Nel 1991, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, le neonate repubbliche di Armenia e Azerbaigian si sono ripetutamente scontrate per il controllo del Nagorno-Karabakh, enclave popolata da armeni, di religione cristiana, all’interno del territorio azero che aspira all’indipendenza. Nel 1993 l’Armenia controllava la regione ed era riuscita a occupare il 20 per cento del territorio azero circostante. Da allora, la situazione era rimasta immutata. Poi, in un violento conflitto, iniziato il 23 settembre 2020 e durato 43 giorni, l’Azerbaigian ha potuto riconquistare una parte importante della regione contesa, infliggendo un’umiliante sconfitta agli armeni. Cosa ha fatto la differenza? La tecnologia, la tattica aggressiva ma, soprattutto, l’intervento militare dei turchi a fianco dei correligionari azeri.
Le Wunderwaffen utilizzate dall’esercito azero hanno un nome, che forse non dirà molto ai non addetti ai lavori, ma che rappresentano una vera svolta nelle guerre contemporanee: si tratta del drone IAI Harop, di fabbricazione israeliana, e del Bayraktar TB2, di fabbricazione turca. Dopo anni di sconfitte, il presidente Ilham Aliyev, che nel 2003 era salito al potere dopo la morte di suo padre Heydar, ha iniziato a investire i ricchi proventi petroliferi in un’intensa campagna di riarmo e ha creato la più vasta flotta di droni dell’area. Secondo l’autorevole Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel periodo dal 2006 al 2019, Israele avrebbe fornito più di 825 milioni di dollari in materiale militare agli azeri. L’istituto svedese riferisce che le forniture includerebbero droni, sistemi missilistici anticarro e antiaereo, oltre a loitering munitions, droni-arma dotati di sistemi opto-elettronici che riescono a volare oltre le linee nemiche, sono in grado di individuare il proprio bersaglio e poi lo distruggono andando a schiantarsi contro l’obiettivo come farebbe un kamikaze.
Il secondo fornitore dell’Azerbaigian è stata la Turchia che, un mese prima che scoppiasse il conflitto, ha venduto al Paese caucasico armi per 77 milioni di dollari, facendo aumentare di sei volte le sue esportazioni. Secondo l’Assemblea dell’Export Turco, che raggruppa più di 95.000 ditte esportatrici, l’Azerbaigian ha acquistato nei primi nove mesi del 2020 sistemi di difesa e aerei per un valore di 123 milioni di dollari. Le armi turche vendute agli azeri includono droni, lanciamissili, munizioni e altri tipi di armi che sono arrivati nel Paese a luglio, quando gli scontri alla frontiera con l’Armenia hanno portato a manovre militari congiunte tra Turchia e Azerbaigian. La prima settimana di ottobre, funzionari turchi hanno dichiarato al solitamente ben informato Middle East Eye, che Ankara aveva deliberatamente stazionato dei caccia F-16 in Azerbaigian come “deterrente contro gli attacchi armeni”.
Truppe ottomane a sostegno dell’alleato azero
L’altro drone messo in campo dall’esercito dell’Azerbaigian è il Bayraktar TB2, di fabbricazione turca, a cui si devono però aggiungere le milizie mercenarie siriane, dispiegate dal sultano Erdogan per i lavori sporchi in cui non può usare direttamente i propri militari. Questa strategia si è rivelata devastante per gli armeni, che possono contare su vecchi armamenti russi e non possiedono sistemi in grado di colpire efficacemente i droni. Oryx, un blog che si occupa di questioni militari, ha svolto una serie di controlli basati su fotografie o video e ha affermato che l’Armenia ha perso 185 carri armati T-72, 90 autoblindo, 182 pezzi di artiglieria, 73 lanciatori di missili, 14 sistemi radar, un aereo da guerra SU-25 e 451 veicoli militari: una disfatta totale. Secondo la stessa fonte, gli azeri hanno perso 22 carri armati, 41 autoblindo, un elicottero, 25 droni e 24 veicoli militari.
Arayik Harutyunyan, leader degli armeni nel Nagorno-Karabakh, ha dichiarato il 10 ottobre 2020, giorno in cui è stata firmata la resa armena, che gli azeri sarebbero riusciti a conquistare l’intera regione nel giro di pochi giorni se i combattimenti fossero continuati. Le pesanti perdite umane, causate dagli attacchi dei droni sono stati un fattore determinante nello spingere il primo ministro armeno a firmare il cessate il fuoco. Sembra evidente che lo scoppio delle ostilità sia stato un evento a cui l’Azerbaigian si era ben preparato, visto che aveva appena svolto manovre militari congiunte con la Turchia e poi ha messo in campo una strategia sofisticata ed elaborata in precedenza. Infatti, nelle prime fasi del conflitto, gli azeri hanno spedito nel Nagorno-Karabakh undici vecchi aerei An-2, risalenti all’epoca sovietica e trasformati in droni, per fare da esca e scoprire dove fossero le postazioni armene, che sono poi state colpite facilmente dai droni azeri. In una dichiarazione al Washington Post dell’11 novembre 2020 Tom de Waal, esperto di questioni caucasiche del Carnegie Endowement for International Peace, ha affermato che “è ovvio che il fattore decisivo in questo conflitto è stato l’intervento turco a fianco dell’Azerbaigian. Sembra che siano stati loro a coordinare in modo pesante le operazioni belliche”.
