già palesi simpatie personali di Trump per l’uomo forte del Cremlino. Lungi da me promuovere vuote e ridicole teorie del complotto, tuttavia mai come ora vi è la sensazione che talvolta la realtà non si discosti troppo dalla fantasia. Quanto accaduto negli Stati Uniti e nel mondo dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, avvenuto il 20 gennaio scorso, ha prodotto uno “tsunami politico” che, parafrasando Tolkien, “non si vedeva da un’era”. Prima del suo insediamento, per la verità, Trump era stato assai chiaro rispetto a quanto intendeva promuovere una volta riguadagnati i vertici del potere. Tuttavia vi era ancora la speranza che, come accaduto nel corso della prima presidenza di “The Donald”, una volta arrivato alla Casa Bianca, l’apparato statale costituito dal “funzionariato” di alto livello e le menti più razionali del suo “entourage” calmierassero le pulsioni centrifughe del “tycoon”, già pronto a far saltare per aria tutto e tutti. Trump, mal tollerando le regole democratiche, non ha mai accettato la fine del precedente mandato presidenziale e, quasi incarnasse il ruolo di un re deposto tornato trionfante dall’esilio, ha iniziato a regolare i conti nei confronti di tutti coloro che egli ritiene in qualche modo responsabili della sua “inammissibile detronizzazione”. Innanzitutto dazi per tutti: in primis contro Canada, Messico e Cina, anche se dopo le prime roboanti minacce, Trump è dovuto scendere a più miti consigli nei confronti dei primi due Paesi e ciò a fronte del fatto che le tariffe doganali avrebbero fatto ripartire l’inflazione nella stessa America. Parimenti sulla Cina Trump non ha potuto calcare la mano più di tanto dal momento che molte merci americane vengono prodotte nel “Paese del dragone” e un considerevole numero di beni importati dai consumatori americani è acquistato a buon mercato in Cina. Anche in questo caso dazi troppo elevati avrebbero prodotto conseguenti ripercussioni in termini di prezzi e costi. Tutto ciò però non ha fermato Trump dal promettere di tornare presto alla carica, in particolare se le sue richieste unilaterali di riequilibrio della bilancia commerciale, unite a più vaghe istanze legate alla lotta all’immigrazione clandestina e al traffico di droga, non verranno soddisfatte a seguito di negoziazioni che sarebbero in corso. Naturalmente si attendono i dazi contro l’Unione Europea, definita da Trump “molto ingiusta” nei confronti degli Stati Uniti, i quali probabilmente produrranno una crisi economica sia in Europa che negli Usa. Se sulla politica dei dazi si rimane in attesa di nuove “pirotecniche” iniziative, la vera “bomba atomica” geopolitica fatta deflagrare da Trump è stata quella relativa all’Ucraina e ai rapporti con la Russia. Negli ultimi tre anni la politica estera americana nei confronti dell’Ucraina è stata di sostegno totale sia in termini materiali che politico-morali. L’Ucraina, come noto, ha ricevuto dagli Usa miliardi di dollari di aiuti che hanno in parte coperto sia le necessità finanziarie del Paese che quelle militari, in particolare in termini di armamenti. Il supporto americano si è rivelato determinante per la tenuta dell’Ucraina e gli stessi Stati Uniti, assieme al Regno Unito, hanno incoraggiato Kiev a sostenere il conflitto con la Russia fino a quando non si fossero presentate le condizioni per ottenere una pace favorevole nei termini di una salvaguardia dell’integrità territoriale ucraina. Tuttavia nel giro di pochi giorni la politica estera americana degli ultimi ottant’anni è improvvisamente scomparsa. La storica telefonata Trump-Putin del 12 febbraio, introdotta, in termini di protocollo, il giorno precedente dalla visita a Mosca dell’inviato speciale per il Medio Oriente Steven Witkoff, ha di fatto sancito una cesura epocale negli indirizzi generali della geopolitica “a stelle e a strisce”. Nei fatti il presidente Trump ha improvvisamente ripudiato non solo tutto quello che era stato detto e fatto dall’amministrazione Biden ma anche tutti i fondamenti ideologici e strategici che hanno guidato gli Stati Uniti almeno dal secondo conflitto mondiale in avanti. Nei fatti l’America ha disconosciuto ogni forma di assistenza fornita all’Ucraina e qualunque sua aspirazione all’autodeterminazione, trasformando l’aiuto finanziario e militare fornito a Kiev in una mera ingente somma di denaro sconsideratamente elargita dagli Stati Uniti all’Ucraina da recuperare a tutti i costi con gli interessi.  Sempre il 12 febbraio lo stesso segretario alla difesa Pete Hegseth ha dichiarato che gli Stati Uniti non avrebbero sostenuto l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e che sarebbe stato irrealistico pensare ad un ritorno ai confini ucraini precedenti al conflitto. Ancora più incredibili sono state le dichiarazioni del vicepresidente Usa J.D. Vance il quale alla conferenza sulla sicurezza di Monaco del 14 febbraio, invece di affrontare il tema della situazione ucraina, si è messo a fare la morale all’Europa, sostenendo che il vero nemico non sarebbe né la Cina né la Russia ma che questo si troverebbe in realtà all’interno dei governi europei che non ascolterebbero i propri popoli. Vance oltretutto ha dichiarato che in Europa ci sarebbe una mancanza di democrazia e di libertà di parola e ha preso ad esempio l’annullamento delle elezioni presidenziali in Romania, nonostante queste fossero state pesantemente infiltrate e manipolate dalla propaganda moscovita. Fra i vari problemi che i governi europei non vorrebbero risolvere, a suo dire, vi sarebbe quello dell’immigrazione e su questo ed altri temi Vance ha pensato bene di incontrare a latere della conferenza la leader di Alternative für Deutschland (AfD) Alice Weidel, già sostenuta da Musk, di fatto chiarendo quali siano gli interlocutori privilegiati della nuova amministrazione americana, ossia i partiti populisti dell’estrema destra, gli stessi che dimostrano grande simpatia (generalmente ricambiata) per Vladimir Putin. Assolutamente condivisibile la nota di John Major, ex primo ministro britannico, il qualche ha sottolineato l’incongruenza di Vance, il quale prima pretende di dare lezioni di democrazia all’Europa e poi va a braccetto con il dittatore del Cremlino. Ci si dovrebbe domandare come sia stato possibile che la parola “buonsenso” sia stata presa in ostaggio da chi poi sostiene che i problemi del mondo attuale possano essere risolti da partiti estremisti. Come ha dimostrato la geografia delle ultime elezioni tedesche, i partiti di estrema destra pescano soprattutto laddove vi sono ampie criticità sociali e/o economiche, ovvero, nel nostro caso, presso i territori dell’ex-Germania est. Lo stesso si può dire per gli Stati Uniti e gli altri Paesi europei ove l’estrema destra può raccogliere ampi consensi. A parte l’evidente tentativo di influenzare il processo elettorale in Germania ed altrove, appare chiaro quanto siano cambiati i tempi da quando gli Americani si sono affacciati da protagonisti sullo scenario europeo con il presidente Thomas Woodrow Wilson e i suoi “Quattordici punti” del 1918 nei quali si sosteneva il principio dell’autodeterminazione dei popoli e del loro diritto all’indipendenza, alla sicurezza e allo sviluppo. Come poi dimenticare le parole del presidente John F. Kennedy del 1963 «Ich bin ein Berliner» (“Io sono un berlinese”), poste a testimoniare la grande vicinanza americana all’Europa nel corso della guerra fredda “combattuta” contro l’Unione Sovietica, nemico militare ed ideologico di entrambe le sponde dell’Atlantico. Oggi, al contrario, Stati Uniti e Russia, entrambi guidati da uomini politici per certi versi assai simili fra loro, i quali si ritengono entrambi “Unti del Signore”, sembrano più che altro interessati a spartirsi l’Ucraina e l’egemonia globale. La prima versione dell’ “istanza di rimborso” presentata dal presidente Trump alla martoriata Ucraina appare sintomatica di quanto siano mutati i modi e le sensibilità nel governo Usa. Trump non ha solo chiesto il controllo delle terre rare ma anche delle infrastrutture del Paese, dei porti, del settore petrolifero e minerario nonché di tutte le principali attività economiche e dei profitti da esse derivanti. E’ stato fatto giustamente notare che l’Ucraina viene trattata più che come Paese alleato come nazione sconfitta. E’ stato calcolato che l’Ucraina avrebbe dovuto versare agli Stati Uniti una percentuale del proprio prodotto interno lordo superiore a quanto preteso, in termini di riparazioni di guerra, dalla Germania a seguito del trattato di Versailles. Indubbiamente sono assai lontani i tempi in cui gli Americani lottavano per la propria indipendenza per sfuggire, fra le altre cose, alla