D’altronde, i militari e i tecnici turchi possiedono una vasta e rodata esperienza nell’uso offensivo dei droni che hanno usato ripetutamente in Siria e in Libia. Proprio qui si sono rivelati un’arma formidabile nel bloccare prima e costringere poi al ritiro le truppe del generale Khalifa Haftar, nel maggio 2020. Dopo i successi militari in Siria e Libia, Erdogan può fregiarsi di una terza vittoria militare sul campo, attenuta grazie ai sofisticati droni turchi che gonfiano d’orgoglio il cuore del sultano anche per un motivo molto personale. Ankara ha iniziato a sviluppare una propria linea di droni dopo che gli Stati Uniti misero il bando all’esportazione di droni armati, nel timore che potessero essere usati contro le milizie curde all’interno e all’esterno del Paese (cosa che poi i turchi hanno ripetutamente fatto). L’artefice dello sviluppo di droni per uso militare si chiama Selçuk Bayraktar, uno studente del MIT di Boston che nel 2007 è rientrato in Turchia senza completare il suo PhD. Il 14 maggio del 2016 Selçuk è convolato felicemente a nozze con una certa Sumeyye Erdogan, la figlia minore del presidente turco.
La corda è stata tirata troppo?
L’accordo garantito da Mosca non potrà probabilmente assicurare una pace stabile, ma ha comunque dimostrato che i nuovi padroni del Caucaso meridionale sono Mosca e Ankara. Nonostante il fatto che la Russia si presenti come il difensore della cristianità, Putin ha permesso all’Azerbaigian musulmano di riconquistare il terreno perduto, ma non di ottenere una vittoria completa, ed è intervenuto prima che gli azeri (e i turchi) schiacciassero completamente l’Armenia. In questo modo, il presidente russo è tornato a giocare un ruolo fondamentale in entrambe le repubbliche ex sovietiche. Nell’area che separa i due contendenti sono già arrivati 2.000 militari russi che rimarranno per cinque anni e dovranno garantire il rispetto degli accordi di cessate il fuoco, mentre ai militari turchi spetterà soltanto il compito di osservatori. Forse, riusciamo a immaginare con quale terrore i cristiani che ancora vivono nel Nagorno-Karabakh guarderanno gli osservatori turchi, eredi di quell’esercito ottomano che massacrò un milione e mezzo di armeni, nel primo genocidio del XX secolo.
“C’è una configurazione geopolitica totalmente nuova”, ha dichiarato al Guardian del 10 novembre 2020 Fyodor Lukyanov, influente esperto vicino al Cremlino. La nuova configurazione elimina dal gioco gli Stati Uniti e la Francia che, insieme alla Russia, avevano tentato dal 1994 di trovare una via diplomatica per risolvere il conflitto tra Armenia e Azerbaigian. Oggi Putin discute direttamente con il vecchio compare Erdogan dopo che, ancora una volta, i due si sono trovati a sostenere fronti opposti. Un ventennio di futili iniziative diplomatiche, come era già avvenuto in Libia, è stato chiuso brutalmente dall’intervento turco a sostegno degli azeri. Quindi Erdogan è il vero vincitore della partita? È un dato di fatto che il nuovo sultano di Ankara è l’unico commander in chief che concepisce il suo ruolo in modo attivo. Ha dato più volte l’ordine di attacco, causando morti, feriti e decine di migliaia di profughi, e quindi è un personaggio che va sicuramente preso molto sul serio. Il suo problema è che per la sua politica di grandeur ottomana sta spendendo soldi che non ha.
L’economia è in grande affanno, la lira turca è ai suoi minimi storici, l’inflazione a due cifre è
fuori controllo e il debito estero non fa che aumentare. Il 7 novembre 2020 il sultano rimuove Murat Uysal, il governatore della banca centrale a cui aveva vietato di alzare i tassi di interesse per combattere l’inflazione. Il giorno dopo, Berat Albayrak, ministro delle Finanze e del Tesoro, si dimette improvvisamente per “ragioni di salute” e passano quasi 24 ore prima che la notizia venga confermata. Il fatto è che Albayrak non è un semplice ministro ma il genero di Erdogan e suo supposto erede. Qualcuno ha parlato di complotto di palazzo, ma la crisi profonda dell’economia è reale e rischia di minare la credibilità di Erdogan. Agli inizi di ottobre l’istituto di sondaggi Avrasya lo dava per perdente in una ipotetica sfida alle presidenziali del 2023 contro il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu. Se una crisi economica costringesse Ankara a chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale, il presidente turco si troverebbe a dover accettare delle condizioni che ridimensionerebbero drasticamente il suo delirio di onnipotenza.
L’altro fattore da tenere in considerazione è che dal 20 gennaio del prossimo anno alla Casa Bianca entrerà un nuovo inquilino che, con tutti i limiti di un personaggio come Joe Biden, non intende chiudere gli occhi sulle mire aggressive del sultano. Uno degli obiettivi del nuovo presidente USA è di riannodare i rapporti con l’Europa, che ha già dato segni di insofferenza verso la Turchia, per mettere a punto una politica comune. A tutto questo va ad aggiungersi la campagna per boicottare i prodotti turchi a cui hanno aderito Grecia, Armenia, Iraq, Egitto, Siria, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Il rischio drammatico è che, per tentare di consolidare il terreno che gli cede sotto i piedi, Erdogan sia tentato da qualche gesto eclatante che in una situazione complessa come l’attuale, in cui si incrociano crisi sanitaria e crisi economica, possa produrre sviluppi incontrollabili.
di Galliano Maria Speri