possibilità che la finanziariamente malconcia Compagnia della Indie Orientali giungesse presso le colonie nordamericane per ripianare i propri debiti con metodi “indiani”. La nuova dottrina neocoloniale messa in atto dagli Americani ricorda altresì la vicenda dei Chedivè egiziani, prima fatti indebitare fino al collo e poi espropriati anche del loro Paese, così come ha magistralmente raccontato il noto storico americano David Saul Landes nel celebre saggio “Banchieri e Pascià. Finanza internazionale e imperialismo economico” (titolo originale: “Bankers and Pashas: International Finance and Economic Imperialism in Egypt”) del 1958. L’amministrazione Trump, già anticipata su questo punto da quella Obama, pretende un aumento delle spese militari da parte dei Paesi europei, i quali sono accusati di approfittare da lungo tempo della munifica e quasi disinteressata generosità americana. Quello che gli Americani tuttavia fingono di non ricordare è che furono proprio loro a spiegare agli europei quale dovesse essere il loro posto nel mondo quando la guerra di Suez del 1956 finì in un disastro completo per gli Anglo-francesi proprio perché gli Stati Uniti costrinsero Parigi e Londra ad un catastrofico cessate il fuoco, portando alle dimissioni di sir Anthony Eden, una sorta di ultimo dei Mohicani della vecchia Europa, e con esso alla fine di una classe dirigente, rimasta senza eredi (forse, almeno sotto certi aspetti, con la rara eccezione di Margaret Thatcher), che perlomeno aveva una sufficiente cultura politica e militare per gestire quelle che erano state fino ad allora potenze di natura globale. I soldi per la difesa andarono a finanziare lo stato sociale, il quale sicuramente produceva maggiore consenso elettorale rispetto a bombe e cannoni da impiegare all’altro capo del mondo; ciò poteva funzionare perché al resto, volenti o nolenti, “ci pensano gli Americani”. In tale ottica il comodo ed economico “ombrello americano” è stato l’esito conclusivo di un processo di assuefazione che ha conosciuto il suo principio in un contesto ove gli Americani hanno imposto la propria volontà agli “alleati” europei, distruggendo politicamente qualunque forma di dissenso a tale disegno. Oggi la classe dirigente europea, lontana anni luce dalla lunga stagione della proiezione politico-militare globale dell’Europa, ha perso completamente contatto con una serie di competenze e di priorità che l’urgenza del momento richiederebbe di ricostituire. La sensazione che si prova in queste giornate convulse e ricche di continui colpi di scena, ove sembra stagliarsi all’orizzonte il definitivo sgretolamento dell’ordine mondiale così come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi, è che gli Stati Uniti di Trump vogliano spartirsi il globo in sfere di influenza con Russia e Cina, trasformando tutti gli altri attori rimasti fuori dalla partizione in mere dipendenze e mercati preferenziali. Non condivido l’opinione di chi ritiene che Trump stia cercando l’alleanza di Putin per poi sfruttarla contro la Cina perché Putin non ha interesse a tradire il proprio alleato cinese che costituisce tutt’ora l’unica vera ancora di salvezza che il Cremlino può utilizzare per esprimere una politica estera autonoma e di primo piano nel mondo. Parimenti non credo che Trump voglia imbarcarsi in uno scontro diretto con Pechino il cui esito più passa il tempo e più diventa incerto. Ritengo piuttosto che Trump reputi più conveniente accordarsi con Russia e Cina, accettando una loro supremazia in determinate aree globali, concedendo loro qualcosa e facendosi a sua volta assicurare da questi il riconoscimento di una sfera di influenza americana e di un relativo mercato privilegiato, magari proprio presso il continente europeo. L’incontro di Riyad del 18 febbraio tra le delegazioni di Usa e Russia lascia proprio presagire questo disegno, dove i Paesi arabi del Golfo, grazie alla loro ricchezza sia petrolifera che finanziaria, potranno avere la forza per assumere un ruolo di intermediazione fra le parti e per riuscire a collocarsi in una sorta di zona grigia fra le sfere di influenza. Ciononostante il tentativo trumpiano di accordarsi con Cina e Russia costituisce un’evidente vittoria strategica per Pechino e Mosca ed un vero e proprio “assist” per il progetto dei BRICS. L’esclusione dell’Europa e dell’Ucraina dai colloqui di pace fa ben comprendere chi rappresenti parte della torta da spartirsi, soprattutto dal momento in cui Trump ha già praticamente concesso tutto e Putin detta l’intera linea. Rimane tuttavia sorprendente che nei piani di Trump da un lato debba essere l’Europa ad inviare i soldati sul terreno in Ucraina e dall’altro che ciò debba accadere senza coinvolgere l’Europa nelle negoziazioni. Per carità: sono state fornite ampie assicurazioni all’Europa e all’Ucraina sul loro futuro coinvolgimento nel processo negoziale, occorrerà però capire se il ruolo dell’Europa e di Kiev sarà quello di protagonisti o di meri spettatori che dovranno alla fine solo sottoscrivere gli accordi presi da altri sopra le loro teste. A questo punto della situazione occorre essere onesti fino in fondo. L’Europa inizialmente è stata “tirata dentro” al conflitto in Ucraina proprio dall’America di Biden e dall’alleato britannico. Basti solo ricordare il caso dei ridicoli cinquemila elmetti tedeschi offerti come aiuto all’Ucraina invasa dall’armata russa. Tuttavia con il tempo l’Europa ha assunto un ruolo molto attivo nella questione, rendendosi a poco a poco conto che l’esito del conflitto ucraino avrà un impatto estremamente significativo per i destini generali dell’Unione Europea e del Vecchio Continente. Il tradimento e il voltafaccia americano ha esposto l’Europa a gravissimi rischi per il suo futuro politico, economico, sociale e militare e per la sua stessa sopravvivenza quale libera comunità di Stati. L’Europa, dopo una prima reazione stizzita e un po’infantile, ha, per la verità, iniziato a ridestarsi dopo un profondo sonno. E’ ancora molto lunga ed impervia la strada da percorrere però qualcosa sembra muoversi. Non stupisce che si sia ancora una volta rinverdita l’Entente cordiale del 1904 fra Francia e Regno Unito, le celebri vittime di Suez e uniche potenze nucleari del continente europeo. Macron, superato lo sgomento iniziale, ha tentato di coordinare una risposta a livello europeo coinvolgendo anche il Canada. Lo stesso ha fatto Starmer del Regno Unito il quale proverà a rivestire ancora una volta il ruolo di ponte tra un’Europa abbandonata a se stessa e un’America assolutamente irriconoscibile. Starmer, in particolare, è insidiato da un grosso problema interno dato che Elon Musk, l’attuale “Gran visir” di Trump, non perde mai l’occasione per attaccarlo senza alcuna pietà e per portare acqua al mulino dell’estrema destra inglese, da questi “adottata” in blocco, su numerosi temi, fra i quali spiccano quelli assai scottanti, deflagranti e divisivi dell’immigrazione e della Brexit. Il Regno Unito si è speso moltissimo per l’Ucraina, ha investito ingenti risorse e ha recentemente firmato, in previsione di quanto sarebbe potuto accadere con Trump, un trattato di cooperazione anglo-ucraina della durata di ben un secolo. Pertanto una sconfitta per l’Ucraina sarebbe un disastro totale per Londra e il voltafaccia trumpiano è stato ritenuto un vero e proprio tradimento. Il Regno Unito, vista la grande vicinanza storica e culturale con gli Stati Uniti, è pesantemente esposto ai parossismi socio-politici epocali in atto in America e non si può escludere che l’onda nera proveniente da occidente possa un giorno sommergere le isole britanniche. Al contrario appare degno di nota che Jordan Bardella, presidente del Rassemblement National, abbia ritenuto opportuno disertare il congresso dei conservatori americani dopo l’ultimo “saluto romano”, oggi di gran moda negli Usa, apparentemente sfoggiato da Steve Bannon. Lo stesso Nigel Farage sembra sempre meno entusiasta di un Musk che vorrebbe farlo politicamente fuori, per sostituirlo con una figura più confacente allo spirito trumpian-muskiano del MEGA/MAGA. L’avallo all’idea di una spedizione anglo-francese in Ucraina (corsi e ricorsi storici?) posta sotto l’ombrello americano sarà ciò che Francia e Regno Unito sperano di poter strappare a Trump, tuttavia è veramente difficile dire che cosa succederà nella realtà. Positivo il recente intervento di Giorgia Meloni alla “convention” dei conservatori Usa, la quale, dopo un lungo silenzio (chissà a che cosa stava pensando), ha cercato di persuadere il presidente americano a non abbandonare l’Europa, causando in Ucraina un disastro paragonabile se non peggiore a quello prodotto da Biden in Afghanistan. Altrettanto rimarchevole la corale condanna da parte di maggioranza ed opposizione agli attacchi russi rivolti contro la figura del presidente Mattarella, evidentemente ritenuto “pericoloso” dal Cremlino in quanto personalità pubblica di livello europeo stimata ed ascoltata da tutti nonché portatrice di una visione fortemente critica nei confronti della politica russa in Ucraina. In mezzo a tutta questa confusione e a fronte del rischio epocale della stipula fra Russia e Stati Uniti di una nuova versione del patto Molotov-Ribbentrop, la prima vittima sacrificale sembra essere il povero presidente Zelensky, il quale da eroe indomito dell’Occidente tutto è passato ad essere, per bocca di Trump, un mero “dittatore” che non vuole le elezioni ed un “comico mediocre”. Trump è arrivato addirittura a dire che sia stata l’Ucraina ad iniziare la guerra. E’ evidente che ci troviamo in una situazione che giorno dopo giorno diventa sempre più allucinante e paradossale, al limite della follia o della piena disonestà intellettuale, in un frangente nel quale ciò che si dice la mattina non risulta più vero la sera o quello che si dice la mattina viene smentito la sera e invece ribadito tale e quale la mattina successiva. La proposta trumpiana di acquistare Gaza e di trasformarla in una riviera turistica rappresenta, se ancora ce ne fosse bisogno, l’ennesima prova di come la politica estera trumpiana risulti imprevedibile, assurda e totalmente irrispettosa di chiunque. Zelensky rischia assai in questo momento perché buona parte della sua forza politica risiedeva nel rappresentare l’anello di congiunzione politico, militare e finanziario tra Washington e Kiev. Ora che Trump lo vuole politicamente “fare fuori” per sancire rapidamente la pace con Putin alle condizioni richieste dal Cremlino e in base alla narrativa costruita dallo “zar” in persona, il suo stesso governo potrebbe essere a serio rischio dal momento che potrebbe cadere vittima di qualche complotto ordito ai suoi danni e ciò sia per mano moscovita che non. Trump ha dichiarato di non volere Zelensky al tavolo delle trattative perché il da lui delegittimato presidente ucraino tanto non avrebbe in mano nessuna carta da giocare, salvo poi affermare che Zelensky e Putin si dovrebbero incontrare. La stessa risoluzione Onu proposta dagli Stati Uniti in occasione del terzo anniversario della guerra in Ucraina trascura ogni menzione all’integrità del territorio di Kiev, in parte occupato dalla Russia. In definitiva o gli Stati europei sapranno subentrare in qualche modo e assai rapidamente nella difesa dell’Ucraina oppure l’Ucraina verrà in parte selvaggiamente “rapinata” dagli Americani e in parte spartita con la Russia. Se i Paesi europei non sapranno fare fronte a tale situazione, l’idea di Unione Europea presto o tardi collasserà e l’Europa si tramuterà nel mero giardino di casa del “bucaniere” di turno. Se il destino dell’Ucraina e dell’Europa rimane oscuro, assume connotati altrettanto oscuri cosa stia accadendo negli Stati Uniti, dove si può presumere che non tutti i cittadini americani condividano le azioni di un governo composto da nomenclature che potrebbero trovare facilmente un ruolo, anche grazie ad un certo physique du rôle per alcuni, in qualche film sui corsari dei Caraibi o in qualche lungometraggio incentrato su qualche fatto bellico pilotato fra le poderose cime delle alpi bavaresi. La deriva fortemente radicale della destra trumpiana, la quale ha totalmente snaturato il vecchio partito repubblicano, potrebbe causare un serio risentimento in tutti coloro che non si riconoscono nell’azione di governo del presidente Trump e del suo aspirante Delfino (anche se al momento a questi non sarebbe possibile essere tale ma forse questo dettaglio ad alcuni poco importa visto che le leggi si possono fare e disfare a piacimento). I licenziamenti di massa che stanno avvenendo in seno all’amministrazione pubblica lasciano attoniti a fronte di quella che appare essere come una vera e propria epurazione di massa. Appare lecito chiedersi quale sarà il destino della democrazia americana. Se l’adesione massiccia all’ideologia trumpiana e alla nuova “internazionale” della destra estrema organizzata da Musk può in parte derivare da una reazione agli eccessi generati dal cosiddetto “wokismo” e dal radicalismo di sinistra, tuttavia non è certamente gettando alle ortiche la liberal-democrazia e i principi costituzionali che si può sperare di costruire un mondo migliore. Non si può che tornare con la memoria all’undici settembre, quando la miopia, l’arroganza e l’ingordigia dell’allora amministrazione di Bush “figlio” e dei “neocon” produssero i processi politico-economico e sociali che hanno permesso a personaggi quali Donald Trump di raggiungere la vetta del potere o di avvicinarsi di molto ad essa. Chissà se Osama Bin Laden era stato effettivamente in grado di immaginarsi tutto questo.

Il fatto che a livello europeo si sia rapidamente compresa la gravità della situazione e l’urgenza di rispondere a tale minaccia esistenziale è sicuramente molto positivo. Sarebbe opportuno che si consolidasse l’idea che, al di là della vicenda Trump, non si possa seriamente pensare di rimanere per sempre sotto le altrui ali protettive perché questo limita di molto la propria libertà di azione dato che la presunta “generosità” di terzi cela sempre un interesse che non è detto che coincida in ogni caso con il proprio e ciò risulta soprattutto vero quando la potenza egemone si trasforma dal dottor Jekyll in Mr. Hyde. Si tratterà di capire però cosa effettivamente si potrà fare e se, anche in considerazione degli esiti dei prossimi incontri tra Usa e Russia, non sia troppo tardi per salvare l’Ucraina e, nella peggiore delle ipotesi, se si potrà semplicemente “salvare il salvabile”. E’ evidente che gli stati dell’Unione Europea dovranno investire ingenti fondi nella difesa, implementando piani militari che tengano conto del mutato scenario internazionale. Risulta in tale ottica indispensabile prevedere la creazione di un adeguato arsenale nucleare che funga da deterrente per le minacce che possano scaturire da più fronti, anche inediti. Pare che Trump abbia lanciato un ultimatum all’Europa (uno dei tanti) ovvero che abbia preteso che vengano concordate le condizioni di resa dell’Ucraina entro tre settimane, pena il ritiro americano dal Vecchio Continente. E’ in ogni caso evidente che Putin non ha al momento nessun interesse a pervenire ad un cessate il fuoco dato che sta vincendo la guerra e i Russi continuano ad avanzare. Putin, allo stato attuale, farà tacere le armi in Ucraina solo quando l’intera vicenda si sarà risolta alle sue condizioni.  L’impressione che si può avere da questi primi drammatici momenti è che i quattro anni della presidenza Trump saranno quattro lunghissimi anni e quale mondo emergerà da questa catastrofe dipenderà molto da come l’Europa saprà rispondere alle presenti minacce. Se poi dagli Stati Uniti scaturisse una forte opposizione interna, potrebbe parimenti accadere che la presidenza Trump possa prematuramente terminare. Lo stesso ascendente che Putin ha nei confronti di Trump e che viene abilmente e costantemente utilizzato dall’uomo forte del Cremlino, il quale conosce bene il suo “pollo”, potrebbe ad un certo punto suscitare una reazione interna all’amministrazione americana e alla società civile. Non si può neppure escludere che Putin, galvanizzato da un successo fino a poco tempo fa del tutto insperato, dopo la vittoria contro l’Ucraina non prosegua la sua corsa verso ovest, inducendo la caduta di una presidenza del tutto fallimentare e già completamente da censurare.  Al momento attuale, però, nulla di tutto ciò sembra essere all’orizzonte per quanto vi siano indicazioni che un diffuso malessere si stia diffondendo in certi ambiti politici democratici e nei ceti sociali più progressisti. Tuttavia il duo Trump-Musk sembra aver pensato anche a questo. Pare infatti che l’amministrazione Trump vorrà versare agli Americani cinquemila dollari a testa derivanti dai tagli operati da Musk. Indubbiamente una bella cifra che val bene lo sforzo di mettere la croce giusta sulla scheda elettorale. Probabilmente un fine analogo è celato dietro all’idea di eleminare il pedaggio per le auto che accedono a sud della sessantesima strada di Manhattan, il quale avrebbe dovuto contribuire alla riduzione del traffico e al finanziamento del trasporto pubblico. Evidentemente, purtroppo, la compravendita dei voti non è un male solo italiano ma incomincia ad essere anche americano. Mala tempora currunt sed peiora parantur.

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